La dipendenza del sistema globalizzato da certe produzioni
concentrate in talune “fabbriche del mondo”, evidenziato nelle scorse settimane
dalla richiesta di mascherine protettive, scopre l’ennesimo capitolo su alcuni
farmaci. Correlati se non direttamente all’emergenza Coronavirus, certamente a
fabbisogni di tante nazioni. In primo piano sempre l’India che con alcune
industrie (Laboratori Ipca e Zydus Cadila) provvede alla produzione e al
rifornimento addirittura d’interi continenti. E’ così per i principi attivi di
paracetamolo, diversi antivirali e antibiotici, vitamine del gruppo B1, B6,
B12. Dal 3 marzo l’esportazione di questa merce è stata bloccata dal governo
Modi che s’apprestava a varare un piano di contenimento dell’infezione Sars
Cov2. Da parte loro gli industriali farmaceutici indiani erano in fibrillazione
perché l’elaborazione di principi attivi non stava ricevendo gli elementi
chimici di base dal mercato cinese, finito in quarantena per la pandemia. Intanto
la filiera occidentale, dall’Europa all’America, lamentava a sua volta il
blocco operato dal governo di Delhi. Mentre le varie sperimentazioni mediche in
corso in più nazioni cercano riscontri, ad esempio, nell’idrossiclorochina, non
poter disporre di quella molecola per la chiusura dei commerci creava tensioni
internazionali. Le cronache raccontano che la scorsa settimana il presidente
statunitense abbia chiamato di persona il premier indiano e fra una lusinga,
con la promessa di aiuti finanziari, e la minaccia d’istituire ben più devastanti
embarghi, ha ottenuto una retromarcia di Modi.
Cosicché le molecole alla base dei citati farmaci possono
nuovamente viaggiare verso diversi Paesi del mondo. Il problema attuale per la
farmaceutica indiana è riavviare una produzione che in queste settimane ha
ampliato enormemente le commesse, tanto da poter in proiezione raddoppiare gli
introiti di settore, che nel 2019 hanno superato i 17 miliardi di euro. Dunque il
nodo è la ripresa del lavoro, la fine del distanziamento sociale in una nazione
dove il picco dei contagi è atteso fra un mese (attualmente le quote degli
infettati risultano bassissime, meno di 7000 casi per 249 vittime). Proprio
oggi il governo Modi deve decidere se prolungare la chiusura o meno. La
questione accomuna tante economie che si trovano a fare i conti coi legami
indissolubili del globalizzazione. Nel settore farmaceutico l’India provvede al
60% della domanda mondiale di vaccini e antivirali e al 57% dei principi attivi
(il suo primo cliente sono proprio gli States col 30% delle commesse). Oltre
alla possibilità di ripresa del lavoro in sicurezza - che è tutta da verificare
un po’ ovunque e in India ancor più - c’è la questione della chiusura di porti
e aeroporti, almeno finché non cessa l’emergenza. Così in molte nazioni, come
sta accadendo per mascherine e respiratori, scatta la necessità
dell’autoproduzione. Ma questa per certe merci non può avviarsi né con facilità
né in tempi brevi. Non è un caso che la
chimica farmaceutica, più o meno pericolosa, sia stata concentrata in
territorio indiano. Bassissimi costi di manodopera, inquinamento ambientale
sono temi sensibili agli industriali, ovviamente per evitare spese e controlli,
incrementando i profitti. E in certi angoli del mondo governi e Parlamenti
aiutano simili piani perversi.
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