giovedì 30 aprile 2020

Delhi, la guerra del cibo


Gli ambulanti musulmani vendono frutta e verdura infettate dalla loro saliva. Fate attenzione, non comperate da loro”. Questi allarmi l’hinduismo estremista non li vocifera per strada, li diffonde anche tramite i suoi canali informativi. E’ l’ennesimo infimo livello dello scontro interreligioso che avviene col sostanziale lasciapassare del governo centrale. Certo, giorni fa quando la canea antiislamica stava crescendo il premier Modi ha diffuso un proclama di unità della nazione, ha vestito panni moderati sostenendo che il virus non distingue razze e fedi, colpisce tutti e nessuno dev’essere accusato, se non per comportamenti inadeguati e inosservanti le misure antipandemia. Il riferimento alla sconveniente riunione dei missionari del Tablighi Jamaat, che s’era tenuta a metà marzo in un quartiere di Delhi, è inevitabile. In fondo quella congregazione non ha giovato all’assedio che i musulmani già subivano a opera del fanatismo hindu. Ora, però, alcuni membri del gruppo colpiti dal virus e posti in quarantena reclamano un rilancio della discriminazione. In un’intervista concessa ad Al Jazeera un convalescente ormai guarito sostiene d’aver praticato un periodo di isolamento doppio, non di quattordici giorni bensì di un mese, di essere stato sottoposto a tre tamponi, risultati tutti negativi, ma di non aver ricevuto il visto sanitario per uscire dal centro dov’è rinchiuso. Peraltro in quel luogo la fornitura del cibo non rispetta le cadenze del periodo di Ramadan per i due pasti - prima dell’alba (suhoor) e dopo il tramonto (iftar) - cosicché i fedeli, già debilitati dalla malattia, in certi giorni non si possono nutrire.

Non solo la fazione avversa, ma le stesse autorità locali affermano che si tratta di bugie. Nello Stato di Delhi la guida è in mano all’Aam Aadmi Party, componente di recente formazione, sorta nel 2012 sull’onda della protesta contro la corruzione politica dilagante nel Paese. L’amministrazione ha l’appoggio dell’Indian National Congress, dunque, è un pezzo d’India che si distanzia dell’oltranzismo del Bjp. Però gli attriti coi musulmani, magari solo con toni di contrasto polemico, restano. Comunque, dopo la grave trasgressione per la quale hanno essi stessi pagato gravi conseguenze, alcuni adepti del Tablighi Jamaat in quarantena stanno collaborando con le autorità sanitarie di Delhi. Oltre a sottoporsi ai tamponi di controllo, su input del leader della confraternita missionaria, hanno donato il plasma per il trattamento di altri pazienti. Il plasma può essere raccolto da quelle persone che hanno un test positivo e sono state ricoverate. Secondo alcuni medici il sangue dei malati può sviluppare anticorpi utili a combattere la patologia, ma un gruppo di scienziati confuta questa tesi. Gli attuali numeri evidenziano 33.000 contagi, 23.000 attivi, 8.300 guariti, 1.074 morti così il governo ha parzialmente prolungato la fase del distanziamento, però il Paese segue percorsi differenziati. Gli Stati meno colpiti hanno già riaperto negozi e mercati, un po’ quel che accade in varie nazioni Ue. Come in Europa (e in Italia) si va in ordine sparso, con ciascuno che vuol fare di testa propria.  

martedì 28 aprile 2020

Kerala, dove l’Istituzione salva il cittadino


Il Vo’ Euganeo indiano ha molti più abitanti dei 3.300 del paesino padovano. Si aggiungono cinque zeri e s’arriva a 33 milioni. Tanti sono i cittadini dello stato del Kerala. Concentrati non in metropoli, Kochi, il grande porto sul mare Arabico con l’immensa periferia, non supera il milione e mezzo di abitanti. Però la densità di popolazione è elevata, sfiora le novecento unità per chilometro quadrato, la maggiore del Paese-continente. Così mentre il governo centrale di Modi si barcamena fra il contenimento pandemico e la lotta all’atavico virus della povertà di tanta popolazione, quello Stato meridionale riscontra un formidabile contenimento dell’infezione da coronavirus. La mossa vincente è stata - come nella comunità del paesino veneto che ha seguito il protocollo predisposto dal professor Crisanti - un intervento immediato e mirato sui soggetti contagiati, individuati tramite una campionatura a tappeto della popolazione. Sappiamo che a Vo’ quel giusto contenimento è stato reso possibile da strutture sanitarie territoriali, salvate dalla pandemia politica che per due decenni altrove le azzerava. La storia del Kerala è egualmente lungimirante: sostegno ai centri sanitari pubblici con un impegno di mezzo miliardo di euro negli ultimi anni, creazione d’infrastrutture e posti letto (5775) che altri Stati dell’India si sognano. Questa regione meridionale indiana ha una storia molto dedita al sociale. E’ governata alternatamente dal Partito comunista e da quello del Congresso, due soggetti attenti ai bisogni della gente. Se ne avvantaggia la popolazione che, pur fra le contraddizioni imposte dalla linea del governo centrale, ha visto crescere attorno a sé le infrastrutture della sanità e dell’istruzione. Col sui 94% il Kerala tocca il livello più alto di alfabetizzazione dell’India, che comunque registra un lusinghiero 74% generale.
Di recente il ‘rosso’ Pinarayi Vijayan, capo dell’esecutivo locale, ha sbloccato due miliardi e mezzo di crediti per sostenere gli ospedali pubblici. In rapporto alla popolazione una cifra molto superiore ai venti miliardi di euro che Modi ha stanziato per l’emergenza Covid. In altre due recenti emergenze il ‘modello Kerala’ s’era distinto per prontezza ed efficacia. Durante un’ennesima infezione virale detta “Nipah” che provocava tosse, febbre, convulsioni con rischio d’encefalite. Anche in questo caso il virus proveniva dal pipistrello e poteva esser transitato sull’uomo attraverso gli allevamenti di suini. La seconda emergenza del 2018 scaturì da terribili inondazioni nel periodo monsonico. Il sistema delle panchayat (le assemblee di comunità), peraltro antichissimo, conservato ed esaltato dal governo comunista del Kerala, funzionò alla perfezione, coordinandosi con le autorità politiche e predisponendo un isolamento dei villaggi colpiti, nel caso della Nipah, e di soccorso nei medesimi durante l’alluvione. Un sistema che fa imbestialire l’ultranazionalismo hindu, poiché conferisce ampio spazio al potere orizzontale e collettivo. Infatti in questi giorni il Kerala, che ha registrato 468 infetti e quattro vittime da Sars CoV2 (l’India dichiara 27.000 contaminati e 900 vittime), ha avviato una graduale ripartenza delle attività, contro cui Modi ha lanciato il suo anatema, chiedendo di rispettare le direttive centrali. Ma in quell’area il governativo Bjp conta poco e niente, e non può schierare quei picchiatori capaci altrove d’agire indisturbati sotto l’occhio complice della polizia.   

lunedì 27 aprile 2020

Turchia, geopandemia e geoeconomia



Nelle due ultime settimane in cui l’epidemia Sars CoV2 s’è ampiamente materializzata anche sul suolo turco - superando i 100.000 contagi ma contenendo a oggi il numero delle vittime (2.600) - il presidente Erdoğan è uscito allo scoperto sul tema. In pubblico ha parlato di opportunità per la nazione e il popolo di costituire un faro in Medioriente, non nascondendo velleità d’essere al centro della scena nella prossima fase di recupero e rilancio delle economie globali. Non che quella turca navighi in buone acque, ma le pretese di certi capitani d’impresa filogovernativi non sono tramontate e le velleità di primato del Sultano restano in bell’evidenza. Del resto proprio nella martoriata area mediorientale Erdoğan s’è ripreso la scena, tallonando Putin, incensandolo dopo averlo strattonato, riguadagnandosi uno spazio militare certamente a danno del Rojava kurdo, ma anche del resuscitato Asad. Il sostegno della stampa di regime, visto che quella critica è in gran parte incarcerata e imbavagliata, è un puntello molto utile al presidente turco per rilanciare un rapporto seduttivo verso il Paese. Così alcune iniziative che riguardano la pandemia mostrano lo zampino di chi sente d’aver ampiamente spodestato dal ruolo di padre della patria lo stesso Atatürk. In questo periodo un’azione diplomatica presidenziale ha tolto il blocco ai presidi di prevenzione (mascherine e altro) provenienti da Levante e dirette in Occidente, rimasti per settimane fermi alla dogana turca. Mentre il materiale sanitario destinato a un uso interno ha in bellavista il marchio presidenziale, così da far restare nella memoria della gente da chi proviene l’impegno per battere il malefico coronavirus.
Nelle quattro settimane del sacro mese di Ramadan, chiudendo le moschee e ricordando di non riunirsi in gruppi extra familiari per il pasto serale, Erdoğan come fosse un padre spirituale rammenta ai fedeli di vivere comunque con partecipazione questo periodo. Nella certezza che la grande e islamica Turchia riuscirà a riprendersi, a essere d’esempio per la Umma musulmana, a proporsi come guida geopolitica nella regione. In realtà gli analisti finanziari guardano all’ennesima svalutazione della lira turca, che da inizio anno ha perso un 15% di valore rispetto al dollaro, come a una prossima crisi monetaria per la nazione. Servirebbe un’iniezione di denaro dal Fondo Monetario Internazionale. Però proprio la politica estera erdoğaniana ha molto scontentato la Casa Bianca, a partire dalla vicenda dell’acquisto del sistema di difesa missilistica russo S-400. E Washington conta molto nelle scelte del Fmi. Col doppiogiochismo che gli è proprio il presidente turco fa sapere che, per ora, quel sistema è accantonato. Poi, come detto, ha sbloccato il materiale sanitario in viaggio verso l’Europa, tanto per mostrarsi collaborativo verso Germania, Francia, Italia. Fra gli Stati verso cui dovrebbe indirizzarsi il sostegno monetario del Fmi l’attuale Turchia non mostra i parametri richiesti: bassa inflazione, controllo sul deficit, conti in equilibrio. Solo un miracolo le aprirebbe le casse dell’organismo internazionale. Però un altro miracolo potrebbe comparire all’orizzonte dal rilancio internazionale post Covid, quello che può collocare attività produttive in alcune aree mondiali. La Turchia è fra i Paesi che dispone di manodopera a buon prezzo, capacità tecniche e un governo forte. Da lì potrebbe partire una risalita economica e addirittura un nuovo boom. L’attenzione è concentrata sull’emergenza sanitaria, ma le ipotesi volano avanti.

giovedì 23 aprile 2020

India, tutti contro il Coronajihad


Coronajihad la chiama la stampa più servile al regime, ma anche quella comunque non ostile al premier Narendra Modi. L’immensa nazione che sembra più affamata che malata di Sars CoV2 (è di ieri la foto d’apertura del New York Times con due giovani disperati e affamati appesi a un piatto di lenticchie) sta rinfocolando odio attorno al pericoloso quanto sconsiderato comportamento della missione islamica Tablighi Jamaat. Come già riferito (cfr. India, torna l’intolleranza sull’onda dell’epidemia) il loro incontro tenutosi dal 13 al 15 marzo nella sede della congregazione in pieno centro di New Delhi, un raduno con ottomila fedeli sparsi per i sei piani dell’edificio, nei vicoli attigui, nelle vicine moschea e madrasa, ha sicuramente contribuito a un incremento di casi virali. In più, dopo il divieto assoluto decretato dal governo di vicinanza per più di cinquanta persone, il 30 marzo nuovamente nell’area di Nizamuddin, quasi duemila adepti della comunità si sono riuniti, incuranti del pericolo per sé e la restante popolazione d’ogni angolo del Paese che avrebbero successivamente sfiorato, più o meno muniti di mascherina, visto che una parte di loro è rientrata nelle aree di provenienza. Contro lo sciagurato comportamento si sono pronunciati gli stessi rappresentanti di altre comunità musulmane dell’India, ma intanto le frange più oltranziste del governativo Bharatiya Janata Party ampliavano un tam tam carico d’odio verso gli islamici in generale, foriero di possibili futuri pogrom. I primi episodi di pestaggi rivolti a giovani musulmani, che distribuivano cibo a soggetti poveri, si sono registrati nei primi giorni d’aprile, e sul disgraziato incidente dei membri di Tablighi Jamaat il fondamentalismo hindu prepara nuovi sanguinosi assalti.
Ma accanto al radicalismo di piazza, continua a preoccupare l’escalation dell’apartheid voluto dall’attuale esecutivo e già introdotto nei settori dell’istruzione e della cultura. La situazione pandemica crea una coda anche nel sistema sanitario. In certi Stati - notizie giungono dal Gujarat, da dove Modi iniziò la scalata al potere - negli ospedali vengono predisposte sale distinte per possibili infettati. Non solo una divisione fra reparti maschili e femminili, bensì ampie zone per la maggioranza hindu e altri settori per i musulmani. Un separatismo in piena regola, ma non per prevenzione da virus. Secondo la discriminazione inseguita con meticolosa programmazione dall’hindutva - l’ideologia diffusa dalla fanatica corrente dell’hinduismo presente dai primi del Novecento e rinfocolata dal Rashtriya Swayamsevak Sangh e dallo stesso Bjp - i musulmani stessi rappresentano il virus. Un’accusa che s’aggiunge ai già noti malesseri indiani: povertà, malattie, disoccupazione, terrorismo tutti ricondotti all’Islam. Insomma la Umma è portatrice d’una sorta di stragismo virale. Certo, la confraternita Tablighi Jamaat l’ha fatta grossa. Buona parte degli infetti della zona di Delhi sono connessi al suo raduno, sebbene nella capitale la mortalità sia bassa (48 decessi) e il maggior numero delle 681 vittime contate nel Paese è concentrata nel Maharashtra (269). Finora i contagiati a livello nazionale risulterebbero 21.700. Il picco è sempre atteso per metà maggio, mentre i fuochi interreligiosi possono ripartire in ogni istante. 

Afghanistan, l'epidemia entra a Palazzo


A fronte di irrisorie cifre sui contagi della pandemia Covid-19 - i positivi risultano poco più di mille, i decessi trentasei, ma i controlli rivolti alla popolazione sono pressoché assenti - l’infezione compare improvvisamente dentro i palazzi governativi. Lo annunciano le stesse autorità statali che hanno ottenuto test e tamponi per il personale amministrativo, registrando ben quaranta casi di positività. Gli impiegati e gli addetti alla sicurezza potrebbero essersi infettati nell’edificio del Consiglio Nazionale di Sicurezza, che dovrà essere sanificato. L’allarme, allargato alle centinaia d’incaricati e inservienti delle strutture, è scattato per proteggere il settantunenne presidente Ghani, soggetto a rischio per essersi tempo addietro ammalato di tumore. Sale l’allerta anche negli apparati Onu presenti a Kabul e per le truppe Nato. Il locale ministero della Salute sostiene d’aver predisposto un piano antipandemico, ma questo forse può riguardare chi lavora negli uffici centrali (e a seguito di quanto è accaduto, le falle appaiono comunque evidenti), non certo la gran parte della popolazione per la quale valgono le norme igieniche generali e il giornaliero ‘fai da te’. E’ probabile che un certo contenimento della diffusione virale derivi dalle oggettive condizioni di isolamento della vita quotidiana, imposto nelle città dal timore attentati. Sebbene, poi, nelle abitazioni il sovraffollamento sia una costante a Kabul come nei centri maggiori. Di fatto non esiste la possibilità di ricevere informazioni da zone rurali e aree periferiche, le notizie provengono esclusivamente dalla capitale e dalle strutture ufficiali. Ad esempio, è stato reso noto che i reparti sanitari finora dedicati alla lotta alla polio sono stati riconvertiti all’emergenza Covid. Ma come in tutto il mondo, accanto ai timori per la salute è la buia prospettiva economica a mettere in ginocchio coloro che mangiano solo se riescono a vendere qualcosa al mercato o agguantano un lavoretto giornaliero. Il Paese con l’80% di tasso di povertà e il 30% di disoccupazione non potrà che veder salire tali percentuali in caso di blocco totale. Sebbene probabilmente questo blocco non sarà né ferreo né prolungato. Le forze dell’ordine sono preoccupate da altre emergenza, quella degli attentati sul territorio non è mai venuta meno. E le tensioni coi talebani, già ai ferri corti con Ghani che non vuole attuare l’accordo di Doha liberando i miliziani reclusi, in più i turbanti minacciano una rottura con gli Stati Uniti che hanno ripreso i raid coi droni pur avendo sottoscritto il cessate il fuoco. Il quadro evidenzia un ‘tutti contro tutti’ sotto diversi punti di vista: sul fronte finanziario Washington ha (almeno nelle intenzioni) tagliato un miliardo di dollari d’aiuti a Ghani che, con gli ultimi colpi di testa, ostacola la prosecuzione dei colloqui inter-afghani. Questo denaro avrebbe fatto comodo nella fase economica recessiva che si prospetta. Mentre un obolo viene dalla Banca Mondiale (dove il presidente ha lavorato a lungo), la promessa di venti milioni di dollari per contenere i mesi neri che si profilano all’orizzonte è un alito di vento in un Paese vessato e costretto alle elemosine.  

mercoledì 22 aprile 2020

Turchia, il Covid-19 riattiva il virus politico


Ferma, nonostante le conseguenti difficoltà economiche, la Turchia delle metropoli attua per la terza settimana un serrato “tutti in casa”. Le cifre della pandemia, dopo un avvio lento ai primi di marzo, sono salite considerevolmente giungendo finora a 91.000 casi, ma tenendo i decessi (oltre 2000) al di sotto dei tragici numeri di taluni Stati europei. Questo, a detta del ministero della Salute, grazie all’individuazione degli infetti tramite una diffusa pratica di tamponi eseguiti nel Paese dai primi giorni dell’allarme coronavirus. Ora i tamponi ammontano a 700.000. Come accade in alcune nazioni, c’è chi contesta i dati ritenendoli non trasparenti. E la polemica diventa politica proprio con gli amministratori delle maggiori città, la cui direzione nell’ultima consultazione locale, il partito di governo ha perso a vantaggio dei candidati dell’opposizione, principalmente repubblicana. Oltre che a Istanbul, ad Ankara, Izmir, Adana, Mersin, Antalya sono state effettuate raccolte di fondi per sostenere l’organizzazione della lotta al Covid-19, ma le somme sono state bloccate da una circolare del ministero dell’Interno che sta svolgendo indagini. Il sospetto è l’attivazione d’una campagna che condurrebbe a “uno Stato parallelo”. Uno spettro che, dal tentato golpe del 2016, continua a essere agitato e, in alcuni casi, supposto dal potere stesso. Dopo le reazioni sdegnate dei sindaci di quelle città, da alcuni giorni la vicenda sta montando con l’apertura di un’inchiesta giudiziaria e indagati risultano proprio i primi cittadini di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, e di Ankara, Mansur Yavas. Insomma, l’Esecutivo non sopporta d’essere eguagliato o superato da iniziative che non partono direttamente da proprie indicazioni. Nella fase critica le polemiche dovrebbero lasciare il posto al buon senso, ma come in altre occasioni il Palazzo sembra guardare prevalentemente a sé.

Il ministro della Salute Koca, ha evidenziato la rapidità con cui, per far fronte all’emergenza, è stato predisposto un ospedale dedicato ai contaminati dal Coronavirus, è sorto su una pista smantellata e riconvertita per questa necessità dell’aeroporto Atatürk nella metropoli sul Bosforo. Il ministero ha anche diffuso sui media cifre confortanti sui posti letto per le terapie intensive e fa di tutto per tenere sotto controllo la situazione sanitaria. Fino a oggi la popolazione sta rispondendo ordinatamente e coscienziosamente all’invito all’isolamento che viene ripetuto cinque volte al giorno, assieme alle preghiere dai minareti. Bisognerà vedere se per stanchezza o necessità lavorativa inizierà uno spontaneo quanto pericoloso rompete le righe. Il picco epidemico è previsto per la prima settimana di maggio, il professor Özlü dell’Ufficio Scientifico Nazionale ha dichiarato: “Tutto dipende dai comportamenti collettivi, rispettare il distanziamento è la prima, fondamentale norma, assieme a quelle igieniche e alla profilassi personale e di gruppo”. L’esperto fa capire che se fra 15-20 giorni la Turchia raggiungerà l’apice infettivo e terrà sotto controllo la situazione, si potrebbe pensare a una prima parziale normalizzazione lavorativa e sociale entro metà giugno. Intanto il governo, tramite il ministero del Lavoro, Famiglia e Servizi sociali sta elargendo aiuti (143 dollari) a 4.4 milioni di nuclei familiari bisognosi, in genere chi ha perso il lavoro oppure attualmente è occupato a tempo ridotto con un salario insufficiente a un sostentamento minimo. In via d’attuazione anche l’amnistia ‘sanitaria’, che prevede la scarcerazione di decine di migliaia (fra i 70 e i 90.000) di detenuti comuni, anche condannati a lunghe pene per delitti contro persone e patrimonio, ma esclude totalmente gli oppositori politici. Per quest’ultimi, considerati tutti indistintamente terroristi, non c’è salute che tenga.

martedì 21 aprile 2020

Saud, l’ultimo sequestro


La segregazione della principessa Basmah bint Saud in una prigione saudita, come lei stessa ha annunciato su Twittet (evidentemente non privata della tecnologia personale) è l’ultimo episodio della saga della repressione e di “rieducazione forzata” cui ha abituato la gestione degli affari interni da parte del principe Bin Salman. Forse non è un caso che le associazioni a favore dei diritti umani, cui la stessa principessa aderisce e offre sostegno, abbiano divulgato la notizia in concomitanza con l’apparizione del rapporto annuale di Amnesty International sulle esecuzioni capitali nel mondo. La monarchia Saud rientra - assieme a Cina, Iran, Iraq, Egitto - fra le cinque nazioni che nel 2019 hanno utilizzato più volte la pena di morte. A Riyadh in centottantaquattro occasioni, i condannati erano prevalentemente uomini (178) accusati di omicidio e questioni di droga. Sei le donne finite al patibolo. Alla principessa va molto meglio. E’ stata “solo” rapita con una delle mie figlie e condotta in galera, senza spiegazioni di sorta. E’ accaduto all’inizio di marzo e la questione è stata tenuta sotto chiave, come la sua vittima. Ora che di tempo ne è trascorso abbastanza, temendo anche per la sua salute, ha pregato il sovrano e il principe Bin Salman d’essere rilasciata per non aver fatto nulla di male. E le sue associazioni con sede in Gran Bretagna, dove lei stessa ha risieduto a lungo prima di rientrare nella penisola araba, hanno fatto da cassa di risonanza a una situazione divenuta delicata.
La principessa non è l’unico sequestro del periodo. Anche il principe Faisal, figlio del re Abdullah e all’epoca responsabile della Mezzaluna Rossa, è stato bloccato a fine marzo col sospetto di essere affetto dal Covid-19. Vero, falso? Comunque da un ipotetico isolamento per quarantena è stato condotto in carcere e da venticinque giorni i familiari non sanno niente di lui. La mano del principe-sovrano dovrebbe aver dettato questi arresti che, pur rivolti a singoli, paiono in linea con la prassi coercitiva già imposta in altre occasioni ad appartenenti alla corposa famiglia reale. La prigione dorata dell’hotel Ritz-Carlton di Riyadh, in cui Bin fece rinchiudere undici membri della famiglia Saud accusandoli di corruzione, è rimasta negli annali neri di famiglia. Qualcuno dei principi, non sfuggì alla prigione vera, e uno dei più potenti, Turki bin Abdullah, è tuttora detenuto. Perché accanto al programma riformatore (Vision 2030) di diversificazione dell’economia da Stato redditiere - peraltro utile in situazioni come l’attuale di caduta del prezzo del petrolio - Bin Salman cerca di eliminare ogni diretto concorrente (fratelli, fratellastri, cugini) a una gestione accentrata del potere. Ma sappiamo che il suo cinismo ha fatto di più.
Il grande principe, come ogni oligarca, non tollera la dissidenza. E nel caso del giornalista Jamal Khashoggi, è giunto a tagliarla letteralmente a pezzi. Ha poi ammesso che si è trattato d’un errore e ha voltato pagina, aiutato da potenti e potentati del mondo che hanno steso un velo, nient’affatto pietoso ma intriso di correità, con la corona assassina. Ora la “censura” imposta alla principessa che parla di diritti umani, è un ennesimo avvertimento. Perché la signora Basmah, dopo un divorzio da un marito appartenente a un clan saudita di rango, se ne andò in Inghilterra a seguire i propri affari, e fin lì tutto bene. Poi s’è appassionata a questioni umanitarie, trasformando una posizione di riformismo moderato sui problemi interni sauditi, in richieste sempre più scomode per la corona. Interveniva sui metodi d’interrogatorio della polizia ufficiale, sul ruolo della polizia religiosa, fino a inoltrarsi sulle leggi islamiche che vietano raduni misti di uomini e donne. Insomma, troppo per il principe-riformatore che sulle innovazioni pretende l’esclusiva e alle donne, a certe donne, concede al massimo la patente di guida automobilistica. Insomma Basmah ha varcato i limiti e il sequestro, anche prolungato, dovrebbe servire a rimetterla in riga. E tanto per incuterle brividi maggiori, la sicurezza interna la tiene rinchiusa in una galera di quelle grevi, dove circolano detenuti d’ogni estrazione, finanche i possibili condannati a morte. Così la cerchia amicale della principessa rivela alla stampa che lei ha inviato un ‘cinguettìo’ al Dominus, sperando in un “gesto d’umanità”.

domenica 19 aprile 2020

Iran, medici a rischio infezione


Cifre epidemiche in crescita in Iran. A preoccupare maggiormente sono le grandi concentrazioni urbane, ma nel Paese si teme una ripresa dei focolai infettivi per il riavvio delle attività voluta dal governo e da talune categorie, tutti preoccupati dalle ristrettezze economiche. Immagini provenienti dal grande bazar di Teheran mostrano tante saracinesche abbassate e scarse presenze nei negozi e nei centri commerciali a nord della capitale, verso Tajrish. Comunque altri scorci rivelano un cospicuo traffico automobilistico sulle arterie di scorrimento e un discreto numero di persone per via e sui mezzi di trasporto pubblico. Ciascuno più o meno protetto. Restano tuttora serrati ristoranti, palestre, scuole, università e le stesse moschee. Per tutti si prevede l’apertura in una terza fase, dopo aver monitorato quel che accadrà quando l’iniziativa mercantile entrerà a pieno regime. Ma le autorità clericali dovranno valutare come comportarsi nel mese sacro del Ramadan che inizia fra quattro giorni, una fase che dopo il digiuno diurno prevede riunioni più o meo ampie per il pasto serale. Con  interviste concesse a qualche corrispondente di testate internazionali è il personale medico a lanciare un doppio allarme: rivolto alla popolazione, per la quale ora si teme un incrudimento dei livelli infettivi, e diretto ai colleghi che alla stregua dei sanitari di tante nazioni, lavorano, si contaminano, muoiono per mancanza di un’adeguata protezione. Così alcuni ospedalieri, mantenendo per ragioni di sicurezza l’anonimato, avanzano dubbi sui numeri dell’epidemia offerti dal governo: circa 80.000 infettati e poco più di cinquemila vittime. Gli interpellati sostengono che i medici deceduti sono più del doppio dei 42 morti annunciati dall’agenzia di Stato. Sul tema d’una realistica lettura delle cifre semplicemente raddoppiando quelle diffuse dal ministero della Salute si sono espressi anche alcuni parlamentari. In ogni caso nessuno contesta, magari per scaramanzia, il dato offerto da alcuni giorni sul numero dei decessi a Teheran sceso sotto le cento unità. Per i medici uno scottante problema resta la prevenzione durante l’assistenza nei reparti Covid-19. La fornitura di mascherine, guanti, tute risulta insufficiente. Così pensando all’incolumità propria e dei pazienti chi può si procura quel che riesce a trovare sul mercato ufficiale e ufficioso, e lo fa a proprie spese. Questi acquisti seguono forniture dai canali asiatici, visto che l’embargo occidentale continua a ostacolare e ostracizzare la Repubblica Islamica. Ma individualmente, solo i dottori che svolgono anche un’attività privata - e dispongono d’un reddito maggiore dei colleghi ospedalieri, pagati meno di 100 dollari mensili - possono procurarsi il citato materiale, che resta di non facile reperibilità.

martedì 14 aprile 2020

India, farmaci e globalizzazione


La dipendenza del sistema globalizzato da certe produzioni concentrate in talune “fabbriche del mondo”, evidenziato nelle scorse settimane dalla richiesta di mascherine protettive, scopre l’ennesimo capitolo su alcuni farmaci. Correlati se non direttamente all’emergenza Coronavirus, certamente a fabbisogni di tante nazioni. In primo piano sempre l’India che con alcune industrie (Laboratori Ipca e Zydus Cadila) provvede alla produzione e al rifornimento addirittura d’interi continenti. E’ così per i principi attivi di paracetamolo, diversi antivirali e antibiotici, vitamine del gruppo B1, B6, B12. Dal 3 marzo l’esportazione di questa merce è stata bloccata dal governo Modi che s’apprestava a varare un piano di contenimento dell’infezione Sars Cov2. Da parte loro gli industriali farmaceutici indiani erano in fibrillazione perché l’elaborazione di principi attivi non stava ricevendo gli elementi chimici di base dal mercato cinese, finito in quarantena per la pandemia. Intanto la filiera occidentale, dall’Europa all’America, lamentava a sua volta il blocco operato dal governo di Delhi. Mentre le varie sperimentazioni mediche in corso in più nazioni cercano riscontri, ad esempio, nell’idrossiclorochina, non poter disporre di quella molecola per la chiusura dei commerci creava tensioni internazionali. Le cronache raccontano che la scorsa settimana il presidente statunitense abbia chiamato di persona il premier indiano e fra una lusinga, con la promessa di aiuti finanziari, e la minaccia d’istituire ben più devastanti embarghi, ha ottenuto una retromarcia di Modi.

Cosicché le molecole alla base dei citati farmaci possono nuovamente viaggiare verso diversi Paesi del mondo. Il problema attuale per la farmaceutica indiana è riavviare una produzione che in queste settimane ha ampliato enormemente le commesse, tanto da poter in proiezione raddoppiare gli introiti di settore, che nel 2019 hanno superato i 17 miliardi di euro. Dunque il nodo è la ripresa del lavoro, la fine del distanziamento sociale in una nazione dove il picco dei contagi è atteso fra un mese (attualmente le quote degli infettati risultano bassissime, meno di 7000 casi per 249 vittime). Proprio oggi il governo Modi deve decidere se prolungare la chiusura o meno. La questione accomuna tante economie che si trovano a fare i conti coi legami indissolubili del globalizzazione. Nel settore farmaceutico l’India provvede al 60% della domanda mondiale di vaccini e antivirali e al 57% dei principi attivi (il suo primo cliente sono proprio gli States col 30% delle commesse). Oltre alla possibilità di ripresa del lavoro in sicurezza - che è tutta da verificare un po’ ovunque e in India ancor più - c’è la questione della chiusura di porti e aeroporti, almeno finché non cessa l’emergenza. Così in molte nazioni, come sta accadendo per mascherine e respiratori, scatta la necessità dell’autoproduzione. Ma questa per certe merci non può avviarsi né con facilità né in tempi brevi.  Non è un caso che la chimica farmaceutica, più o meno pericolosa, sia stata concentrata in territorio indiano. Bassissimi costi di manodopera, inquinamento ambientale sono temi sensibili agli industriali, ovviamente per evitare spese e controlli, incrementando i profitti. E in certi angoli del mondo governi e Parlamenti aiutano simili piani perversi.

lunedì 13 aprile 2020

India, torna l’intolleranza sull’onda dell’epidemia


La sempre calda e movimentata India riaccende le tensioni nei difficili giorni della chiusura per l’epidemia di Sars Cov2. Alcuni giovani musulmani intenti a distribuire cibo ai poveri sono stati aggrediti a colpi di bastone, mentre nel Punjab lo speaker dei templi Sikh invitava la popolazione a non acquistare latte dai contadini islamici perché poteva risultare infetto. Messaggi di odio sono diffusi online, e sul web taluni video falsificati mostrano presunti islamici che non usano mascherine di protezione, non rispettano le distanze di sicurezza, non si preoccupano dei rischi dell’epidemia. Però il movimento missionario musulmano Tablighi Jamaat ha offerto il fianco all’intolleranza hindu. Si tratta di una congregazione con decine di milioni di adepti che ha una sede nella periferia di Delhi. Un enorme edificio che funge anche da centro economico, foresteria, agenzia di viaggio, luogo di compere per la comunità che lo frequenta. Il quel luogo il mese scorso s’è svolto un incontro col leader spirituale del gruppo. Era metà marzo e il governo Modi, già in ritardo nell’arginare l’infezione, aveva vietato riunioni di più di cinquanta persone. Eppure l’autorevole esponente del Tablighi Jamaat, Maulana Kandhalvi, teneva un sermone davanti a centinaia di fedeli, tutti a contatto di gomito. Da quell’incontro di fedeli è sicuramente scaturito un focolaio di contagi. Successivamente il governo è corso a rintracciare i partecipanti, ponendoli in quarantena.
Un portavoce del ministero degli Esteri ha dichiarato che il governo è dovuto intervenire contro simili incontri per gli oggettivi pericoli di contaminazione. A suo dire, non c’è stato nessun indice di colpevolezza verso la comunità religiosa. Però relazioni stilate da ispettori governativi sostengono che ancora a inizio aprile un gran numero di persone era raccolto nel centro, tutte prive di mascherine e qualsiasi strumento di prevenzione. Un comportamento stigmatizzato anche da parecchi leader musulmani. Così i sigilli posti alla sede della missione islamica e le accuse rivolte dalle autorità di Delhi direttamente a Kandhalvi, per aver col suo sermone attentato deliberatamente e ampiamente alla salute pubblica, non possono venir classificate come azioni persecutorie. Ma i rappresentanti musulmani sono preoccupati dalle tensioni di ritorno, visto che nei mesi invernali fino a febbraio, il fondamentalismo hindu aveva soffiato sul fuoco dell’intolleranza attaccando e uccidendo decine di confratelli. Si sostiene che il governo, anche riguardo alla salute pubblica, proceda in maniera faziosa, perché un conto è muoversi per garantire la sicurezza attorno a un focolaio come quello della sede di Tablighi Jamaat, altra cosa è divulgare a mezzo stampa una sorta di colpa per l’incremento dell’infezione. Su tali ambiguità l’estremismo si accresce. I nazionalisti hindu non si sono lasciati sfuggire l’occasione per minacciare, anche in questi giorni di distanziamento sociale, ronde antislamiche e assedi ai quartieri islamici. E il partito di estrema destra Maharashtra Navnirman Sena ha già lanciato una campagna per dare la caccia agli adepti del Tablighi Jamaat.

sabato 11 aprile 2020

L’Iran opta per la necessità economica


La Repubblica Islamica Iraniana, che ha smesso anche di pregare in moschea e che orienta in forma assolutamente privata il prossimo Ramadam (23 aprile-23 maggio), sceglie di riavviare da oggi le attività lavorative in quasi tutte le province. In tal senso s’è pronunciato il presidente Rohani a seguito d’un incontro ristretto con alcuni membri di governo. Anche il Majles riunito dopo oltre un mese di chiusura - sebbene mancassero all’appello oltre quaranta membri, fra cui il rappresentante del Parlamento Larijani - ha bocciato la proposta avanzata da un’ottantina di deputati di proseguire per un altro mese la chiusura preventiva d’ogni attività. E mentre da fonti mediche si teme un incremento della pandemia com’era accaduto a inizio marzo, e che secondo i dati ufficiali poi avrebbe rallentato contando sessantaseimila contagiati e quattromilacento vittime, lo Stato sembra anteporre la ragione economica alla salute pubblica. D’altro canto i dati ufficiali vengono contestati da fonti diverse. Gli oppositori del regime all’estero propongono cifre (oltre 23.000 vittime) che porterebbero l’Iran in cima al resoconto mondiale dei decessi, mentre più realistiche proiezioni offerte da chi studia il fenomeno pandemico globale tenderebbero a moltiplicare per tre i numeri riferiti dal governo. In ogni caso la paura del crollo economico, già motivo delle contestazioni sociali dell’ultimo biennio, conducono il ceto politico a scegliere la via dell’apertura. Visto che il denaro serve alle famiglie e allo Stato che finora ha investito un miliardo di dollari per arginare l’emergenza sanitaria e  sociale.
Soprattutto l’accresciuta disoccupazione, aumentata di cinque milioni di unità, preoccupa il governo. Un esempio: il fermo blocca tutta un’attività mercantile legata non solo e tanto ai famosi bazari, ma al loro indotto incentrato su commerci minuti, realizzati da nuclei familiari o singole persone, che al di là della piazza non hanno nessun altro introito e supporto. Per una nazione già pesantemente piegata dall’embargo occidentale, e ora carente anche negli scambi col gigantesco partner cinese, le prospettive diventano preoccupanti. A tal punto che la sua orgogliosa classe dirigente ha compiuto un passo che non si sarebbe mai sognata di fare: chiedere un prestito al demone del Fondo Monetario Internazionale. Un prestito da cinque miliardi di dollari che viene avanzato sessant’anni dopo l’emissione di un “credito di riserva” finora mai utilizzato per questo Paese. La domanda è correlata all’emergenza prodotta dalla pandemia, che secondo Rohani, non può vedere l’istituzione internazionale praticare discriminazioni geopolitiche. La nazione avversaria per eccellenza di Teheran, gli Stati Uniti, prima d’essere messa essa stessa in difficoltà dalla Sars Cov2, aveva offerto all’Iran aiuti umanitari. La risposta era stata secca: no grazie, piuttosto occorre revocare le sanzioni in una fase definita dal presidente-ayatollah “terrorismo economico-sanitario”. Per ora non s’è mosso nulla e ovviamente i focolai dell’epidemia non sono spenti. Riportare la gente per via può produrre conseguenze pericolose. Da oggi rimarrebbe chiusa soltanto Teheran, ma solo per un’altra settimana. Dopo liberi tutti.  

venerdì 10 aprile 2020

Afghanistan, arresti e liberazioni


C’è fermento in questi giorni nelle carceri afghane per l’annosa questione del rilascio dei detenuti talebani e per l’arrivo d’un prigioniero eccellente. Mercoledì il governo Ghani ha deciso unilateralmente la scarcerazione di cento miliziani reclusi, come gesto di buona volontà sulla questione delle 5000 liberazioni assicurate dall’accordo di Doha fra la delegazione dei turbanti e quella statunitense. Com’è noto i rappresentanti di Kabul, che hanno subìto quell’accordo però detengono le chiavi delle prigioni, affermano di voler liberare gradualmente i miliziani. Il mullah Baradar, che ha firmato l’accordo al cospetto di Khalilzad e molto s’è speso per moderare la Shura di Quetta, è infuriato. I suoi collaboratori accusano il governo Ghani di praticare tatticismi volti a perdere tempo per entrare in una partita che l’aveva visto escluso. Quest’ultimo, pur avendo problemi interni per la reiterata rivalità con Abdullah che s’è nominato antipresidente, sostiene la necessità di verificare l’identità e la tipologia dei soggetti da rilasciare. In tal modo scontenta anche il padrone americano, che col Segretario di Stato Pompeo ha già annunciato una sanzione verso Kabul tagliando un miliardo di dollari d’aiuti previsti per l’anno in corso. In più col frazionamento delle scarcerazioni i minimi approcci fra talebani e amministrazione Ghani minacciano di deragliare del tutto.
Subito dopo il rilascio dei cento miliziani un portavoce talebano ha annunciato un blocco del processo di scambio (anche i turbanti dovrebbero consegnare dei soldati afghani fatti prigionieri), poiché sebbene i nominativi fossero frutto d’un patteggiamento fra le parti, mancano una quindicina di nomi indicati dai turbanti. Kabul risponde che la lista ha seguito criteri stabiliti per età, condizioni di salute, consistenza della pena. Insomma visioni di parte e criteri assolutamente differenti. Tutto ciò si riversa su un terreno che dopo un mese (l’accordo di Doha prevedeva la liberazione dalla prima settimana di marzo) riprende a diventare accidentato su altri due questioni salienti: ritiro delle truppe Nato e cessate il fuoco. Per la tensione in atto non s’è visto alcun preparativo di rientro di militari americani. Anzi, poiché si sono verificati diversi episodi di scontro fra taliban e Afghan Security Forces, con morti da ambo le parti, l’esercito statunitense resta nella basi. E se ha interrotto pericolose azioni di terra, si ritrova spesso a sostenere con bombardamenti aerei l’alleato afghano, che sul terreno non regge lo scontro coi guerriglieri. Chi, invece, è entrato nelle galere afghane è nientemeno che il leader dell’Iskp (Stato Islamico del Khorasan) Aslam Farooqi, da poco arrestato con un gruppo di fedelissimi durante un’operazione di Intelligence svoltasi in un’area afgana.
L’uomo è accusato d’aver diretto l’attacco al tempio sikh nella Kabul vecchia che è costato la vita a venticinque persone. Alla sua detenzione s’è mostrata interessatissima anche Islamabad, che ha contatto l’ambasciatore afghano presente nella capitale per chiederne l’estradizione, visto che Farooqi è accusato di terrorismo per attentati compiuti dal cosiddetto Stato Islamico del Khorasan anche in alcune province pakistane. Lì dal 2007 operava la frangia dissidente dei Teerik–i Taliban, che hanno gruppi nei territori delle Fata, nel Waziristan settentrionale e nel Punjab, e si sono distinti per azioni cruente rivolte alla popolazione e vendette contro l’esercito, tristemente nota nel 2014 la strage nella scuola di Peshawar frequentata da figli di militari pakistani. Negli ultimi tre anni in Afghanistan l’Iskp ha ingaggiato un confronto a suon di attentati coi talebani ortodossi per dimostrare la sua forza militare e un radicamento nel territorio. Dopo l’arresto di Farooqi, e la richiesta di estradizione da parte pakistana, su certa stampa filogovernativa indiana è apparsa l’insinuazione che quel Paese volesse il terrorista per chissà quale iniziativa benevola nei suoi confronti. Ne è seguita una nota sdegnata di Islamabad che ha bollato come “maliziosa e condannabile” l’insinuazione. Ma nelle note avvelenate che s’intrecciano, il passato racconta che fra Isi (l’Intelligence pakistana) e Isil locale (compresi i taliban dissidenti) ci sia stata una vicinanza non solo di acronimìa, che peraltro può proseguire.

mercoledì 8 aprile 2020

Media indiani, un mondo per Modi


Se il potere detesta l’informazione, le autocrazie passano alle vie di fatto. L’abbiamo visto in Russia, col killeraggio precedente e contemporaneo dell’era Putin, nella Turchia erdoganiana che continua a riempire le galere di cronisti e opinionisti, nell’Egitto del golpista Sisi che i giornalisti li imprigiona e li fa sparire. Passando per il ‘riformatore’ saudita Bin Salman, il principe-sovrano capace di far tagliare a pezzi l’editorialista, un tempo di corte poi divenuto scomodo, Jamal Khashoggi e far passare tutto per  incidente causato da un’Intelligence un po’ esuberante. Certi piccoli-grandi omicidi, efferati e misteriosi, sono accaduti anche da noi coi De Mauro, Alfano, Fava, Impastato, Alpi. Commistioni delittuose di Stato e mafia, come le ultime della maltese Caruana Galizia e dello slovacco Kuciak. Oltre a perseguire i singoli e, magari, sbarazzarsene, comunque i regimi ottengono più dalla crudezza di leggi, o dall’aria che tira, che dalla crudeltà di esecuzioni esemplari. E’ l’intimidazione scivolosa che ottunde l’operato di quel giornalismo poco propenso al senso civile e deontologico d’una professione che deve controllare il potere, non incensarlo e servirlo. Nell’India di Modi quest’operazione è in atto in un settore che, come tutto nella nazione-continente, giganteggia. Difficile trovare altrove un patrimonio che, secondo il New York Times, vanta 17.000 quotidiani e quasi 100.000 periodici. Con l’aggiunta di ben 178 emittenti televisive.  Un mondo. Dal quale il politico che opprime col sorriso del buon padre di famiglia, ha già ottenuto una santificazione divulgando la sua storia (vera) di uomo venuto dal nulla che punta a unire e proteggere la nazione indiana (nota piuttosto stonata e falsa).

Al di là di questioni di per sé divisive come la contestatissima legge sulla migrazione da Stati attigui che è consentita a tutte le minoranze religiose ad eccezione dei musulmani. Oppure la recentissima applicazione, anche ora in piena emergenza pandemica, della cittadinanza nella regione autonoma del Kashmir, che grazie al governo ha perduto la sua originaria autonomia sancita dalla Costituzione, i fedeli ministri di Modi sono in caccia costante di quei cronisti disposti a descrivere ciò che non va, a raccontare lati oscuri dell’amministrazione, fossero anche storie minute ma indicatrici della mistificazione e della propaganda a senso unico di cui il governo si circonda grazie all’acquiescenza di una stampa controllata o asservita. Un video di un giornalista precario, finito sul web e diventato visitatissimo, descriveva le condizioni di mancato sostegno agli studenti d’una scuola nella provincia di Varanasi nutriti per l’intera giornata solo con una focaccia. Beh, il reporter s’è ritrovato sul groppone una denuncia penale per falso, truffa e cospirazione, così da rischiare sino a sette anni di reclusione. Il caso non è affatto singolare né singolo. E purtroppo parecchio personale dedito all’informazione nella migliore delle ipotesi pensa a non rischiare il posto di lavoro, viste le pressioni a catena rivolte dal governo agli editori e da quest’ultimi ai giornalisti. Ma ci sono anche parecchi che accettano l’omologazione. Specie fra i mezzibusti televisivi s’è scatenata una corsa al comportamento più zelante e disponibile alle tendenze più estreme e fanatiche, anche sotto l’ottica del fondamentalismo religioso, di cui il governo si rende protagonista. La moda d’essere per Modi, rischia di trasformare i media indiani nel mondo di Modi. E pure in quelle latitudini il potere s'è "liberato" di talune penne libere. 

lunedì 6 aprile 2020

Taliban, iniziative anti Covid e anti Ghani


L’Ak-47 d’assalto e la mascherina di protezione primaria, i combattenti taliban si sono presentati così in alcuni villaggi delle province afghane. Divulgano l’abc per difendersi dal contagio della Sars-Cov2: usare una maschera o un succedaneo per la protezione di bocca e naso, se è possibile guanti, lavarsi spesso e bene le mani. Informano le persone a non raccogliersi in gruppo, evitare festeggiamenti, rimandare matrimoni, addirittura pregare in casa e non in moschea. Una linea integerrima. I dati ufficiali del contagio sono bassissimi (400 o poco più) anche perché i controlli risultano inesistenti, ma il timore dell’epidemia è presente a ciascuna componente, governativa e anti. Forse più per giustificare il proprio immobilismo che per amichevole benevolenza, il ministero della Salute di Kabul ha applaudito l’iniziativa talebana, un passo di pubblico servizio molto più utile di tanti discorsi di pacificazione nazionale rimasti in bilico per ripicche e personalismi politici. L’azione taliban sul tema dei pericoli del contagio sarà anche funzionale alla propria propaganda di soggetto politico che cerca consensi e punta a ricoprire incarichi istituzionali, ma più del rissoso esecutivo sta offrendo indicazioni su igiene, comportamenti, nutrizione mentre in varie province i governatori latitano. Comunque il ministero della Salute fa sapere che in alcune aree sono attive unità sanitarie intente a collaborare con gruppi di Ong per la prevenzione sul territorio. Dovrebbero, ma il condizionale è d’obbligo, giungere agli operatori anche quei presidi medici per tutelarne il lavoro, però la scarsità del materiale è palese. In più s’è già verificato l’ostracismo talebano verso organizzazioni internazionali, ad esempio la Croce Rossa, cui viene vietato l’ingresso in aree controllate dalle milizie fondamentaliste per pregressi contrasti e accuse di collaborazione con le forze d’occupazione Nato. Il settarismo è stato stigmatizzato dalle strutture di soccorso e dagli stessi governativi che sottolineano come almeno durante la crisi sanitaria ci dovrebbe essere, se non cooperazione, perlomeno l’assenza di reciproci ostacoli, perché ne risente la salute pubblica. Sotto osservazione la zona di Herat, sul confine occidentale, per l’ingresso di profughi dai campi iraniani o lavoratori frontalieri da cui sono scaturiti i primi contagi. E se l’epidemia rappresenta un impegno, o un pronunciamento d’impegno, dei due fronti contrapposti, talebano e governativo, sulla questione del piano di pace la situazione si fa critica. I talebani minacciano di far saltare l’accordo e di riprendere a far saltare i camion-bomba se il presidente Ghani non attua la liberazione dei 5000 prigionieri che da circa un mese sarebbero dovuti uscire dalle galere. Ghani continua a opporsi, ma il filo può spezzarsi e aggiungere al Coronavirus un nuovo fronte di fuoco.

sabato 4 aprile 2020

Turchia, Helin il canto della morte


Helin Bolek ha scelto di morire nei giorni della morte. Ma il suo decesso non è segnato dalla pandemia che sta flagellando il mondo. Helin, cantante e attivista turca, era da quasi dieci mesi in sciopero della fame contro il regime dell’Akp. Altri componenti del ‘Grup Yorum’, una band musicale con trentacinque anni di presenza sulle scene nazionali a sostegno delle lotte popolari ed etniche, stanno tuttora praticando questo estremo gesto di ribellione. Il gruppo unisce echi della tradizione anatolica alle proteste che la vita in quell’area propone, soprattutto per gli attriti fra le minoranze etniche (kurda, araba, circassa) e il potere centrale. Negli ultimi anni questo potere s’incarna nel personalismo autoritario di Recep Tayyip Erdoğan. Già nel 2015 alcuni concerti del gruppo erano stati vietati. Il suo punto di riferimento, un centro culturale nella metropoli di Istanbul, è stato perseguitato dalle forze dell’ordine con perquisizioni, intrusioni, danneggiamenti. Durante ogni azione repressiva si verificavano distruzioni, fermi e arresti. Il complesso musicale viveva lo stesso clima subìto dalle redazioni di quotidiani, riviste, emittenti radiofoniche o singoli giornalisti, scrittori, editori, artisti: blocco dell’attività, censura, incriminazioni di vario genere per attentato alla sicurezza nazionale. Per Helin Bolek e Ibrahim Gokcek l’accusa era diventata ossessiva e hanno optato per la clamorosa protesta. Il chitarrista la sta proseguendo, deciso a morire anche lui, come lei. Disprezzo per la vita? Diremmo disprezzo per certe vite da parte del governo, del presidente che non hanno mostrato un minimo di attenzione a chi con disperazione e determinazione gridava il desiderio di esprimersi, cantare dare voce ai bisogni delle minoranze, ai sogni delle persone. Verso quella protesta estrema e pericolosa si è risposto con la disattenzione, il silenzio, l’indifferenza. Cui s’uniscono il conformismo e la paura della maggioranza dei turchi soggiogati al sultano-padrone, il dominus che decide per tutti. Proprio in questi giorni il Parlamento sta discutendo sull’attuazione di una grande amnistia per alleggerire le carceri turche da un sovrappopolamento in tempo di coronavirus. Se non saranno 90.000 i detenuti rimessi in libertà, ci andranno vicino. Ma la perfidia del potere bloccherà in cella oppositori e liberi pensatori. Certi nomi invisi a Erdoğan come lo scrittore Altan, arrestato, liberato e riarrestato per reati d’opinione, resteranno rinchiusi. Così il co-presidente del Partito democratico del popolo, il kurdo Demirtaş, incarcerato dal novembre 2016 con l’accusa di terrorismo, che nell’epidemia in atto è un elemento a rischio perché afflitto da problemi cardiaci.