martedì 28 novembre 2017

Pakistan: la protesta islamista fa dimettere il ministro



Vincono i sit-in e le barricate degli islamisti. Il premier pakistano Abbasi abbassa la guardia e fa dimettere il contestato ministro della Giustizia Hamid. Anche perché l’esercito, che il governo non aveva voluto mobilitare nonostante il traffico verso la capitale fosse bloccato da tre settimane con situazioni incresciose per l’intera comunità, ha fatto capire che avrebbe disobbedito a ordini repressivi. Dunque, una delle due lobby della forza (l’altra è la potentissima Inter-Service Intelligence) ha preso posizione a favore del crescente movimento islamista, diventato partito: Tehreek-i-Labaik Ya Rasool, rinverdendo i trascorsi del generale Muhammad Zia-ul Haq, il dittatore che negli anni Ottanta incentivò il diffondersi nel Paese delle leggi islamiche. Il partito Tehreek è di recente formazione, ma già conta di un discreto seguito elettorale; ora per le pretese mostrate dai propri ulema cercherà di trarre vantaggio da un simile successo. Che mette in discussione l’approccio mediatorio offerto dai leader laici legati a clan familiari (Bhutto, Sharif) passati dai vertici nazionali a conseguenti cadute per attentati o cause di corruzione. Nel luglio scorso Nawaz Sharif aveva dovuto abbandonare l’esecutivo perché coinvolto nello scandalo dei ‘Panama Papers’. Alla politica ufficiale, che colloca il Pakistan fra gli Stati in competizione per l’egemonia regionale tramite un’alleanza privilegiata con gli Stati Uniti tratteggiata da reciproche ambiguità, si contrappone l’azione dell’Islam politico interno, variamente organizzato.
Per un lungo periodo i porosi confini occidentali hanno assunto la funzione di rifugio dei combattenti talebani afghani appoggiati dai fratelli pakistani. Tuttora i territori delle cosiddette Fata (Federal Administered Tribal Areas) sono un mondo a parte dei due Stati che, comunque, sospettano l’uno dell’altro. Le leadership afghane di ogni epoca e fase geopolitica hanno sempre temuto una cannibalizzazione da parte dei vicini, quest’ultimi diffidano dell’instabilità che i talebani esterni, in combutta con gli interni, possono portargli in casa. I Talib stessi da almeno vent’anni non sono un’unica famiglia politica. Anzi. Scissioni e differenti fazioni ne fanno entità diverse. Trattandosi di movimenti che pongono al centro delle proprie scelte precisi indirizzi confessionali applicati alla politica, occorre seguirne anche le evoluzioni. E nella galassia del fondamentalismo islamista pakistano occorre distinguere orientamenti in aspro conflitto fra loro: i seguaci delle teorie deobandi, influenzate dal wahabismo, e i gruppi barelvi ispirati dal sunnismo hanafita. Fra quest’ultimi, cui appartiene il movimento Tehreek-i-Labaik Ya Rasool in azione a Islamabad, alcuni predicatori si mostrano integerrimi nel sostenere lotte ma non sono propensi alla violenza, altri perseguono gli obiettivi con ogni mezzo.
In passato i berelvi hanno condotto campagne politiche contro i talebani di cui condannano il radicalismo armato e gli attentati suicidi. Eppure c’è chi non crede allo spirito sufi che filosoficamente dovrebbe apparentare molte anime del sunnismo asiatico, perché nella stessa esasperazione teorica traspare quell’intolleranza di ritorno che caratterizza ogni fondamentalismo. E la questione della blasfemia può diventare un pretesto per attaccare qualsiasi espressione e manifestazione di minoranze religiose o le medesime posizioni politiche avverse. I più preoccupati sono gli avvocati dei diritti che già vedono perseguitati quegli attivisti politici e giornalisti fuori dal coro accusati di islamofobia semplicemente in base a libere espressioni di pensiero o resoconti di cronaca. Il partito di governo, Lega musulmana pakistana, che in occasione di quest’ultima crisi ha assunto la posizione neutrale di osservatore, scaricando ogni responsabilità al ministro della Giustizia e patteggiando per lui coi religiosi che guidavano la protesta l’esenzione da qualsiasi fatwa personale, sembra giocare col fuoco. Il blocco sociale che lo sostiene è popolare ma incentrato su una sorta di ceto medio, mentre gli strati più poveri sono maggiormente sensibili ai richiami religiosi trasportati in politica. Un’accentuazione dell’identità musulmana basata su questioni di rigore e purezza può sicuramente favorire posizioni estreme. Il governo gioca sul clima di paura fra la gente, mentre l’esercito potrebbe adottare la prassi doppiogiochista dell’Isi.

lunedì 27 novembre 2017

Islamabad, gli islamisti sulle barricate


Sei morti. Destinati a salire, non solo per le condizioni disperate di molti dei duecento feriti, ma per ulteriori scontri che si preannunciano sanguinosissimi. Eppure si è trattato di corpo a corpo: i bastoni dei manifestanti contro i manganelli dei poliziotti pakistani, con l’aggiunta ieri delle pallottole di gomma, responsabili sicuramente delle uccisioni. Il governo, che finora ha escluso l’intervento dell’esercito, sta usando i reparti speciali dei Rangers che entro il 3 dicembre dovrebbero riportare l’ordine. Ma gli osservatori prevedono un aumento del conflitto. C’è già stata una settimana di protesta, partita con sit-in organizzati dagli islamici radicali del gruppo Tehereek-i-Labaik Ya Rasool che nella zona periferica di Feizabad hanno bloccato l’ingresso nella capitale non solo del traffico privato, ma delle stesse merci. Ora l’insubordinazione s’allarga alle popolatissime Lahore e Karaki e fa temere il peggio. Il crescendo degli ultimi giorni mostra il consenso acquisito dai conservatori islamici in un Paese ad altissima tensione sociale e religiosa, sebbene la gran massa della popolazione (200 milioni di abitanti, con uno dei tassi di crescita demografica fra i più elevati al mondo) sia musulmana. Ormai da decenni il Paese si misura sull’interpretazione da dare all’Islam, sul rispetto della tradizione e trova nel fondamentalismo deobandi un substrato favorevolissimo all’estremismo religioso. Divenuto terreno di coltura del jihadismo degli studenti coranici delle madrase: i ben noti taliban.
Le proteste di questi giorni sono la conseguenza di quel che era iniziato alla fine dell’estate: sermoni su sermoni d’un crescente numero di imam contro il ministro della Giustizia, Zahid Hamid, accusato di blasfemia. La sua colpa è aver introdotto un protocollo ‘laicizzato’ per i ministri del governo che, quando giurano fedeltà, non devono far più riferimento al profeta Maometto. La modifica viene considerata un atto gravissimo, al quale il ministro ha cercato di rimediare scusandosi. Ma il giovanissimo partito dei Tehreek non ha voluto sentir ragioni e chiede le dimissioni del politico. Nel contempo la campagna dei predicatori contro ciò che viene definito un degrado di costumi delle Istituzioni politiche ha fatto decine di migliaia di proseliti e i sit-in pacifici di inizio novembre son finiti sulle barricate. Lo stesso gruppo islamista sta riscontrando un formidabile consenso, sorto da un paio d’anni il movimento Tehreek ha nelle recente elezioni fatto segnare il 7% di consensi elettorali, un vero boom per una formazione esordiente. A dimostrazione di come il substrato pakistano sia apertissimo ai richiami d’un confessionalismo politico che assume connotati cangianti.
I gruppi armati di Taliban ortodossi sono da tempo presenti, e quelli dissidenti hanno da tre anni introdotto uno scontro ideologico su basi etniche in aree circoscritte (Waziristan), più terrore diffuso con stragi e attentati sui civili (la scuola di Peshawar, il parco-giochi di Lahore, la stessa Islamabad città delle Istituzioni). Ora si prospetta un ulteriore scenario: la protesta fondamentalista può diventare jihadismo di massa. Anni addietro qualche caso si verificò in circostanze specifiche riguardanti prevalentemente simboli, come l’ambasciata statunitense assaltata da studenti islamisti in occasione delle vignette contro Maometto, ma al di là della reciprocamente ambigua alleanza fra Washington e Islamabad, è la politica nazionale a star stretta a un numero crescente di popolazione che riprende a guardare verso l’Islam politico, in una versione estrema rivolta alle masse. Proprio questa è la posizione espressa dai Tehereek-i-Labaik Ya Rasool che si misurano sul terreno elettorale e, tramite il retroterra delle moschee, nelle piazze e nel braccio di ferro che può scaturire dal muro contro muro con l’establishment istituzionale. Occorre osservare cosa farà il Daesh, già apparso nella regione da oltre un anno per tessere rapporti coi talebani dissidenti, per un impegno, comunque, esclusivamente armato. Attualmente per l’Isis, sconfitto e allontanato dalla Siria, riparare su terreni di scontro del Medio Oriente vicino (Sinai) e lontano (Afghanistan e Pakistan) l’inserimento, con propri predicatori, fra le masse in subbuglio può rappresentare una ghiotta occasione.
 

venerdì 24 novembre 2017

Giro d’Italia in Israele: “L’è tutto sbagliato”


Non hanno avuto molto tempo per dormire i ciclisti della squadra Israel Cycling Academy, già in allenamento per la Centunesima edizione del Giro d’Italia che partirà - incredibile ma vero - da Gerusalemme. La scorsa settimana un gruppetto di atleti era giunto in Israele per un adattamento nei luoghi dove sono previste le prime due tappe. I corridori, un po’ storditi dal jet-leg, stavano riposando per la pedalata del giorno seguente, quando verso mezzanotte sono stati svegliati da un reparto dell’Israeli Defence Forces che gli ha propinato un addestramento particolare: krav maga, il sistema criminale d’offesa spacciato come ‘arte marziale difensiva’ e utilizzato dai reparti speciali dell’Idf. Lo riferisce un articolo pubblicato sul sito web di Cyclingnews, rivista australiana di settore  (http://www.cyclingnews.com/news/israel-cycling-academy-hike-to-jerusalem-gallery/). Del gruppo facevano parte gli ultimi acquisti del neoformato team: il belga Ben Hermans, lo spagnolo Ruben Plaza, i norvegesi Holst Enger e August Jensen, l’italiano Sbaragli, il turco Örken. Al di là della militarizzazione degli allenamenti dei pedalatori, non sappiamo se giustificato da questioni di sicurezza personale, che manifesterebbero un’impossibilità di Israele di garantire l’incolumità assoluta di atleti e staff oppure da un eccesso di zelo o ancora dall’uso di ogni circostanza per divulgare la pseudo arte marziale tanto cara a Tsahal, facciamo alcune considerazioni sull’appuntamento.
Perché la nazione israeliana lancia quest’iniziativa? Crediamo per utilizzare quel terreno neutrale e attrattivo rappresentato dallo sport per uscire dall’isolamento in cui la reiterata linea aggressiva del proprio establishment politico l’ha sospinta da tempo. Israele è presente nel mondo sportivo e si è costruito un palmarés in alcuni discipline di squadra (calcio, basket) e individuali (judo, ginnastica, nuoto, tennis) dove ottiene anche successi e piazzamenti olimpici. Del ciclismo, francamente, non c’è traccia, come non c’è in buona parte di quel Medio Oriente, inadatto a tali competizioni un po’ per conformazione morfologica e principalmente per questioni geopolitiche. Organizzare una corsa, in linea o a tappe, non è come realizzare una gara al chiuso di uno stadio o un palasport. La sicurezza è messa in crisi dall’instabilità, soprattutto se si devono percorrere migliaia di chilometri. Ciò non toglie che anche in quei luoghi l’amore per le due ruote possa trovare seguaci. Alcuni corridori del team ICA (Goldstein, Niv, Sagiv) sono israeliani, ma la squadra citata dall’articolo di Cyclingnews, nasce due anni or sono, probabilmente con l’intento che abbiamo ipotizzato poc’anzi: utilizzare ogni opportunità per dare un’immagine rassicurante di Israele. Caratteristica resa dubbiosa da ogni notizia di cronaca, interna e internazionale. Uno dei finanziatori di Israel Cycling Academy, Ronald Baron, e il direttore sportivo ed ex ciclista, Ran Margaliot, narrano la storia del loro incontro avvenuto, tre anni fa, sotto la collina di Nes Harim, 700 metri di altezza, diventata nel 1950 un moshav, comunità agricola degli ebrei Mizrahi.
I due, per pura passione, avrebbero deciso di fondare il citato club del pedale che, secondo un recente articolo del Corriere della Sera (http://www.corriere.it/sport/17_settembre_18/israel-cycling-academy-l-unico-team-pro-che-corre-grazie-donazioni-48ecd510-9c4b-11e7-9e5e-7cf41a352984.shtml) si regge sulle donazioni. Se queste ci sono potranno esser rese pubbliche, ma letta la biografia di mister Baron pensiamo che alla passione abbia unito anche i suoi non pochi denari. Newyorkese, negli anni Settanta Baron lavorava per una società di brokeraggio; nel 1982 ha fondato la Baron Capital Management, una società che si occupa di investimenti. La rivista Forbes gli attribuisce attualmente una gestione di 26 miliardi di dollari. Il secondo socio del club ciclistico israeliano è un altro capitalista non da poco: Sylvan Adams, figlio di Marcel, ebreo rumeno sopravvissuto all’Olocausto, fuggito prima in Turchia e riparato nel nascente Stato di Israele per il quale combatté nel 1948. Subito dopo papà Adams si stabilì in Canada in qualità di affarista, prima nella concia del pellame quindi come immobiliarista. Il figlio Sylvan ne ha ereditato le attività. Certo lo sport ha bisogno di finanziamenti ed evidentemente per gli israeliani affezionati alla causa del proprio Stato investire sul mito del pedale offre a Israele un ritorno d’immagine non da poco. La bella favola ha trovato sponda nella Corsa Rosa, non solo con la legittima iscrizione della squadra di Tel Aviv nell’edizione del Giro che gira pagina dopo i suoi cent’anni di gara, ma con la scelta degli organizzatori di portare la corsa fuori dal continente. Finora le discusse e discutibili sortite estere, iniziate nel 1965 con una tappa a San Marino, avevano avuto una dozzina di precedenti, rilanciati periodicamente dalla metà degli anni Novanta.
Gli sponsor pagano bene e il circo del pedale segue quel richiamo. Apprendiamo dal gruppo Boycott, Divestment, Sanctions che La Gazzetta dello sport riceverà oltre quattro milioni di euro per le due tappe estere. Non ci meravigliamo, né scandalizziamo. Lo sport agonistico è da troppo tempo diventato una costosa macchina affaristica. Pesano molto di più sul morale di chi crede nel suo ruolo nella società moderna le truffe e la piaga del doping, che com’è accaduto, incide pesantemente sulla salute degli atleti. Scandalizza, invece, che il volto buono che Israele vuole offrire di sé non riceva la critica per i soprusi, le ingiustizie, le violenze che quel Paese profonde. Sicuramente non saranno gli sportivi e i dirigenti di Israel Cycling Academy a macchiarsi dei crimini sui palestinesi. Ma quest’ultimi se mai riuscissero a veder passare (e non ci riusciranno, non solo a causa del Muro) la carovana del Giro, ad ascoltare l’armonioso frusciare di cambio e catene, a intercettare la fatica e la gioia di chi pedala, si sentirebbero meno oppressi? Chi si batte contro l’ingiustizia fatta politica può accettare che i corridori israeliani partecipino alla festa della competizione. Considera, invece, un insulto far transitare la corsa per Gerusalemme e lì sostare, chiudendo gli occhi davanti allo sfregio di cinquant’anni di occupazione di quei luoghi santi. Degli ebrei, ma anche dei cristiani e dei musulmani che lì abitano e ne vengono sfrattati. Il Ginettaccio, nell’occasione ricordato per il sacrosanto aiuto offerto agli ebrei italiani perseguitati dal nazifascismo, proprio per quel senso di giustizia che ne ha caratterizzato la vita a queste  tappe portate su una terra insanguinata direbbe: “L’è tutto da rifare”.

lunedì 20 novembre 2017

Arabia Saudita, oltre il vulcano bin Salman




Cosa cercava nelle sue osservazioni dentro e ai margini di Riyadh lo studioso Pascal Ménoret quando ha speso mesi e mesi dietro alla moda del drifting? Che è un genere di guida giocata su acceleratore e volante, facendo ondeggiare, slittare, sbandare l’auto, tirando a manetta fra il delirio del conducente e passeggeri esagitati sporti dal finestrino. Il fenomeno è stato ufficializzato anche come gara (sic), per ora solo locale, senza riconoscimenti di organismi internazionali. Lateralmente si trascina comportamenti marginali da fuori di senno, gente che guida così per certi rettifili della capitale saudita in mezzo al traffico, inducendo la polizia a intervenire più o meno duramente. Questo comportamento è solo il più vistoso fra quelli indagati dal ricercatore che opera presso l’Università di Cambridge, la stessa del nostro Regeni, trattando sicuramente tematiche meno scomode per i Palazzi. Ma nel suo già famoso Joyriding in Riyadh Ménoret va oltre il fenomeno in sé. Perché sembra che questi cacciatori di emozioni adrenaliniche, siano solo parzialmente simili alla ‘Gioventù bruciata’ messa su pellicola da Nicholas Ray. Manifestano sicuramente marginalità e disagio, ma anche un desiderio di evasione dal vuoto di obiettivi che crea un buco esistenziale.

Tutto ciò si lega a problemi sovrastrutturali connessi alla storia politica e sociale della monarchia, modernizzata negli anni Trenta e rimasta bloccata per decenni, in una nazione giunta a quota 30, per milioni di abitanti e per età di oltre la metà dei cittadini. Per quel che il ricercatore ha visto e scritto, le ‘corse della follìa’ sono praticate sì, da qualche rampollo di buona famiglia, ma soprattutto da tanti ragazzi del deserto. Dunque dai figli di tribù beduine negli ultimi anni inurbatisi in una Riyadh diventata metropoli da sei milioni di cittadini. Lì, al di là degli avveniristici grattacieli di rappresentanza-affari-finanza, esistono periferie e ghetti, ceti marginali e sottomarginali. Luoghi non necessariamente per minoranze etniche e religiose (in genere perseguitate), ma dove sopravvivono gli stessi sunniti diciamo fuori dal coro, coloro poco ossequiosi e flessibili ai voleri di una corona tradizionalista e antica in via di rinnovamento. Da qui, secondo Ménoret, partono i giovinastri che rubano auto per il gusto di farsi una guidata a 240 orari, rischiando l’osso del collo. In genere fanno la bravata, pericolosa per loro e per chi dovessero tamponare, e fuggono. Se la polizia li pizzica, usa la mano pesante e non solo la mano. Strana Arabia, mondo antico e moderno, che il nuovo volto del regime – Mohammed bin Salman – vuole ulteriormente modernizzare.

Ma come? e per fare cosa? Questo è il percorso di comprensione che i politologi devono seguire, alla luce dei molteplici passi interni ed esterni compiuti dal principe che ha scalato rapidamente le vette del potere, sia per la sopraggiunta debolezza paterna, sia per l’appoggio di alleati vicini (alcuni sceicchi locali e di altri Paesi del Golfo ridotti a vassalli) e di protettori lontani (Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna) ciascuno stretto ai propri interessi vecchi e rinnovabili. Con le mutazioni in atto del quadro mediorientale i Saud decidono di stringere le fila nel cosiddetto Consiglio della cooperazione del Golfo, marchiando il bene di alleati di ferro (Emirati Arabi) e subordinati (Bahrein, Oman più lo Yemen da conquistare manu militari). Emarginare e sconfiggere il male delle pretese qatariote, chiarire al Kuwait qual è l’asse vincente nei confronti del nemico di sempre: l’Iran. Tali passi coinvolgono in un fiato politica estera locale, regionale e internazionale, visto che dietro le alleanze geostrategiche e finanziarie si collocano anche i grandi della terra; inoltre si dà un riflesso alla politica interna. Bin Salman ha accelerato tutto questo, e sembra guidare il Paese come quei giovani del drifting fanno con l’auto.

Ma la corsa di MbS, all’apparenza folle, ha direzioni precise. Crea un nuovo blocco di adesioni, cercando di scardinare i ‘tradimenti’ familiari di personaggi come bin Nayef, morbido col Qatar e dunque sospetto, fa anche piazza pulita delle tante pretese di figli, figliastri, nipoti e pronipoti del clan Saud, tutti pretenziosi coi sussidi della corona mentre lanciano incontrollati affarismi personali. Con simili repulisti il principe si fa nemici in casa, ma lui apre la casa-nazione (non i forzieri) al sogno della modernità che può offrirgli consenso attorno alle riforme (la legge sulla guida alle donne, la loro partecipazione alla vita pubblica senza i guinzagli del ‘parentame’). Detta all’occidentale: mosse populiste, rivolte qui alle donne oppure ai giovani verso cui il futuro re mira a contenere il ruolo repressivo della polizia religiosa in fatto di comportamenti trasgressivi su passatempi, consumo di alcol e rilassamento dei costumi. Poi per riequilibrare l’impatto e la forza del wahabismo, che caratterizza gran parte dell’Islam saudita sul fronte religioso e sulla regolamentazione dello Stato, tantoché sono le interpretazioni di Corano e Summa a fare le leggi, l’ammansisce rivolgendola all’esterno. Così gli imam salafiti non si sentono emarginati e possono continuare a predicare le loro jihad.

Riassumendo: minore repressione interna e più esterna, cercando nuovi nemici. Così rinfocolando la storica rivalità sunnismo-sciismo, con quest’ultimo nel ruolo di infedele da combattere sul piano teologico per questione di purezza dell’Islam, di conservazione dei luoghi santi e della dottrina, si può rilanciare quell’invadenza geopolitica ufficiale, già da un biennio in atto nello Yemen contro gli sciiti Houti. Quella ufficiosa, incentrata sul terrorismo jihadista va avanti da tempo, introdotta su scenari sempre nuovi. Scendere su ulteriori terreni di confronto-scontro nel Medio Oriente vicino e lontano, sino a minacciare direttamente l’Iran, trova l’abbraccio dell’America, non solo quella trumpiana, e dei servitori occidentali della Nato. E può compattare la gioventù senza stimoli e passioni, peraltro marginalizzata nel Paese. Ovviamente è un azzardo, perché le ‘generazioni del fronte’, proprio l’Iran khomeinista insegna, necessitano di pulsioni ideologiche molto forti. Ma i panorami degli ultimi anni tali motivazioni le hanno trovate nei miliziani irregolari che combattono più delle truppe irreggimentate. Quale azzardo di guerra bin Salman intenda inseguire forse è presto per dirlo, però la sua modernizzazione punta solo alla salvezza della propria stirpe, non dei sauditi, a danno di una normalità di vita. Chi ha introdotto simili modelli basati sull’aggressione mascherata da difesa lo comprende benissimo. Per questo Israele approva e plaude. 



venerdì 17 novembre 2017

Medio Oriente, nuovi pupi e vecchi burattinai


Il principe che promette un Islam moderato sembra ormai prossimo all’incoronazione ufficiale. Voci insistenti ribadiscono a breve il cambio della guardia fra i Salman: figlio al posto del padre messo fuorigioco (si dice) dall’Alzehimer. Frattanto il giovane di belle speranze e grandi pretese sta collezionando sponsor geopolitici, che però fanno pensare come la fetta di mondo su cui vive e opera, e su cui vuole allungare le mani, rischia più di quanto ha subìto finora. Accanto a bin Salman si stanno posizionando padrini imperialisti di lungo corso, Francia e Gran Bretagna, i creatori del Medio Oriente conosciuto per un secolo poi gradualmente incrinato e recentemente imploso. Osserviamo le ultime mosse. Uno: il presidente francese Macron che si fa garante del futuro di un Hariri jr teleguidato da Riyadh. Due: la passione con cui a Londra si valutano le conseguenze del terremoto politico avviato da bin Salman e il suo repulisti “contro la corruzione” che, colpendo principi affaristi locali,  incrina princìpi degli affari internazionali. Se pensiamo solo agli interessi petroliferi questi coinvolgono a pieno le ‘Sette Sorelle’, poi c’è la frontiera del turismo che nel Golfo ha creato un circuito di enormi investimenti di quell’industria e di quella dei servizi, finora gestite più dai vecchi colonialismi occidentali che dal gigante cinese.

Tre: la sicurezza, un campo in cui lo Stato sorto per destabilizzare il Medio Oriente, Israele, è il primo della classe. Anche questa nazione ha palesato un aperto apprezzamento delle manovre (non solo quelle militari in Yemen) del piccolo principe che si fa re. L’assenso ufficiale l’ha offerto in un’intervista a un grande giornale israeliano il capo dello staff militare dell’Idf, Gadi Eisenkot. E ci riferiamo solo alle prime sortite di approvazione verso la linea di bin Salman che nella sfida, tutt’altro che tranquillizzante, di egemonia nella regione fra sauditi e iraniani disegna un nuovo terreno di confronto-scontro, probabilmente non più tramite attori interposti. Nazioni pur piccole e fragili come il Libano rischiano un ritorno di venti di guerra; i conflitti che si dicono conclusi (in Siria e Iraq) e non lo sono affatto, prevedono continuazioni vicine e lontane con frammentazione dei territori e magari le immancabili occupazioni tramite operazioni di ‘polizia internazionale’. Certo il sorriso con cui il sionismo accoglie il giovane politico in kefiah, è più subdolo della stretta di mano fra Rabin e Arafat, perché non mira a stabilizzazione e pace. Le proclama, le mima, però vuole imporre il proprio ordine e i suoi interessi, che non sono quelli generali, ma di parte. Gli stessi presenti dall’epoca di Sykes-Picot e creatori di stati satelliti su cui ha prosperato il colonialismo di ritorno.

Quelli che nelle spartizioni pre e post Guerra Fredda hanno creato protettorati consoni solo alle potenze geopolitiche. Gli interessi che tramite rivoluzioni tradite da statisti rivelatisi satrapi hanno scippato e umiliato i ceti e i gruppi etnici più bisognosi, perpetuando tribalismi e avallando clanismi. Questo Medioriente violato e sfruttato dall’esterno e dall’interno, non potrà ricevere benefici da un nuovo arrivato che sa di vecchio, perché antico (non per tradizione bensì per asservimento) è il modulo che propone. Prima di lui l’hanno fatto altri, non necessariamente regnati con la corona. Sono stati i presidenti diventati sovrani, pronti a perpetuare e sfruttare sogni e bisogni di cittadini da loro considerati solo sudditi. In qualche modo premiati, e non tutti, se succubi, altrimenti repressi. E’ il modello pluridecennale, tuttora presente nelle petromonarchie. E’ la storia di nazioni laiche che hanno abbandonato e calpestato ogni speranza di trasformazione socialista negli egoismi e nelle trame familiari che hanno lasciato macerie e povertà nel Maghreb e nel Mashreq. Su questi fallimenti continua a incombere l’imperialismo che cerca alleati locali e li sostiene come fa coi sauditi (e non solo) sia quando garantiscono il passato, con wahabismo e jihadismo annessi, sia se prospettano un futuro di eserciti da lui armati, che s’affiancano ai propri lì parcheggiati stabilmente o per straordinarie ‘missioni di pace’ che durano una vita. 

martedì 14 novembre 2017

Riyadh-Teheran: lotta per il Medio Oriente


Nella tenzone a distanza, più o meno ravvicinata, per sancire un’egemonia su un tratto sempre più vasto di Medioriente che va dal Mediterraneo alle province afghane, il confronto fra il sunnismo filo saudita e lo sciismo para iraniano amplia i propri orizzonti. La guerra in atto da tempo sul territorio siriano, ovviamente quella combattuta per interposte milizie, e il più recente conflitto yemenita aggiungono o possono aggiungere ulteriori scenari. In questi giorni gli osservatori discutono del caso libanese, che mostra il premier Hariri scegliere, o digerire forzatamente la scelta con tanto di propria cattività gestita dalla monarchia Saud, di riadattare ciò che aveva attuato nei mesi passati. Un governo da lui presieduto che, come accade da anni in quel Paese, comporta un compromesso fra il suo movimento-partito a maggioranza sunnita, le minoranze cristiane e druse, la cospicua componente sciita di Hezbollah. I cui referenti (Hariri medesimo, Aoun, Jumblatt, Nasrallah) continuano a dirigere le forze di appartenenza in quel che è l’unico governo possibile nella piccola nazione assediata dai tanti interessi presenti nel circondario, con occupazioni straniere e cupa memoria delle guerre civili trascorse. In aggiunta a una ricaduta del Paese dei cedri nel caos del conflitto interno, visto di buon occhio dagli appetiti geopolitici di attori vicini e lontani, c’è l’orizzonte di una nazione in guerra perenne, l’Afghanistan, egualmente coinvolta nel contrasto fra sunnismo e sciismo che è solo parzialmente un eterno conflitto religioso.
Fra gli scenari occupati dal jihadismo mondiale, il Paese dell’Hindu Kush è stato laboratorio di svariate versioni di scontro col neoimperialismo  occidentale e coi governi collaborazionisti da lui inventati. Certo, l’occupazione militare del territorio e il suo controllo geostrategico dal cielo (tutt’ora ben conservato dagli Usa) incrementa il concetto di lotta di liberazione nazionale incarnato dai talebani della prima ora (1996-2001) e proseguito dagli attuali epigoni. Il loro progetto incentrato sull’Emirato Islamico, guarda a confini nazionali propriamente dati. Conserverebbe, insomma, le attuali 34 province con l’unica contraddizione del cosiddetto Pashtunistan, area storicamente abitata dall’etnia pashtun a cavallo del confine afghano-pakistano, che ripercorre la divisione coloniale tracciata a fine Ottocento dalla Linea Durand. E comprenderebbe anche il Balucistan, una vastissima zona dell’Iran meridionale. Il Pashtunistan rientra nel più grande sogno del Califfato che sovrasta le odierne frontiere statali, obiettivo dell’Isis nell’esperienza lanciata tre anni fa fra Siria e Iraq, e di chi gli fa il verso, appunto in Afghanistan (il gruppo Wilayat Khorasan) e in Iran (quello Jandullah). Il fondamentalismo sunnita, che trova il sostegno teorico in certi predicatori wahhabiti radicati in Arabia Saudita e nel deobandismo di madrase pakistane, continua i suoi percorsi ideologici a supporto di conseguenti operazioni politiche e militari. Così l’Afghanistan, dove la guerra non è mai finita, conosce ulteriori percorsi e quella che anche organismi internazionali indicano come “fase di stallo” va decriptata e letta con le evoluzioni delle diverse tipologie dello scontro in atto.
La documentazione offerta dall’Ispettorato generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar), che parla di momento di immobilità nelle contrapposte strategie di talebani e forze Nato, con una conservazione fino allo scorso agosto delle aree controllate (Nato e ANF oltre il 60% delle province con 20 milioni di abitanti; taliban circa il 40% del territorio, con 3,7 milioni di abitanti nelle zone direttamente controllate e 8 milioni in quelle con un’influenza instabile) si riferisce a una parte della contesa. Limitata, nei mesi passati, dalle trattative coi ‘talebani ortodossi’ che ora sembra naufragata, visto che al recente quadrangolare tenutosi in Oman fra esponenti afghani, pakistani, cinesi e americani i turbanti non hanno voluto partecipare, presi come sono dalla sfida a distanza ravvicinata con chi gli fa concorrenza. A ingarbugliare ancor più l’orizzonte conflittuale contribuiscono nuove unità armate come quella hazara della Divisione Fatemiyoun, impegnata in Siria e da poco tornata nella provincia di Bamian. Stanchi di essere solo bersagli di attentati (come quelli subìti nei mesi scorsi nelle proprie moschee) i membri di questa comunità possono passare dalla difesa all’attacco. Mentre il quadro generale vede naufragare non tanto l’idea di nazione, mai nata perché forgiata da Washington come Stato-fantoccio, ma la stessa coesistenza fra etnìe. E la strada percorsa e sfruttata a proprio vantaggio trent’anni addietro dai sanguinari Signori della guerra, può riaffacciarsi dietro le manovre, occulte e palesi, dei competitori regionali saudita e iraniano.  

mercoledì 8 novembre 2017

I sauditi d’oro nella tempesta di bin Salman


Nella classifica dei ‘top fourteen’ sauditi che sfoggiano riserve di petrodollari e ingenti capitali, posti all’inferno dal focoso Mohammed bin Salman, la vetta spetta di diritto ad Al-Walid bin Tatal (17 miliardi di dollari) ben piazzato anche nella graduatoria mondiale dei Paperoni. Poi compaiono Bakr bin Ladin, magnate di un gruppo finanziario familiare che vanta 7 miliardi, e l’ex erede al trono, cugino di MbS e nipote di re Salman, Mohammed bin Nayef , a capo di un proprio network finanziario quotato 6 miliardi di dollari. Il suo gruppo viene citato anche nella famosa inchiesta sui ‘Panama Papers’. A pari merito, dunque ancora con 6 miliardi di dollari, c’è Waleed al-Ibrahim proprietario della MBC Company. Staccati Saleh Abdullah Kamel, il cui Dallah Albaraka Group vanta 2.2 miliardi. Segue Amr al-Dabbagh, con l’omonimo network stimato a un miliardo e mezzo di dollari, mentre staccati risultano due ex ministri: Adel Faqih, fino a qualche giorno fa responsabile di Economia e Pianificazione (470 milioni di dollari) e Ibrahim al-Assaf  (390 milioni) alle Finanze. Quindi compare Mitaab bin Abdullah, figlio del defunto sovrano Abdullah e potentissimo capo della Guardia Nazionale, accreditato di un network di 110 milioni di dollari. Accusati di “corruzione” anche Khaled Al-Tuwaijri, capo della Corte Reale, Nasser bin Aqeel Al-Tayyar, fondatore di un omonimo gruppo finanziario, i boss della Saudi Air Force, Turki bin Nasser, e di Saudi Telecom Saud Al-Dawish, infine il Governatore della provincia di Riyadh, Turki bin Abdullah. Di quest’ultimi cinque, tutti coinvolti in affari privati e di governo, non si conosce l’entità delle fortune. Ma le fortune e gli arricchimenti personali era prassi consolidata fra i dignitari della monarchia Saud, perciò gli osservatori imputano al principe ereditario un disegno volto a una certa resa dei conti interna al Paese per attuare una radicale trasformazione della governance.  
Due i blocchi da scardinare: il potere dei clan familiari e quello religioso. C’è chi sostiene che la divisione di ruoli durante il regno - prendiamo ad esempio quel che era accaduto nel 2015 con la salita al trono di Salman senior che aveva scelto per erede un nipote, mentre suo figlio s’occupava della Difesa e il figlio del defunto re Abdullah presiedeva un posto di gran potere (la direzione della Guardia Nazionale, il corpo armato che difende la monarchia) - avesse fatto il suo tempo. Un po’ come accade in certe “democrazie” occidentali e nelle autocrazie sparse ovunque nel mondo, il consolidato sistema dell’accentramento di potere diventa la carta giocata dal giovane e ambizioso principe. L’arresto seppur dorato, è il caso di dirlo, visto che i fermati sono guardati a vista nelle lussuose camere del Ritz-Carlton hotel di Riyadh, ha la funzione di strigliare capi e rampolli delle famiglie che contano, per far comprendere che la nuova via prevede una profonda trasformazione. Magari - ipotizziamo noi - si sorvolerà su affari e finanze private, purché queste non interferiscano con le strategie statali, sempre più proiettate verso partnership economiche che prevedono diversificazioni dall’unica fonte dei petrodollari, e non ostacolino l’interesse crescente di un’egemonia saudita nell’area mediorientale. Costi quel che costi, scontro compreso. Tale linea Salman junior l’ha già proposta nella questione yemenita, ora sembra allargarla al Libano, visto che in questi giorni diventa il nume tutelare di Hariri junior che, dimettendosi da premier, ha dichiarato di non voler fare la fine del genitore, morto in un attentato nel 2005. Mohammed bin le prova tutte, e per praticare una strategia che lo renda attraente non solo sulle piazze economico-finanziarie, rivolge l’attenzione anche all’Islam wahhabita, presente in Arabia dal periodo dell’ideologo-propugnatore (XVIII secolo) e ampiamente radicato nella tradizione socio-politica interna.
Eppure qualche sheikh aveva già manifestato l’idea di limitare la rigidità delle consuetudini che creano imbarazzo nei rapporti internazionali sul tema femminile: la repressione delle donne attraverso la pubblica fustigazione, la proibizione di frequentare determinati ambienti di svago, il divieto di condurre vetture, per non parlare della lapidazione quale condanna di adulterio. Le recenti riforme che cancellano alcuni divieti mirano a questo, come pure la perdita di autonomia subìta dalla ‘Polizia religiosa’ posta sotto la giurisdizione del ministero dell’Interno. L’idea che l’Islam moderato possa trovare pratica e seguito anche nella nazione che si ritiene depositaria del vero Islam e prima inter pares nella Umma musulmana sembra essere il viatico dell’azione di MbS, ormai sovrano in pectore. Ma certi conoscitori della cultura, dell’ambiente e anche della politica di quel mondo hanno pubblicamente affermato “Chi s’aspetta un approccio non religioso dalla politica dei Saud, sta sognando a occhi aperti”. Altri osservatori parlano di un passaggio verso posizioni meno radicali, non certo di una negazione delle radici. E non scompare il preconcetto di chi non si fida affatto. Di chi sostiene che tutta questa manovra sia una tattica rivolta ai principi-parenti, vicini e lontani, e ai religiosi solo per ottenere maggior potere per una persona: se stesso. Così in questa sorta di gioco dell’oca che avviene in questi mesi in Arabia Saudita, la costante confermata su più terreni è la nascita e il consolidamento di uno strapotere che trova in Mohammed bin l’uomo del presente e del futuro. Per un domani che si propone molto meno tranquillo del passato, sia  all’interno, sia nell’area del Golfo, sia in Medioriente.  

lunedì 6 novembre 2017

Saud, lo tsunami Mohammed bin strapazza la dinastia


E’ un bel mix fra politica interna, estera, economia e finanza, religione e tradizioni a determinate il colpo di mano più scenografico attuato dalla monarchia Saud. Correlato alle faide di famiglia, già avviate da mesi, e palesate con le epurazioni di sabato notte. Dal 1932, anno dell’autoproclamazione a sovrano di Abdal-Aziz, la dinastia che raccoglie i principi figli, fratelli, fratellastri, nipoti - tutti rigorosamente di sesso maschile - aveva cercato di passarsi la corona in accordo coi rispettivi gruppi parentali (tutti ricchissimi grazie al petrolio e agli accordi con le occidentali ‘Sette Sorelle’ in Medio Oriente) anche se non tutti abili nella conduzione delle dinamiche nazionali. Eppure le oscillazioni e le gravi crisi politico-militari ed economiche di fine anni Quaranta e Sessanta  erano state gestite conservando il criterio dell’unità statale e familiare. Dal 2015, con la scomparsa di re Abdullah e la salita al trono del fratellastro Salman, la situazione sembra essersi complicata. Non solo per la polveriera mediorientale tornata a incendiarsi, soprattutto con la crisi siriana, ma in tutti gli addentellati proprio della linea interna ed estera saudita. Certe voci sostengono che alla base del caos ci siano anche problemi di salute. Sia quelli che riguardano re Salman, sulla via della demenza pur con i non avanzatissimi 81 anni, sia il cinquantottenne nipote bin Nayef da lui incaricato alla successione e nel giugno scorso esautorato dal ruolo. Si dice perché malato e piegato da farmaci d’ogni tipo. Sarà.

Di fatto a guadagnarci dalle doppie malattie, vere o presunte, è il figlio di Salman, Mohammed bin, già investito dell’incarico di ministro della Difesa con cui aveva iniziato a strabordare in politica estera decidendo l’intervento saudita a fianco dell’esercito dello Yemen che reprime l’etnìa interna ribelle Houti. L’ambizioso e, alcuni sostengono lunatico, Mohammed bin s’è, dunque, ritrovato ancor più potente in virtù di quella decisione, letta da altri rami della famiglia e da diversi principi come un colpo di mano molto più che paternalista. A darsi da fare nella notte di sabato scorso è stato direttamente il rampollo ministro e delfino di re Salaman che con l’arresto di alcuni principi e potentissimi del regno, tuttora motivato solo genericamente “per corruzione”, ha colpito in maniera mirata e generica. Diretto il colpo interno alla famiglia, con cui ha disarcionato e messo agli arresti il figlio di re Abdullah, Mutain bin, responsabile della Guardia Nazionale. In tal modo Mohammed si garantisce il controllo totale di tutte le strutture militari interne. Sia le Forze Armate: 300.000 uomini, comprensive di oltre 60.000 avieri (l’Arabia Saudita è la 10° nazione al mondo per spese militari e dopo Israele è dotata della maggiore struttura aerea d’attacco del Medio Oriente). Sia l’apparato dell’Intelligence, denominato Al-Mukhabarat al-Amma, e per l’appunto la Guardia Nazionale che conta 225.000 unità, fra cui i reparti speciali reclutati fra le tribù fedelissime alla dinastia, come i beduini Ikhwan. La struttura negli ultimi quarant’anni ha ricevuto l’attenzione primaria dell’alleato statunitense, che ha inviato oltre un migliaio di reduci dal Viet-nam (ovviamente quelli somiglianti al colonnello Bill Kilgore di Apocalypse now, quello ‘dell’odore del napalm al mattino’) in qualità di addestratori.

A organizzare la ‘collaborazione’ la “Vinnell Corporation”, che guarda caso ha sede a Fairfax, Virginia, la terra della Cia. Insomma Mohammed bin ha preparato adeguatamente il controllo muscolare del Paese, blindando la sua persona e la linea che va sostenendo. Che ha un’impronta spregiudicata e modernista, sia quando accentra cariche scontentando appunto altri rami della famiglia reale, sia quando colpisce la visione più retriva del clero wahhabita con le aperture verso i costumi femminili. La notizia della concessione della guida alle donne ha fatto il giro del mondo, e c’è già chi si attende ulteriori passi come l’annunciata mescolanza col genere maschile in certi luoghi, fra cui le manifestazioni sportive. Alcuni sheikh fermati e accusati di corruzione ribattono che si finirà col togliere il velo alle donne, a farle mostrare le gambe, questi sì passi di corruzione della tradizione religiosa. Ma il principino sembra voler limitare il potere della componente conservatrice, sostenendo che occorre aprirsi al mondo e pure alle altre fedi mostrando tolleranza. Gli stessi osservatori della società saudita cercano di comprendere se le mosse di Salman junior siano animate da vera convinzione o diventino manovre tattiche per combattere chi fra i suoi simili s’appoggia all’interpretazione reazionaria dell’Islam per continuare solo a curare i propri interessi. Il rapporto fra businessmen e clero, seppure quest’ultimo manchi di gerarchia, si è consolidato nei decenni della monarchia, lo scambio risultava reciproco: la fedeltà alla corona era contraccambiata con l’adesione alla tradizione.

Questo patto sembra subire alcune incrinature se addirittura i vertici della famiglia reale entrano in conflitto così aperto. Le scelte messe in atto dal principe Salman avevano allontanato dal Paese, ben prima dello scorso week end, alcuni affaristi locali. Evidentemente se legati alla tradizione, al di là di petrodollari e affari, essi leggevano fra le righe e avevano compreso l’andamento di talune scelte dinastiche. Lo dimostrano le vicende di questi giorni e alcuni protagonisti, anche involontari. Due nomi: il principe Alwaleed bin Talal e il principe Mansur bin Muqrin. Il primo è il più noto fra gli epurati. Un potentato del capitale collocato da Forbes al 41° posto fra i ricconi della terra con 17 miliardi di dollari di patrimonio, ma altre riviste parlano di 20 miliardi di dollari collocandolo ancora più in alto nella graduatoria. La sua “Kingdom Holding Company” ha quote azionarie in Apple, Amazon, Boeing, Citigroup, Coca Cola e Pepsi Cola, McDonald’s, Ford, Kodak, Walt Disney e in altre decine di aziende fra cui Fininvest. Forse ha pagato la posizione presa assieme ai congiunti di opporsi alla nomina di Mohammed bin quale successore di Salman; altri sostengono che invece paghi le critiche a un progetto del principino: mettere sul mercato “Aramco”, la storica compagnia petrolifera nazionale. La smania di innovazione può produrre anche idee balzane, bisogna vedere come la prende un elemento come lui pieno del suo ego e stizzoso. Perché nelle scosse telluriche in corso s’inseriscono anche episodi misteriosi e qui veniamo a Mansur bin Muqrin. Proprio ieri, sorvolando la provincia di cui è governatore, Asir sul confine yemenita, l’elicottero su cui viaggiava è caduto. Con lui sono morti alcuni ufficiali. Sull’incidente indagano Intelligence e Guardia Nazionale, verrà fuori qualcosa?    

giovedì 2 novembre 2017

Omicido Regeni: il triangolo italo-egiziano-britannico


Chiedersi se la vicenda che ha portato all’assassinio di Giulio Regeni sia un caso criminale, politico o un intrigo internazionale può essere plausibile, ma limitante e forse superfluo. I valenti procuratori italiani (Pignatone e Colacicco) che da mesi indagano, per nulla aiutati dalla sponda egiziana e da quella britannica, sanno perfettamente svolgere il proprio mestiere e, ci auguriamo, potranno sciogliere nodi giudiziari della questione. Che però, come dimostrano le varie tappe sviluppatesi nei ventuno mesi successivi al fatidico 25 gennaio 2016, ha valenze geopolitiche non secondarie, con tutti gli interessi, gli intrecci e gli intrighi che questa branca si trascina dietro. E non da oggi. Da osservatori delle questioni di quel Paese sin dalla crisi del regime di Mubarak, alla rivolta di Tahrir e oltre, abbiamo toccato con mano come il susseguirsi di accadimenti vede all’opera soggetti interni (strati della popolazione, partiti e movimenti politici e sindacali, attivisti d’opposizione e di regime, Forze Armate, polizie e mukhabarat) ed esterni (media internazionali, giornalisti, ricercatori, intellettuali, Intelligence e politici stranieri). Un aspetto non nuovo, che ha avuto un crescendo nei quasi settant’anni dalla nascita dell’Egitto moderno.

L’omicidio Regeni coinvolge il nostro impegno d’informazione, oltreché la coscienza civile che ci appartiene ben oltre l’identità nazionale e lo sguardo rivolto anche ai palazzi della politica nostrana ha già evidenziato i comportamenti governativi (prima con Renzi, ora con Gentiloni) nell’agire con uno squilibrato bilancino dell’opportunità economica e geostrategica. Da qui: l’iniziale voce indignata verso il Cairo, il segnale del ritiro dell’ambasciatore Massari e l’acquietamento col rinvio dell’ambasciatore Cantini. Tutt’attorno interessi economici su commesse e partenariati di varia natura (forniture di armi, sfruttamento di giacimenti di gas, lancio e rilancio dell’affarismo turistico), con l’aggiunta di attuazioni di piani di sicurezza internazionale su scenari di conflitto, riguardanti anche il jihadismo dell’Isis, e l’annosa questione del traffico di profughi e migranti. Connessione diretta con la vita e la morte dello studioso friulano? Non del tutto, ma il palcoscenico egiziano degli ultimi anni offre una buona quantità di addentellati. Perché Giulio osservava e studiava aspetti della società su cui poggia, come su altri scenari, l’attenzione dell’establishment di quel Paese. E chi ha toccato, anche solo come narratore, la realtà di questi anni ha ricevuto e riceve dalle forze della sicurezza un trattamento draconiano.

I giornalisti di Al Jazeera Greste, Fahmy, Mohamed, fino all’attuale tuttora in galera Mahmoud Hussein, ne sono un esempio. Certo, trattati con autoritarismo brutale non giunto sino alla tortura e all’uccisione, che invece, ben prima di Giulio ha stroncato l’esistenza di oppositori, attivisti e blogger, egualmente rapiti, spariti e non più ritrovati. La sequela di atrocità rivolte all’apolitico Khaled Saeed, mese dopo mese, anno dopo anno, s’è abbattuta sul copto Mina Daniel e sullo sheik Emad Effat sino a stroncare la laica Shaima Al-Sabbagh, tutte vittime di quella repressione di strada che ha affiancato e preparato il sistema dell’omicidio di Stato più o meno occulto. Fra i primi ottocento morti della rivolta di Tahrir e lo strazio di Regeni, si contano - da qualche mese lo dicono in tanti, eppure se si torna al biennio 2011-2012 l’informazione mainstream raccontava altro - migliaia di vittime e di sparizioni, decine di migliaia di arresti, in gran parte immotivati. O motivati solo dall’essere oppositori, prima di Mubarak poi di Suleiman e del Consiglio Supremo delle Forze Armate, quindi del nuovo restauratore, il generale Al-Sisi, dipinto da liberali e dalla stessa sinistra egiziana come il liberatore dallo spettro della Fratellanza Musulmana.

Oggi, sulle pagine de la Repubblica, gli ottimi Bonini e Foschini, evidenziano i contorni omertosi della tutor di Regeni presso l’Università di Cambridge: Maha Mahfouz Adbel Raham. La docente che indirizzò il dottorando friulano verso la ricerca sul sindacalismo indipendente degli ambulanti (nel cui ambiente il giovane incrociò l’informatore della polizia che lo denunciò). Secondo i sospetti dello stesso Regeni la donna sarebbe stata un’attivista e nei contatti cairoti lo avrebbe indirizzato verso un’altra attivista (la professoressa dell’American University Rabab Al Mahdi) ben nota alla polizia locale. Da quest’ottica, pur confidando in un cambio di posizione della tutor anglo-egiziana che potrebbe offrire un contributo ai nostri magistrati, il mistero sulla morte di Regeni non muta. Anzi, viene a confermare quel che da tempo è evidente nei comportamenti di Al Sisi e dei collaboratori di governo, il ministro dell’Interno Ghaffar su tutti: mettere attivisti, ricercatori, giornalisti nella condizione di non nuocere, con ogni mezzo. Crediamo all’affermazione dei genitori di Giulio che lui fosse animato dal solo desiderio di studio. Bisognerà scoprire se gli intenti di Maha Mahfouz Adbel Raham si fermassero lì. Indubbiamente nella fobìa di regime questo poteva già bastare per stroncare ricerca e ricercatore.

In tal senso Giulio diventa doppiamente vittima, dei suoi aguzzini e di chi voleva trarne vantaggio, utilizzando la ricerca sul minatissimo campo diretto, per altri fini. Questa è comunque un’ipotesi, che fra l’altro ha bisogno di un riscontro di una sua vera utilità sulla politica egiziana. Chi vive in loco, e prova ad agire politicamente, conosce benissimo la realtà e ben pochi vantaggi può trarre da una simile indagine. Utile, invece, a una lettura dall’esterno dell’attuale fase. Nel controverso rapporto di ricerca-studio-lavoro che Regeni ha avuto in terra britannica c’è anche l’ormai nota  collaborazione di circa un anno (fra il 2013 e il 2014) con Oxford Analytica, una delle strutture di consulenza geostrategica mondiale. Organismo che sta nelle attenzioni dell’MI6 britannica, che in non pochi casi ha visto l’Intelligence scegliere dalle file dei ricercatori elementi a lei utili. E’ l’antefatto, indicato da alcuni cronisti anche italiani, d’un Regeni collaboratore dei Servizi, che tanto ha fatto arrabbiare i familiari dello scomparso. Se gli interessi di Giulio sono quelli ricordati dalla madre Paola, potrebbe anche qui risultare aggirato contro la sua volontà. E il suo distacco da quella collaborazione potrebbe essere scaturito dal rifiuto di prestarsi a simili scopi.

Come per il caso della tutor, potrebbe essere Graham Hutching, uomo più in vista della Oxford Analytica, a offrire agli inquirenti notizie. Sebbene si sa che se si lavora per taluni organismi difficilmente si è disposti a svelarne piani e progetti.  Eppure fra triangoli e misteri, nel martirio dello studioso di Fiumicello, resta una certezza finora non indagata: la responsabilità dei vertici politici, prima che polizieschi, del Cairo. Partire da lì o all’inverso arrivarci sarebbe la giusta strada per la “verità per Giulio” e per la sua “giustizia” che incredibilmente gli attuali cartelli di Amnesty International sembrano aver archiviato.