La Repubblica Islamica Iraniana, che ha smesso anche di
pregare in moschea e che orienta in forma assolutamente privata il prossimo
Ramadam (23 aprile-23 maggio), sceglie di riavviare da oggi le attività
lavorative in quasi tutte le province. In tal senso s’è pronunciato il
presidente Rohani a seguito d’un incontro ristretto con alcuni membri di
governo. Anche il Majles riunito dopo oltre un mese di chiusura - sebbene mancassero
all’appello oltre quaranta membri, fra cui il rappresentante del Parlamento Larijani
- ha bocciato la proposta avanzata da un’ottantina di deputati di proseguire
per un altro mese la chiusura preventiva d’ogni attività. E mentre da fonti
mediche si teme un incremento della pandemia com’era accaduto a inizio marzo, e
che secondo i dati ufficiali poi avrebbe rallentato contando sessantaseimila
contagiati e quattromilacento vittime, lo Stato sembra anteporre la ragione
economica alla salute pubblica. D’altro canto i dati ufficiali vengono contestati
da fonti diverse. Gli oppositori del regime all’estero propongono cifre (oltre
23.000 vittime) che porterebbero l’Iran in cima al resoconto mondiale dei
decessi, mentre più realistiche proiezioni offerte da chi studia il fenomeno
pandemico globale tenderebbero a moltiplicare per tre i numeri riferiti dal
governo. In ogni caso la paura del crollo economico, già motivo delle contestazioni
sociali dell’ultimo biennio, conducono il ceto politico a scegliere la via
dell’apertura. Visto che il denaro serve alle famiglie e allo Stato che finora ha
investito un miliardo di dollari per arginare l’emergenza sanitaria e sociale.
Soprattutto l’accresciuta disoccupazione, aumentata di cinque
milioni di unità, preoccupa il governo. Un esempio: il fermo blocca tutta un’attività
mercantile legata non solo e tanto ai famosi bazari, ma al loro indotto incentrato
su commerci minuti, realizzati da nuclei familiari o singole persone, che al di
là della piazza non hanno nessun altro introito e supporto. Per una nazione già
pesantemente piegata dall’embargo occidentale, e ora carente anche negli scambi
col gigantesco partner cinese, le prospettive diventano preoccupanti. A tal
punto che la sua orgogliosa classe dirigente ha compiuto un passo che non si
sarebbe mai sognata di fare: chiedere un prestito al demone del Fondo Monetario
Internazionale. Un prestito da cinque miliardi di dollari che viene avanzato
sessant’anni dopo l’emissione di un “credito di riserva” finora mai utilizzato
per questo Paese. La domanda è correlata all’emergenza prodotta dalla pandemia,
che secondo Rohani, non può vedere l’istituzione internazionale praticare
discriminazioni geopolitiche. La nazione avversaria per eccellenza di Teheran,
gli Stati Uniti, prima d’essere messa essa stessa in difficoltà dalla Sars Cov2,
aveva offerto all’Iran aiuti umanitari. La risposta era stata secca: no grazie,
piuttosto occorre revocare le sanzioni in una fase definita dal
presidente-ayatollah “terrorismo economico-sanitario”. Per ora non s’è mosso
nulla e ovviamente i focolai dell’epidemia non sono spenti. Riportare la gente
per via può produrre conseguenze pericolose. Da oggi rimarrebbe chiusa soltanto
Teheran, ma solo per un’altra settimana. Dopo liberi tutti.
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