sabato 30 dicembre 2017

L’Iran chiude l’anno su piazze contrapposte


Manifestazioni contro in Iran. Partite dapprima in sordina giovedì nella conservatrice Mashhad, ma già ieri cresciute e debordate nei bazar di parecchie città e poi nelle strade fra la gente che protesta per gli aumenti dei prezzi e i giovani che gridano contro la propria disoccupazione, “calmierata” nei comunicati del governo Rohani, ma che secondo osservatori s’aggira ormai oltre il 40%. Colpa anche d’un embargo che di fatto prosegue poiché, nonostante i famosi accordi sul nucleare, tante aziende non riescono ad attivare investimenti per i blocchi tuttora esistenti in un sistema bancario internazionale che impedisce o rallenta le transazioni fra quel Paese e i mercati soprattutto occidentali. E’ il veleno che l’America, non solo trumpiana, riversa su un nemico storico, influenzando gli organismi finanziari mondiali. Così al centro delle ire delle piazze che rianimano rimostranze finisce il presidente Rohani, riconfermato nel maggio scorso con un ampio consenso di moderati e riformisti, più il voto della gioventù ribelle dei grandi centri, capitale in testa, capace di sostenerlo oltre il primo mandato, quello agitato col simbolo di una chiave: apertura alle riforme, all’Occidente, a un nuovo corso. Una chiave che scardinava diplomaticamente ciò che il clero iper tradizionalista non voleva attuare e con lui l’ala dura del partito dei Pasdaran. Una componente nient’affatto ridimensionata nel peso economico-politico che, comunque, ha giocoforza ceduto il passo nelle consultazioni di quest’anno.
Quando il presidente uscente ha prevalso sui due cavalli di battaglia del fronte conservatore, inizialmente il laico Qalibaf e nel rush finale il chierico Raisi. Sconfitti entrambi grazie all’ennesimo compromesso fra i sostenitori dei mai dimenticati “apostoli delle riforme”: Moussavi, Karoubi e il presidente delle promesse. Però quest’ultimo sta incespicando sull’impossibilità di rilanciare l’economia, sul blocco del piano di diversificazione che ripropone alla nazione una dipendenza dal mercato degli idrocarburi, di per sé soggetto a tempeste geopolitiche, e si vede offuscata l’immagine interna, nonostante i buoni risultati in politica estera. Certo, ieri a sostegno del presidente e della Guida Suprema Khamenei, cui gli oppositori hanno gridato di andarsene, bruciandone addirittura le foto, sono intervenute centinaia di migliaia di persone. A Teheran c’è stata una gigantesca contromanifestazione che ricordava quella di otto anni addietro, quando dopo mesi di agitazioni dell’Onda Verde, con migliaia di conseguenti arresti, l’Iran khomeinista fedele alla Guida Suprema e al secondo mandato di Amadinejad, pur sotto l’accusa di brogli, occupò fisicamente le strade per controbilanciare lo spazio preso dai contestatori. Già all’epoca si parlò di ‘mano americana’ per mettere in difficoltà un regime incrinato da varie spaccature. Quelle interne al clero, anch’esso diviso fra conservatori e innovatori, quelle fra il gruppo di potere dei Pasdaran, che per un periodo con lo stesso Amadinejad pensava di potersi emancipare dal tutoraggio degli ayatollah.
E quelle di una parte della popolazione, prevalentemente giovane, la quale pur in osservanza alla fede sciita, vorrebbe mettere la parola fine al velayat-e faqih, creatura khomeinista contestata da altri sayyid. Cui s’aggiunge il modernismo dei diritti di My Stealthy freedom, attivo sui social network. A questo sfondo politico che persiste, s’aggiunge la realtà degli ultimi tempi che mostra un rincrudimento unilaterale dei rapporti fra Washington e Teheran per esplicito volere della Casa Bianca. Ora, sostenere che anche le proteste di questi giorni siano ‘pilotate’ può essere un retropensiero o un azzardo, di fatto certe mancate aspettative possono incendiare le delusioni. E al tempo stesso è normale che diversi nemici dell’attuale nazione iraniana - non dunque dell’attuale establishment come possono essere soggetti folkloristici tipo Pahlavi jr, piazzato nella capitale statunitense o la sedicente rivoluzionaria Rajavi, oppositrice dai boulevard parigini - osannino le contestazioni antigovernative. Infatti puntuale è giunto il cinguettìo speculatore, o peggio, del presidente statunitense che si rivolge a ‘un popolo sofferente’. Invece occorrerà capire se le due piazze sono frutto di lotte intestine, una riapertura dei cicli avviati con Khatami e i riformisti suoi successori o altro ancora. Oppure, come sottolineano commentatori vicini al governo, si tratta di mal di pancia legati al carovita, all’inflazione crescente, ai tagli di taluni sussidi che colpiscono i ceti più poveri. Però l’aria si scalda e appaiono i morti. Chi dice tre, chi sei per sparatorie delle Guardie della Rivoluzione nella località di Doraud.  

venerdì 22 dicembre 2017

Nazioni Unite, il ceffone a Trump


Gerusalemme non è la capitale di Israele, né potrà esserlo. Lo dicono 128 nazioni delle Nazioni Unite, fra cui l’Italia (alleluja), che rigettano il piano Trump di fare l’ennesimo favore alla politica annessionista dello Stato sionista. La reazione americana è stata scomposta e minacciosa “Non ci dimenticheremo di questo voto” ha affermato Nikki Haley, l’ambasciatrice-militante del presidente Usa, che già aveva annunciato di fare la lista di amici e nemici della proposta della Casa Bianca. Una vendetta che ruota attorno al denaro, difatti esplicito era stato il riferimento ai fondi d’aiuto previsti, soprattutto per i Paesi africani. Ma il fronte islamico di quel continente e di quello asiatico hanno opposto un netto rifiuto di ‘farsi comperare’ coi dollari. Anche alleati storici d’Oltreoceano, come diverse nazioni europee, hanno voltato le spalle a una proposta unilaterale e divisiva che mina una situazione già fortemente svantaggiata per il popolo palestinese, da cinquant’anni sottoposto a un’occupazione militare illegale.
Israele, che delle risoluzioni delle Nazioni Unite se ne infischia, ha rigettato la votazione; con la sua solita boria Netanyahu dichiarava che “finirà nella spazzatura della Storia”. Il ricatto della mancata assistenza non ha retto anche perché l’amministrazione Trump, nel continuare a rilanciare il programma dell’America First, ha palesato un’ulteriore diminuzione per il 2018 degli aiuti esteri. Se la voce della cosiddetta “assistenza” globale nell’anno 2015 ammontava a 58 miliardi di dollari (la metà dei quali erano rivolti ad accordi economici bilaterali, il 35% alla sicurezza e sostegno militari, il 16% all’assistenza umanitari), il budget per l’anno che verrà è sceso a 25.6 miliardi di dollari. E l’orientamento degli stessi è ovviamente direzionato secondo interessi geostrategici, ad esempio Israele riceverà 3.1 miliardi, contro l’1.3 dell’Egitto e uno della Giordania. I “regali” scemano a caduta in base alla valutazione degli interessi americani, così si sa di 384 milioni di dollari all’Iraq, 104 al Libano, 55 alla Tunisia, 31 alla Libia, 16 al Marocco, ecc.  
Lo stesso ricatto dei fondi è un’arma a doppio taglio, è il caso di dirlo. Come ribadito, una parte degli aiuti giunge sotto forma di armamenti e servizi per la difesa, e se nel caso di Paesi arabi che ricoprono una funzione importante per posizione geografica e influenza politica, prendiamo l’Egitto e l’Arabia Saudita, le casse statali di ciascuno mostrano situazioni ben differenti, grazie a cui Riyadh può permettersi di pagare in proprio la tecnologia bellica di cui viene dotata. Ma è interesse degli stessi americani coprire più fronti possibili, come hanno fatto negli ultimi cinquant’anni. A tale proposito diversi senatori repubblicani lanciano  l’ennesimo monito verso l’attuale amministrazione che sta “compromettendo gli ultimi cinquant’anni di politica estera”, incentrati sul binomio di un avanzamento del processo di pace internazionale seppure letto secondo gli interessi di parte. Ora gli Usa perdono il ruolo di mediazione che ne aveva caratterizzato varie iniziative anche in Medio Oriente. E se nello Studio Ovale non se ne preoccupano, il livello d’allarme cresce anche in casa repubblicana. Oltre che nel mondo.

giovedì 21 dicembre 2017

Regno saudita, gli uomini d’oro di Bin Salman


Della rete di uomini fidatissimi che ruota attorno alla ‘corona de facto’ di Mohammad bin Salman, dalle voci accreditate come quelle di cui si serve il quotidiano L’Orient le jour si possono ricostruire competenze e finalità dei più importati assistenti del nuovo potentato del Golfo. Tredici dei suoi quindici stretti collaboratori sono uomini che contano, parecchi prescelti direttamente da lui, altri accettati, uno imposto.
Legami di sangue - Iniziamo con gli uomini dei legami di sangue: un fratello, un cugino, un nipote. Fra costoro attualmente il più solido, nel ruolo di ministro dell’Interno, è il cugino Saud bin Nayef. 35 anni, studi e carriera tutti interni alla nazione saudita, è stato nominato nella carica nel giugno di quest’anno, una sorta di riparazione al ramo della sua famiglia, il cui zio Mohammad bin Nayaf era stato esautorato dal ruolo di principe ereditario. A vantaggio appunto di Mbs. Ma occhio al suo nipotino Ahmad bin Fahd. 31 anni e molte chances. Attualmente è vicegovernatore dell’enorme provincia orientale che affaccia sul Golfo Persico ed è anche la più ricca: Al Sharqiyya, dove si concentra anche gran parte della popolazione di fede sciita che vive in Arabia Saudita. Lì, a un centinaio di chilometri dalla città di Dhahran, è situato il più redditizio giacimento petrolifero del regno, Ghawar, dal quale vengono estratti 5 milioni di barili di greggio al giorno (oltre il 6% della produzione mondiale). Proiettarsi in un futuro prossimo al vertice dell’amministrazione economica di quella provincia significa controllare i forzieri del regno, infatti Mbs ha piazzato in loco il nipote. Forte già di suo, poiché la mamma Nouf possiede OSN, una delle maggiori reti televisive e satellitari mediorientali e ha anche la concessione locale degli affari di American Express. Nella triade di famiglia sicuramente il meno potente, così da non incentivarne velleità leaderistiche, è il fratellino Khaled bin, ventinovenne e pilota di aerei da guerra, formatosi nelle basi statunitensi. Il boy di famiglia (è il nono figlio di Re Salman) si occupa, accanto ai maggiori Fayçal bin e Turki bin, dei cospicui beni di famiglia.
Uomini chiave - Due elementi centrali del nuovo corso avviato da Bin Salman sono: Abdel Aziz bin Saud e Yasser El Roumayan. Relativamente più giovane il primo, 38 anni, che ricopre l’incarico di Capo di Stato maggiore delle forze di terra, lui stesso è un comandante dei reparti speciali dei parà. Quelli che rappresentano la punta di lancia saudita nella repressione ai ribelli Houti yemeniti. Bin Saud ricopre anche la carica di vicepresidente della Saudi Arabian Amiantit azienda che produce tubi in una trentina di fabbriche saudite e li esporta in 70 nazioni. El Roumayan ha il prestigioso ruolo di consigliere personale di Mbs ed è anche supervisore dei fondi sovrani. L’uomo riunisce funzioni politiche e intenti finanziari. In base al suo percorso accademico sul business e all’esperienza acquisita come intermediario di compagnìe occidentali è diventato dall’anno in corso Direttore del fondo pubblico d’investimento.
Figure strategiche – Strategico risulta il ministro dell’Energia Khaled El Faleh, che ha il non facile compito di far uscire il regno dalla centralità petrolifera. Il compimento della diversificazione economica, attualmente dipendente per il 70% dall’attività estrattiva, sarebbe previsto per il 2030. Come lui strategici sono: Saud El Qahtani e Mohammad El Houwerini. Il primo è presidente per la cyber sicurezza, apparati elettronici e consigliere per i media presso la Corte; il secondo è direttamente il responsabile delle strutture di sicurezza. Gli obbediscono numerosi uffici e forze speciali più il Centro d’informazione e direzione generale degli affari tecnici. E’ considerato l’elemento che presiede gli scambi d’informazione fra Stati Uniti e Regno saudita riguardo al terrorismo internazionale. Mentre si deve a El Qahtani la virulenta campagna lanciata nei mesi scorsi contro il Qatar. Con essa ha fatto perseguire quei cittadini che sui social media mostravano solidarietà o simpatia verso la ricchissima nazione contigua. Una pratica repressiva e d’intimidazione degna dei peggiori inquisitori.
Propagandisti – Da non sottovalutare gli uomini dei media, dell’ideologia e della teologia. Anche qui due nomi: Turki El Dakhil e Awad El Maghanisi. El Dakhil è il direttore di Al Arabiya, sia nella versione di tv satellitare sia in quella diffusa in rete. Sin dalla fine degli anni Ottanta aveva sviluppato numerose esperienze con la carta stampata. Nei Novanta fu corrispondente da Riyadh di Radio Montecarlo che ne accrebbe la popolarità personale interna e all’estero. Diversi politologi lo indicano come elemento molto influente nella cerchia di Bin Salman. Occhio anche alla voce teologica del regime, ovviamente una delle voci, ma vicinissima al principe-sovrano. E’ il cinquantacinquenne Saleh bin Awad El Maghanisi, mufti ufficiale del Paese e da oltre un ventennio membro della Commissione della consapevolezza islamica. E’ presente nella moschea di Quba a Medina e offre i suoi contributi sulla dottrina islamica da vari canali televisivi e satellitari.
Esterni – Privi di keffia, anzi spesso con occhiali Ray ban l’uno e doppiopetto l’altro, Mohammad Eyad Kayali e Nehmé Tohmé, rispettivamente siriano e libanese sono due stranieri laici presenti a corte. I motivi stanno tutti nella diplomatica doppiezza che caratterizza la politica di Riyadh. Entrambi sono affaristi inseriti nei Palazzi di vari governi mediorientali e nelle fastose magioni reali del Golfo. Rappresentano pedine preziose per la diplomazia di Bin Salman. Il siriano gestisce da decenni gli investimenti di più d’un ramo dei regnanti sauditi. Affari che spesso hanno direzionato capitali in Spagna per finanziare operazioni della locale Real Casa, e fatto lavorare imprese iberiche nella penisola arabica. L’ultimo investimento di circa 7 miliardi di euro sostiene la creazione di una ferrovia superveloce fra La Mecca e Medina. Il businessman libanese è il regista di un’operazione che all’inizio dei Settanta inventò il gruppo Alhabani, il cui slogan è: “Da un grano di sabbia, progettiamo l’impossibile. Un impossibile fatto di aeroporti, autostrade, ponti, tangenziali e molte delle cattedrali architettoniche che l’Arabia Saudita sfoggia sull’orizzonte dei suoi deserti. Vicino all’immarcescibile leader druso Jumblatt, Nehmé Tohmé è anche stato il cassiere di buona parte dei petrodollari che hanno ricostruito la Beirut uscita dalla guerra civile, su cui i sauditi hanno sempre diretto lo sguardo affaristico e geopolitico, condizionandone l’establishment ben prima di tener ‘prigioniero’ Hariri junior.
L’imposto – A ultimare la lista degli uomini d’oro c’è un convitato di pietra: Ader Al Jubeir. Dire che sia gradito al nuovo corso è un’esagerazione. Lui è un politico espertissimo, vanta studi in vari Paesi orientali e occidentali, e negli anni Novanta ha affinato già spiccate qualità diplomatiche occupandosi di comunicazione in una fase delicatissima per il Regno saudita: il post 11 settembre. Al Jubeir è stato ambasciatore a Washington e da allora gode di amplissima considerazione negli ambienti della Casa Bianca, al di là di chi occupi lo Studio Ovale. Così si vocifera che nell’attuale prestigioso incarico di ministro degli Esteri ci sia lo zampino statunitense, che nel rapporto non sempre lineare con l’alleato saudita ha preferito avere un uomo di fiducia.

sabato 16 dicembre 2017

Ibrahim, vita da bersaglio


Per il cecchino israeliano di turno l’indomito Ibrahim era un bersaglio facile. Definizione cinica di un gesto che supera il cinismo tramite l’omicidio. Un omicidio di Stato che salverà il vero killer, semplicemente perché per la legge assassina d’Israele quello di Ibrahim Abu Thurayyah, l’uomo amputato di entrambe le gambe che si recava a protestare sulla sedia a rotelle, non è un omicidio. E’ ordine pubblico. E contro il “terrorismo” dei manifestanti che lanciano pietre, i militari possono sparare e uccidere. Lo Stato sionista che arma gli assassini, poi li protegge. E il cerchio si chiude come gli occhi del mondo che annuisce. Dopo avergli tagliato le gambe con un bombardamento aereo nel 2008, quando Ibrahim aveva vent’anni, quella che i media mainstream definiscono “l’unica democrazia mediorientale” gli ha tagliato la vita. Un colpo in testa a quest’attivista estremo che non voleva stare al suo posto e via andare. E’ accaduto anche a Yasser Sukkar, centrato sempre a Gaza, e ad altri due manifestanti uccisi in Cisgiordania, per la sicurezza di Israele e la gloria dei suoi tiratori scelti allocati sui blindati.
In occasione del funerale di Ibrahim, che si è tenuto stamane a Gaza City, una troupe di Al Jazeera ha intervistato alcuni amici dell’uomo che hanno evidenziato la grande forza d’animo e gli sforzi che compiva per sopravvivere dopo l’amputazione delle gambe. Non potendo più praticare la pesca, che era il suo mestiere, si dedicava al lavaggio delle vetture, un lavoro che poteva eseguire muovendosi attorno con la sedia a rotelle. Lavorare era una necessità: sei sorelle, tre fratelli e genitori malati, così si faceva forza senza perdersi d’animo. Oltre ad aiutare la famiglia sperava di poter mettere da parte un gruzzolo per garantirsi quelle protesi che gli avrebbero permesso di stare in piedi e avere più dimestichezza nei movimenti. Eppure eretto nello spirito di persona coraggiosa, di cittadino sensibile alla causa della sua gente, Ibrahim lo è stato da sempre, visto che partecipava senza timore a ogni manifestazione pubblica, comprese quelle più rischiose dove la sua carrozzella non riusciva a divincolarsi fra i dossi del terreno accidentato. L’hanno ucciso lì, in un tiro al bersaglio senza problemi.

giovedì 14 dicembre 2017

Gerusalemme incatenata


Tutti uniti per Al-Quds capitale della Palestina, o almeno per la conservazione della parte orientale della città, contro l’azzeramento israelo-statunitense d’ogni longitudine, d’ogni identità politica e simbolica. Ma quando il presidente turco Erdoğan, che ha riunito a Istanbul 57 membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica, ha invitato “Tutti i Paesi che sostengono la legge internazionale a riconoscere Gerusalemme come capitale occupata della Palestina, non possiamo più trovarci in ritardo” nella testa di più di qualcuno dei presenti sarà balenata qualche perplessità, oltre che difficoltà. Lo stesso sultano, che come ai tempi della Mavi Marmara, rilancia un deciso attacco verbale a Israele, sembra usare nuovamente la questione palestinese per quegli interessi da Risiko geopolitico, gli stessi che l’hanno coinvolto sul panorama siriano, con tanto di giri di valzer e di fronti. Come lui i più decisi difensori di Al-Quds presenti all’assise: l’iraniano Rohani, l’emiro qatariota Al-Thani, il re di Giordania Abdullah II, mostrano un’indignazione teorica cui non fa seguito alcuna iniziativa diplomatica concreta. Almeno nei confronti dell’Unione Europea, che con la rappresentante Mogherini ha rigettato l’idea di assentire alla mossa di una Gerusalemme israeliana.

Al di là di abbracciare un mesto e inamovibile Abu Mazen, l’assenza al vertice di figure di spicco del mondo arabo di alcuni nazioni chiave come Egitto e Arabia Saudita, rappresentati da figure minori della gerarchia interna, indica la china che prende l’iniziativa: un rituale ben poco incisivo, già piegato alle opportunità della politica interna ed estera direttamente correlate al mercato globale. Su questo fronte Israele incide relativamente, ma la branca della lobby ebraica di economia e finanza, contano eccome. E poi il peso ricattatorio statunitense attraverso l’arma dell’embargo per colpire altrui scelte politiche, contro cui convoglia la rete delle alleanze su ogni terreno, militare ed economico. Quindi la scarsa incisività ideologica del blocco islamico deve rapportarsi al realismo politico di altri giganti del mondo (Cina, Russia, India) refrattari a qualsiasi richiamo religioso islamico, che ciascuno vede come fumo negli occhi, o dei diritti dei popoli, ancor più inviso alle attuali leadership delle tre potenze per ragioni di opportunità interne e anche per radicate convinzioni autocratiche. Ecco, dunque, che l’imponente parata turca rischia di essere un pronunciamento d’intenti, una scadenza che non poteva mancare per continuare a non ostacolare nulla. E a incatenare sempre più Gerusalemme ai voleri del sionismo israeliano.  

martedì 12 dicembre 2017

Medioriente, un Putin da guerra e pace


Non ha tempo da perdere il tutore dell’attuale Medioriente che in un rapido giro ha rassicurato l’alleato Asad, consegnato a un successo insperato solo un anno fa, e soprattutto a una sopravvivenza politica messa in forse dallo stesso Putin fino a un pezzo del 2016. Quindi è volato al Cairo dall’omologo al Sisi, a conferma che la geopolitica non guarda per il sottile. Poi la tappa ad Ankara, dov’è stato ricevuto con l’attenzione del caso da Erdoğan ormai amico e vicino, nonostante l’islamismo propugnato e i dissapori trascorsi, tutti archiviati per la cangiante attuale real politik. Le mosse dell’iper presidente russo, in predicato per un quarto mandato (sic) in faccia a qualsiasi Costituzione anche casalinga, sono da due anni a questa parte ineccepibili, per la Madre russa, per sé, e per una parte dei Paesi che in quello scacchiere si muovono. Lui risulta l’uomo della stabilità e della pace, ricercata con ogni mezzo, Tupolev compresi. Del resto, così va il mondo. Certo rimangono in sospeso altri attori, tenuti in bilico più che dalla strategia di fondo, mossa per rilanciare la patria fra le superpotenze, dalle tattiche del momento. Cangianti, come le opportunità, che l’ex l’uomo del Kgb accasato al Cremlino sa cogliere alla perfezione, tallonato nel Risiko mondiale solo dal leader-premier-presidente turco.
Per questo nella triade di colloqui di queste ore l’ultimo è sicuramente il più significativo, forse perché dell’uomo di Ankara Putin si fida poco. Nell’ufficialità dell’incontro, ad esempio, il padrone di casa ha inserito un tema caldissimo in questi giorni: la Gerusalemme incatenata a Israele dal gestaccio di Trump. Questione che Putin inserisce nel duello a distanza più che con l’attuale inquilino della Casa Bianca, con la superpotenza che quest’ultimo rappresenta. Però di Al-Quds, della questione palestinese, di altri risvolti ideologici della geopolitica locale farebbe a meno, anche perché si trascinano dietro un panorama intricatissimo. Però, poiché la geopolitica non è solo palcoscenici e flash, lui ci mette la faccia dal sorriso accattivante e sornione e coglie l’attimo. Così dichiara il vero: che l’operazione Gerusalemme punta a riportare caos in un’area che in cinque anni ha registrato mezzo milioni di morti. Questo particolare Putin non lo ricorda, ma i fatti sì. Lo stesso voltare pagina conservando Asad al potere e la Siria come nazione, lascia aperta la questione kurda, nell’area denominata Rojava, e lì dove gli alleati di lungo corso (Iran) e del momento (Turchia) puntano a ignorarla e reprimerla. E in questo giro, non s’è trattata la situazione irachena… Ma il viaggio double-face del leader moscovita aveva lo scopo di stabilire nuovi avamposti strategici per una Russia intenta a sottrarsi al ‘cordone sanitario’ che da anni la Nato gli ha teso con le ex nazioni dell’est.
Dunque occhio al Mediterraneo, insistendo su due temi all’ordine del giorno nella ricerca di normalizzazione: sicurezza ed economia. E Turchia ed Egitto, partner occidentali, il primo anche enorme pedina della difesa militare governata dagli Usa, sono elementi di primo piano da poter sottrarre all’influenza statunitense. Hanno bisogno di stabilità interna messa a repentaglio dal fondamentalismo islamico e dall’opposizione politica, cercano di compattare la supremazia delle proprie leadership anche con impulsi economici che hanno visto passi enormi compiuti per un decennio dal Paese anatolico e promesse, finora scarsamente realizzate, dall’uomo forte del più grande Stato arabo. Al Cairo e Ankara s’è parlato di presente e futuro, condendoli coi miliardi (pare 21) promessi per creare la prima centrale nucleare egiziana e del sistema missilistico S-400 utile ad entrambi. Anche queste, e ulteriori mosse, cui punta il neo zar più strategicamente ferrato che la Russia sia riuscita a sfornare dall’epoca sovietica, sembra che condurranno Putin a un ulteriore interregno, che lo indicherebbe come presidente per la quarta volta il prossimo 18 marzo. Durerebbe sino al 2024. Per un secolo che dopo quello definito breve dovrebbe risultare cortissimo, un’eternità.

martedì 5 dicembre 2017

Omicidio Caruana Galizia: Malta mette in rete piccoli pesci


Quarantadue giorni d’indagini con in testa la polizia maltese, ma anche l’Fbi ed Europol, portano al fermo di dieci sospettati, una banda di malavitosi che avrebbero eseguito l’omicidio della giornalista Caruana Galizia. Il primo ministro Muscat parlando di operazione ancora in corso, può comunque presentare un primo risultato a conferma di quanto aveva dichiarato subito dopo l’omicidio: agli esecutori di questo barbaro gesto non bisogna dar tregua. Alle indagini ha offerto il contributo la tecnologia: la disamina delle celle telefoniche di vecchie conoscenze degli inquirenti che evidenziavano come tre portatili appartenenti a personaggi malavitosi già noti alla polizia locale, fra cui due fratelli, erano attivi nei minuti in cui è avvenuta la deflagrazione dell’auto (presa a nolo) su cui viaggiava la cronista. Due telefoni avrebbero fatto da vedetta durante il transito della vettura, uno è servito per innescare la carica di plastico piazzata sotto la scocca. I soggetti fermati hanno precedenti per traffico di armi e droga, potrebbero essere coinvolti in quello smercio di petrolio libico, operato anche da gruppi jihadisti che coinvolge privati e nazioni committenti. Era uno dei filoni delle indagini giornalistiche compiute dalla vittima.

Uno. Perché ciò che aveva infastidito maggiormente il premier laburista dell’isola, detta del tesoro per i segreti sui conti bancari offshore un tempo gestiti in loco e in seguito sparsi in differenti paradisi fiscali, erano altri affari con base a La Valletta. Taluni riguardavano personalmente lui e alcuni ministri del governo. Dalla società Egrant, intestata alla moglie Michelle, sul cui conto erano transitati i denari versati dal presidente azero Alijev per l’affare del metanodotto che porterà il gas dal Paese caucasico in Europa. Muscat avrebbe avuto il ruolo di facilitatore politico durante il periodo di sua presidenza di turno al Parlamento Europeo. Implicato nella vicenda, presente nel dossier denominato Panama Papers, anche il ministro Mizzi, parimente coinvolto in intrighi finanziari con una società intestata a suo nome e sede in Nuova Zelanda che forniva “servizi” nell’isola. Un altro degli aspetti evidenziato dagli articoli-denuncia di Caruana Galizia era l’inquietante, ma ormai da anni non segreta, attività di contatto fra criminalità locale e altre straniere, comprese cosche siciliane. Ai soliti traffici di armi e stupefacenti, facilitati dal traffico marittimo e dalla posizione dell’isola, s’univano i nuovi affari.

I contrabbandi di idrocarburi e la tratta di uomini, drammatiche piaghe che la destabilizzazione politica mediorientale ha riversato da oltre cinque anni sul Mediterraneo. Simili business, gestiti dalle mafie di varie nazioni che fanno cartello e si compenetrano, s’interfacciano a soggetti che ufficialmente fungono da tramite con aziende private e di Stato. Questo sottobosco trova nella lassità di norme e di controlli “dell’isola del tesoro” un terreno fertilissimo, un sistema reso tale dalle compiacenze della politica locale, di maggioranza e d’opposizione, e dai massimi rappresentanti istituzionali. Tutto ciò denunciava Daphne. E questo ormai infastidiva i vertici nazionali, oltre che la manovalanza maltese del malaffare. Gli inquirenti, se vorranno, potranno indagare se quest’ultima, come il manipolo dei fermati e probabilmente arrestati, ha agito di sua sponte. Scelta sempre rara quando si tratta di semplici banditi che agiscono  per conto terzi. Certo, attualmente il primo ministro può vantare rapidità d’inchiesta e cattura di probabili omicidi, mostrandosi come integerrimo cacciatore di criminali e passando da politico sospettato a politico persecutore di giustizia. A meno che qualcuno dei fermati scelga di collaborare e rivelare possibili intrecci  segreti. Quelli attorno ai quali la giornalista assassinata indagava. Quelli che i suoi familiari indicano come il vero filo della losca storia. Se la ricerca della verità sarà resa possibile.

lunedì 4 dicembre 2017

Egitto. Shafiq: sequestro-farsa da candidato-comparsa


Il giallo del rapimento-lampo di Shafiq, mostrato in queste ore all’opinione pubblica egiziana e internazionale, è probabilmente meno misterioso di ciò che appare. Magari s’imporrà per un certo periodo come diversivo nei notiziari interni, visto che dalle indagini sul recente sanguinosissimo attentato alla moschea al Rawdah non scaturisce granché, oltre agli iniziali bombardamenti a caso su convogli indicati come terroristi per coprire il vuoto informativo del Mukhabarat. I fatti. L’odierno settantaseinne Ahmid Shafiq, da tempo riparato negli Emirati Arabi Uniti per i guai giudiziari dell’epoca Mubarak, a detta dei suoi familiari sarebbe stato sequestrato per alcune ore dopo un rientro al Cairo. La sparizione viene messa in relazione con l’annuncio di una sua disponibilità a partecipare alle elezioni presidenziali della prossima primavera. L’interessato, che ieri sera ha ufficializzato su un’emittente privata l’idea di correre per la massima carica del Paese, comunque nega la notizia del sequestro. Shafiq partecipò alle presidenziali del 2012, quando venne prescelto come rappresentante della politica laica (e del vecchio regime) contrapposto al candidato della Fratellanza Musulmana Morsi.

Perse per novecentomila preferenze, ma quella sconfitta rincuorò il fronte opposto alla Confraternita che iniziò a tramare per una riscossa. Nell’interregno Morsi, crebbero i guai giudiziari di Shafiq, accusato di corruzione e arricchimenti personali, nel suo incarico di generale dell’aeronautica fedelissimo al presidente Mubarak e suo sodale di operazioni finanziarie a danno dello Stato. Dopo il golpe di Sisi contro il governo della Fratellanza Musulmana Shafiq pensò di riparare ad Abu Dhabi, risiedendovi. Ora l’annuncio di voler correre per la presidenza lo pone nuovamente sul proscenio nazionale. Per i suoi trascorsi la figura di Shafiq difficilmente può rappresentare una bandiera dell’Egitto democratico, attualmente non detenuto, che vuole contrastare lo strapotere autoritario (e criminale) di al-Sisi. Al contrario potrebbe fornire al generale-presidente l’alibi di una competizione libera e aperta, come accadde nel 2014 quando Sisi stravinse su Sabbahi col 97% dei consensi.  Si parlò di 23 milioni di votanti, ma secondo osservatori internazionali a quelle consultazioni aderì il 30% dell'elettorato, dunque le cifre risultavano gonfiate. Un candidato di cui si presume la presenza elettorale è l’avvocato dei diritti Khaled Ali.

Partecipò anche nel 2014 con percentuali, come si dice in politichese, da prefisso telefonico. Lui porrà al centro della campagna presidenziale il tema della libertà e dei diritti calpestati da un quadriennio di repressione indiscriminata. Ma sicuramente il tema centrale sarà quello della sicurezza interna, messa in discussione non solo nel Sinai. Eppure su quest’ultimo che parrebbe il terreno privilegiato per il generale di ferro, l’attualità volta le spalle a Sisi. Il gruppo Wilayat Sinai, diventato una costola dell’Isis, sembra imprendibile nell’area in cui agisce. Al di là del cartello jihadista di cui è diventato membro che trova propaggini nel territorio libico controllato dai miliziani islamisti, riceve sostegno da quelle tribù beduine con cui l’attuale presidente non è riuscito a stabilire alcun accordo e che reagiscono alla linea coercitiva praticata dall’esercito egiziano. Capire come si collocherà il candidato Shafiq nell’ipotetica sfida sui temi in questione è un parziale rebus. La contrazione dei diritti non è mai parsa una sua preoccupazione e pur da ex militare e uomo d’ordine non sembra attualmente avere una presa sulla lobby delle stellette. Il ruolo, com’è ipotizzabile nella vicenda del sequestro, può risultare quello di una comparsa di rango che fa il ‘gioco democratico’ del dittatore-mattatore.

martedì 28 novembre 2017

Pakistan: la protesta islamista fa dimettere il ministro



Vincono i sit-in e le barricate degli islamisti. Il premier pakistano Abbasi abbassa la guardia e fa dimettere il contestato ministro della Giustizia Hamid. Anche perché l’esercito, che il governo non aveva voluto mobilitare nonostante il traffico verso la capitale fosse bloccato da tre settimane con situazioni incresciose per l’intera comunità, ha fatto capire che avrebbe disobbedito a ordini repressivi. Dunque, una delle due lobby della forza (l’altra è la potentissima Inter-Service Intelligence) ha preso posizione a favore del crescente movimento islamista, diventato partito: Tehreek-i-Labaik Ya Rasool, rinverdendo i trascorsi del generale Muhammad Zia-ul Haq, il dittatore che negli anni Ottanta incentivò il diffondersi nel Paese delle leggi islamiche. Il partito Tehreek è di recente formazione, ma già conta di un discreto seguito elettorale; ora per le pretese mostrate dai propri ulema cercherà di trarre vantaggio da un simile successo. Che mette in discussione l’approccio mediatorio offerto dai leader laici legati a clan familiari (Bhutto, Sharif) passati dai vertici nazionali a conseguenti cadute per attentati o cause di corruzione. Nel luglio scorso Nawaz Sharif aveva dovuto abbandonare l’esecutivo perché coinvolto nello scandalo dei ‘Panama Papers’. Alla politica ufficiale, che colloca il Pakistan fra gli Stati in competizione per l’egemonia regionale tramite un’alleanza privilegiata con gli Stati Uniti tratteggiata da reciproche ambiguità, si contrappone l’azione dell’Islam politico interno, variamente organizzato.
Per un lungo periodo i porosi confini occidentali hanno assunto la funzione di rifugio dei combattenti talebani afghani appoggiati dai fratelli pakistani. Tuttora i territori delle cosiddette Fata (Federal Administered Tribal Areas) sono un mondo a parte dei due Stati che, comunque, sospettano l’uno dell’altro. Le leadership afghane di ogni epoca e fase geopolitica hanno sempre temuto una cannibalizzazione da parte dei vicini, quest’ultimi diffidano dell’instabilità che i talebani esterni, in combutta con gli interni, possono portargli in casa. I Talib stessi da almeno vent’anni non sono un’unica famiglia politica. Anzi. Scissioni e differenti fazioni ne fanno entità diverse. Trattandosi di movimenti che pongono al centro delle proprie scelte precisi indirizzi confessionali applicati alla politica, occorre seguirne anche le evoluzioni. E nella galassia del fondamentalismo islamista pakistano occorre distinguere orientamenti in aspro conflitto fra loro: i seguaci delle teorie deobandi, influenzate dal wahabismo, e i gruppi barelvi ispirati dal sunnismo hanafita. Fra quest’ultimi, cui appartiene il movimento Tehreek-i-Labaik Ya Rasool in azione a Islamabad, alcuni predicatori si mostrano integerrimi nel sostenere lotte ma non sono propensi alla violenza, altri perseguono gli obiettivi con ogni mezzo.
In passato i berelvi hanno condotto campagne politiche contro i talebani di cui condannano il radicalismo armato e gli attentati suicidi. Eppure c’è chi non crede allo spirito sufi che filosoficamente dovrebbe apparentare molte anime del sunnismo asiatico, perché nella stessa esasperazione teorica traspare quell’intolleranza di ritorno che caratterizza ogni fondamentalismo. E la questione della blasfemia può diventare un pretesto per attaccare qualsiasi espressione e manifestazione di minoranze religiose o le medesime posizioni politiche avverse. I più preoccupati sono gli avvocati dei diritti che già vedono perseguitati quegli attivisti politici e giornalisti fuori dal coro accusati di islamofobia semplicemente in base a libere espressioni di pensiero o resoconti di cronaca. Il partito di governo, Lega musulmana pakistana, che in occasione di quest’ultima crisi ha assunto la posizione neutrale di osservatore, scaricando ogni responsabilità al ministro della Giustizia e patteggiando per lui coi religiosi che guidavano la protesta l’esenzione da qualsiasi fatwa personale, sembra giocare col fuoco. Il blocco sociale che lo sostiene è popolare ma incentrato su una sorta di ceto medio, mentre gli strati più poveri sono maggiormente sensibili ai richiami religiosi trasportati in politica. Un’accentuazione dell’identità musulmana basata su questioni di rigore e purezza può sicuramente favorire posizioni estreme. Il governo gioca sul clima di paura fra la gente, mentre l’esercito potrebbe adottare la prassi doppiogiochista dell’Isi.

lunedì 27 novembre 2017

Islamabad, gli islamisti sulle barricate


Sei morti. Destinati a salire, non solo per le condizioni disperate di molti dei duecento feriti, ma per ulteriori scontri che si preannunciano sanguinosissimi. Eppure si è trattato di corpo a corpo: i bastoni dei manifestanti contro i manganelli dei poliziotti pakistani, con l’aggiunta ieri delle pallottole di gomma, responsabili sicuramente delle uccisioni. Il governo, che finora ha escluso l’intervento dell’esercito, sta usando i reparti speciali dei Rangers che entro il 3 dicembre dovrebbero riportare l’ordine. Ma gli osservatori prevedono un aumento del conflitto. C’è già stata una settimana di protesta, partita con sit-in organizzati dagli islamici radicali del gruppo Tehereek-i-Labaik Ya Rasool che nella zona periferica di Feizabad hanno bloccato l’ingresso nella capitale non solo del traffico privato, ma delle stesse merci. Ora l’insubordinazione s’allarga alle popolatissime Lahore e Karaki e fa temere il peggio. Il crescendo degli ultimi giorni mostra il consenso acquisito dai conservatori islamici in un Paese ad altissima tensione sociale e religiosa, sebbene la gran massa della popolazione (200 milioni di abitanti, con uno dei tassi di crescita demografica fra i più elevati al mondo) sia musulmana. Ormai da decenni il Paese si misura sull’interpretazione da dare all’Islam, sul rispetto della tradizione e trova nel fondamentalismo deobandi un substrato favorevolissimo all’estremismo religioso. Divenuto terreno di coltura del jihadismo degli studenti coranici delle madrase: i ben noti taliban.
Le proteste di questi giorni sono la conseguenza di quel che era iniziato alla fine dell’estate: sermoni su sermoni d’un crescente numero di imam contro il ministro della Giustizia, Zahid Hamid, accusato di blasfemia. La sua colpa è aver introdotto un protocollo ‘laicizzato’ per i ministri del governo che, quando giurano fedeltà, non devono far più riferimento al profeta Maometto. La modifica viene considerata un atto gravissimo, al quale il ministro ha cercato di rimediare scusandosi. Ma il giovanissimo partito dei Tehreek non ha voluto sentir ragioni e chiede le dimissioni del politico. Nel contempo la campagna dei predicatori contro ciò che viene definito un degrado di costumi delle Istituzioni politiche ha fatto decine di migliaia di proseliti e i sit-in pacifici di inizio novembre son finiti sulle barricate. Lo stesso gruppo islamista sta riscontrando un formidabile consenso, sorto da un paio d’anni il movimento Tehreek ha nelle recente elezioni fatto segnare il 7% di consensi elettorali, un vero boom per una formazione esordiente. A dimostrazione di come il substrato pakistano sia apertissimo ai richiami d’un confessionalismo politico che assume connotati cangianti.
I gruppi armati di Taliban ortodossi sono da tempo presenti, e quelli dissidenti hanno da tre anni introdotto uno scontro ideologico su basi etniche in aree circoscritte (Waziristan), più terrore diffuso con stragi e attentati sui civili (la scuola di Peshawar, il parco-giochi di Lahore, la stessa Islamabad città delle Istituzioni). Ora si prospetta un ulteriore scenario: la protesta fondamentalista può diventare jihadismo di massa. Anni addietro qualche caso si verificò in circostanze specifiche riguardanti prevalentemente simboli, come l’ambasciata statunitense assaltata da studenti islamisti in occasione delle vignette contro Maometto, ma al di là della reciprocamente ambigua alleanza fra Washington e Islamabad, è la politica nazionale a star stretta a un numero crescente di popolazione che riprende a guardare verso l’Islam politico, in una versione estrema rivolta alle masse. Proprio questa è la posizione espressa dai Tehereek-i-Labaik Ya Rasool che si misurano sul terreno elettorale e, tramite il retroterra delle moschee, nelle piazze e nel braccio di ferro che può scaturire dal muro contro muro con l’establishment istituzionale. Occorre osservare cosa farà il Daesh, già apparso nella regione da oltre un anno per tessere rapporti coi talebani dissidenti, per un impegno, comunque, esclusivamente armato. Attualmente per l’Isis, sconfitto e allontanato dalla Siria, riparare su terreni di scontro del Medio Oriente vicino (Sinai) e lontano (Afghanistan e Pakistan) l’inserimento, con propri predicatori, fra le masse in subbuglio può rappresentare una ghiotta occasione.
 

venerdì 24 novembre 2017

Giro d’Italia in Israele: “L’è tutto sbagliato”


Non hanno avuto molto tempo per dormire i ciclisti della squadra Israel Cycling Academy, già in allenamento per la Centunesima edizione del Giro d’Italia che partirà - incredibile ma vero - da Gerusalemme. La scorsa settimana un gruppetto di atleti era giunto in Israele per un adattamento nei luoghi dove sono previste le prime due tappe. I corridori, un po’ storditi dal jet-leg, stavano riposando per la pedalata del giorno seguente, quando verso mezzanotte sono stati svegliati da un reparto dell’Israeli Defence Forces che gli ha propinato un addestramento particolare: krav maga, il sistema criminale d’offesa spacciato come ‘arte marziale difensiva’ e utilizzato dai reparti speciali dell’Idf. Lo riferisce un articolo pubblicato sul sito web di Cyclingnews, rivista australiana di settore  (http://www.cyclingnews.com/news/israel-cycling-academy-hike-to-jerusalem-gallery/). Del gruppo facevano parte gli ultimi acquisti del neoformato team: il belga Ben Hermans, lo spagnolo Ruben Plaza, i norvegesi Holst Enger e August Jensen, l’italiano Sbaragli, il turco Örken. Al di là della militarizzazione degli allenamenti dei pedalatori, non sappiamo se giustificato da questioni di sicurezza personale, che manifesterebbero un’impossibilità di Israele di garantire l’incolumità assoluta di atleti e staff oppure da un eccesso di zelo o ancora dall’uso di ogni circostanza per divulgare la pseudo arte marziale tanto cara a Tsahal, facciamo alcune considerazioni sull’appuntamento.
Perché la nazione israeliana lancia quest’iniziativa? Crediamo per utilizzare quel terreno neutrale e attrattivo rappresentato dallo sport per uscire dall’isolamento in cui la reiterata linea aggressiva del proprio establishment politico l’ha sospinta da tempo. Israele è presente nel mondo sportivo e si è costruito un palmarés in alcuni discipline di squadra (calcio, basket) e individuali (judo, ginnastica, nuoto, tennis) dove ottiene anche successi e piazzamenti olimpici. Del ciclismo, francamente, non c’è traccia, come non c’è in buona parte di quel Medio Oriente, inadatto a tali competizioni un po’ per conformazione morfologica e principalmente per questioni geopolitiche. Organizzare una corsa, in linea o a tappe, non è come realizzare una gara al chiuso di uno stadio o un palasport. La sicurezza è messa in crisi dall’instabilità, soprattutto se si devono percorrere migliaia di chilometri. Ciò non toglie che anche in quei luoghi l’amore per le due ruote possa trovare seguaci. Alcuni corridori del team ICA (Goldstein, Niv, Sagiv) sono israeliani, ma la squadra citata dall’articolo di Cyclingnews, nasce due anni or sono, probabilmente con l’intento che abbiamo ipotizzato poc’anzi: utilizzare ogni opportunità per dare un’immagine rassicurante di Israele. Caratteristica resa dubbiosa da ogni notizia di cronaca, interna e internazionale. Uno dei finanziatori di Israel Cycling Academy, Ronald Baron, e il direttore sportivo ed ex ciclista, Ran Margaliot, narrano la storia del loro incontro avvenuto, tre anni fa, sotto la collina di Nes Harim, 700 metri di altezza, diventata nel 1950 un moshav, comunità agricola degli ebrei Mizrahi.
I due, per pura passione, avrebbero deciso di fondare il citato club del pedale che, secondo un recente articolo del Corriere della Sera (http://www.corriere.it/sport/17_settembre_18/israel-cycling-academy-l-unico-team-pro-che-corre-grazie-donazioni-48ecd510-9c4b-11e7-9e5e-7cf41a352984.shtml) si regge sulle donazioni. Se queste ci sono potranno esser rese pubbliche, ma letta la biografia di mister Baron pensiamo che alla passione abbia unito anche i suoi non pochi denari. Newyorkese, negli anni Settanta Baron lavorava per una società di brokeraggio; nel 1982 ha fondato la Baron Capital Management, una società che si occupa di investimenti. La rivista Forbes gli attribuisce attualmente una gestione di 26 miliardi di dollari. Il secondo socio del club ciclistico israeliano è un altro capitalista non da poco: Sylvan Adams, figlio di Marcel, ebreo rumeno sopravvissuto all’Olocausto, fuggito prima in Turchia e riparato nel nascente Stato di Israele per il quale combatté nel 1948. Subito dopo papà Adams si stabilì in Canada in qualità di affarista, prima nella concia del pellame quindi come immobiliarista. Il figlio Sylvan ne ha ereditato le attività. Certo lo sport ha bisogno di finanziamenti ed evidentemente per gli israeliani affezionati alla causa del proprio Stato investire sul mito del pedale offre a Israele un ritorno d’immagine non da poco. La bella favola ha trovato sponda nella Corsa Rosa, non solo con la legittima iscrizione della squadra di Tel Aviv nell’edizione del Giro che gira pagina dopo i suoi cent’anni di gara, ma con la scelta degli organizzatori di portare la corsa fuori dal continente. Finora le discusse e discutibili sortite estere, iniziate nel 1965 con una tappa a San Marino, avevano avuto una dozzina di precedenti, rilanciati periodicamente dalla metà degli anni Novanta.
Gli sponsor pagano bene e il circo del pedale segue quel richiamo. Apprendiamo dal gruppo Boycott, Divestment, Sanctions che La Gazzetta dello sport riceverà oltre quattro milioni di euro per le due tappe estere. Non ci meravigliamo, né scandalizziamo. Lo sport agonistico è da troppo tempo diventato una costosa macchina affaristica. Pesano molto di più sul morale di chi crede nel suo ruolo nella società moderna le truffe e la piaga del doping, che com’è accaduto, incide pesantemente sulla salute degli atleti. Scandalizza, invece, che il volto buono che Israele vuole offrire di sé non riceva la critica per i soprusi, le ingiustizie, le violenze che quel Paese profonde. Sicuramente non saranno gli sportivi e i dirigenti di Israel Cycling Academy a macchiarsi dei crimini sui palestinesi. Ma quest’ultimi se mai riuscissero a veder passare (e non ci riusciranno, non solo a causa del Muro) la carovana del Giro, ad ascoltare l’armonioso frusciare di cambio e catene, a intercettare la fatica e la gioia di chi pedala, si sentirebbero meno oppressi? Chi si batte contro l’ingiustizia fatta politica può accettare che i corridori israeliani partecipino alla festa della competizione. Considera, invece, un insulto far transitare la corsa per Gerusalemme e lì sostare, chiudendo gli occhi davanti allo sfregio di cinquant’anni di occupazione di quei luoghi santi. Degli ebrei, ma anche dei cristiani e dei musulmani che lì abitano e ne vengono sfrattati. Il Ginettaccio, nell’occasione ricordato per il sacrosanto aiuto offerto agli ebrei italiani perseguitati dal nazifascismo, proprio per quel senso di giustizia che ne ha caratterizzato la vita a queste  tappe portate su una terra insanguinata direbbe: “L’è tutto da rifare”.