C’è fermento in questi giorni nelle carceri afghane
per l’annosa questione del rilascio dei detenuti talebani e per l’arrivo d’un
prigioniero eccellente. Mercoledì il governo Ghani ha deciso unilateralmente la
scarcerazione di cento miliziani reclusi, come gesto di buona volontà sulla
questione delle 5000 liberazioni assicurate dall’accordo di Doha fra la
delegazione dei turbanti e quella statunitense. Com’è noto i rappresentanti di
Kabul, che hanno subìto quell’accordo però detengono le chiavi delle prigioni, affermano
di voler liberare gradualmente i miliziani. Il mullah Baradar, che ha firmato
l’accordo al cospetto di Khalilzad e molto s’è speso per moderare la Shura di
Quetta, è infuriato. I suoi collaboratori accusano il governo Ghani di
praticare tatticismi volti a perdere tempo per entrare in una partita che
l’aveva visto escluso. Quest’ultimo, pur avendo problemi interni per la
reiterata rivalità con Abdullah che s’è nominato antipresidente, sostiene la
necessità di verificare l’identità e la tipologia dei soggetti da rilasciare. In
tal modo scontenta anche il padrone americano, che col Segretario di Stato
Pompeo ha già annunciato una sanzione verso Kabul tagliando un miliardo di
dollari d’aiuti previsti per l’anno in corso. In più col frazionamento delle
scarcerazioni i minimi approcci fra talebani e amministrazione Ghani minacciano
di deragliare del tutto.
Subito dopo il rilascio dei cento miliziani un portavoce
talebano ha annunciato un blocco del processo di scambio (anche i turbanti
dovrebbero consegnare dei soldati afghani fatti prigionieri), poiché sebbene i
nominativi fossero frutto d’un patteggiamento fra le parti, mancano una
quindicina di nomi indicati dai turbanti. Kabul risponde che la lista ha
seguito criteri stabiliti per età, condizioni di salute, consistenza della
pena. Insomma visioni di parte e criteri assolutamente differenti. Tutto ciò si
riversa su un terreno che dopo un mese (l’accordo di Doha prevedeva la
liberazione dalla prima settimana di marzo) riprende a diventare accidentato su
altri due questioni salienti: ritiro delle truppe Nato e cessate il fuoco. Per
la tensione in atto non s’è visto alcun preparativo di rientro di militari
americani. Anzi, poiché si sono verificati diversi episodi di scontro fra taliban
e Afghan Security Forces, con morti da ambo le parti, l’esercito statunitense
resta nella basi. E se ha interrotto pericolose azioni di terra, si ritrova
spesso a sostenere con bombardamenti aerei l’alleato afghano, che sul terreno
non regge lo scontro coi guerriglieri. Chi, invece, è entrato nelle galere
afghane è nientemeno che il leader dell’Iskp (Stato Islamico del Khorasan)
Aslam Farooqi, da poco arrestato con un gruppo di fedelissimi durante
un’operazione di Intelligence svoltasi in un’area afgana.
L’uomo è accusato d’aver diretto l’attacco al tempio
sikh nella Kabul vecchia che è costato la vita a venticinque persone. Alla sua
detenzione s’è mostrata interessatissima anche Islamabad, che ha contatto
l’ambasciatore afghano presente nella capitale per chiederne l’estradizione, visto
che Farooqi è accusato di terrorismo per
attentati compiuti dal cosiddetto Stato Islamico del Khorasan anche in alcune
province pakistane. Lì dal 2007 operava la frangia dissidente dei Teerik–i
Taliban, che hanno gruppi nei territori delle Fata, nel Waziristan
settentrionale e nel Punjab, e si sono distinti per azioni cruente rivolte alla
popolazione e vendette contro l’esercito, tristemente nota nel 2014 la strage
nella scuola di Peshawar frequentata da figli di militari pakistani. Negli
ultimi tre anni in Afghanistan l’Iskp ha ingaggiato un confronto a suon di
attentati coi talebani ortodossi per dimostrare la sua forza militare e un
radicamento nel territorio. Dopo l’arresto di Farooqi, e la richiesta di estradizione
da parte pakistana, su certa stampa filogovernativa indiana è apparsa
l’insinuazione che quel Paese volesse il terrorista per chissà quale iniziativa
benevola nei suoi confronti. Ne è seguita una nota sdegnata di Islamabad che ha
bollato come “maliziosa e condannabile” l’insinuazione. Ma nelle note
avvelenate che s’intrecciano, il passato racconta che fra Isi (l’Intelligence
pakistana) e Isil locale (compresi i taliban dissidenti) ci sia stata una
vicinanza non solo di acronimìa, che peraltro può proseguire.
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