Nelle due ultime settimane in cui l’epidemia Sars
CoV2 s’è ampiamente materializzata anche sul suolo turco - superando i 100.000
contagi ma contenendo a oggi il numero delle vittime (2.600) - il presidente
Erdoğan è uscito allo scoperto sul tema. In pubblico ha parlato di opportunità
per la nazione e il popolo di costituire un faro in Medioriente, non
nascondendo velleità d’essere al centro della scena nella prossima fase di
recupero e rilancio delle economie globali. Non che quella turca navighi in
buone acque, ma le pretese di certi capitani d’impresa filogovernativi non sono
tramontate e le velleità di primato del Sultano restano in bell’evidenza. Del
resto proprio nella martoriata area mediorientale Erdoğan s’è ripreso la scena,
tallonando Putin, incensandolo dopo averlo strattonato, riguadagnandosi uno
spazio militare certamente a danno del Rojava kurdo, ma anche del resuscitato
Asad. Il sostegno della stampa di regime, visto che quella critica è in gran
parte incarcerata e imbavagliata, è un puntello molto utile al presidente turco
per rilanciare un rapporto seduttivo verso il Paese. Così alcune iniziative che
riguardano la pandemia mostrano lo zampino di chi sente d’aver ampiamente
spodestato dal ruolo di padre della patria lo stesso Atatürk. In questo periodo
un’azione diplomatica presidenziale ha tolto il blocco ai presidi di
prevenzione (mascherine e altro) provenienti da Levante e dirette in Occidente,
rimasti per settimane fermi alla dogana turca. Mentre il materiale sanitario
destinato a un uso interno ha in bellavista il marchio presidenziale, così da
far restare nella memoria della gente da chi proviene l’impegno per battere il
malefico coronavirus.
Nelle quattro settimane del sacro mese di Ramadan,
chiudendo le moschee e ricordando di non riunirsi in gruppi extra familiari per
il pasto serale, Erdoğan come fosse un padre spirituale rammenta ai fedeli di
vivere comunque con partecipazione questo periodo. Nella certezza che la grande
e islamica Turchia riuscirà a riprendersi, a essere d’esempio per la Umma
musulmana, a proporsi come guida geopolitica nella regione. In realtà gli
analisti finanziari guardano all’ennesima svalutazione della lira turca, che da
inizio anno ha perso un 15% di valore rispetto al dollaro, come a una prossima
crisi monetaria per la nazione. Servirebbe un’iniezione di denaro dal Fondo
Monetario Internazionale. Però proprio la politica estera erdoğaniana ha molto
scontentato la Casa Bianca, a partire dalla vicenda dell’acquisto del sistema
di difesa missilistica russo S-400. E Washington conta molto nelle scelte del
Fmi. Col doppiogiochismo che gli è proprio il presidente turco fa sapere che,
per ora, quel sistema è accantonato. Poi, come detto, ha sbloccato il materiale
sanitario in viaggio verso l’Europa, tanto per mostrarsi collaborativo verso
Germania, Francia, Italia. Fra gli Stati verso cui dovrebbe indirizzarsi il
sostegno monetario del Fmi l’attuale Turchia non mostra i parametri richiesti:
bassa inflazione, controllo sul deficit, conti in equilibrio. Solo un miracolo
le aprirebbe le casse dell’organismo internazionale. Però un altro miracolo potrebbe
comparire all’orizzonte dal rilancio internazionale post Covid, quello che può
collocare attività produttive in alcune aree mondiali. La Turchia è fra i Paesi
che dispone di manodopera a buon prezzo, capacità tecniche e un governo forte. Da
lì potrebbe partire una risalita economica e addirittura un nuovo boom. L’attenzione
è concentrata sull’emergenza sanitaria, ma le ipotesi volano avanti.
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