giovedì 27 giugno 2019

Egitto, il ‘piano della speranza’ finisce in galera


Giungono notizie, ne scrive la stampa internazionale come Le Monde, di recenti arresti che il ministero degli Interni egiziano ha confermato. Si tratta di esponenti liberali e della sinistra riformista: l’ex deputato socialdemocratico El-Eleaimy, l’esponente del gruppo Hizb al Tahrir Hossam Mo’anes, e altri attivisti d’area neo nasseriana che aveva sostenuto nei suoi tentativi presidenziali Hamdin Sabbahi. Il regime di Al Sisi li accusa di preparare un “piano di speranza”, l’avrebbero definito così essi stessi. Per provare a rilanciare quei diritti di parola, manifestazione, per non dire d’opposizione che sono stati azzerati nel Paese che fa di prigione, tortura e assassinio una sistema di controllo e di potere. Che esista un processo d’idee simile, ma non un partito e neppure un movimento, non viene negato da taluni intellettuali impegnati a rivendicare diritti civili, col sostegno di strutture come Amnesty International, pronti comunque al distinguo con la Fratellanza Musulmana. Quest’ultimi sono totalmente estranei al piano della speranza e secondo i promotori devono restare tali, perché strade e obiettivi delle due componenti restano diversi, anche al cospetto della comune repressione in atto ormai da sei anni.

Non è chiaro se gli esponenti di quest’area liberal abbiano elaborato le tappe da loro stessi percorse nel fatidico 2013. Quando facendosi se non promotori, sostenitori della sedicente “seconda rivoluzione” con la raccolta di firme che chiedeva le dimissioni del presidente in carica Morsi, favorirono il golpe bianco dei militari che il 3 luglio pose agli arresti il Capo di Stato. Negli anni seguenti, a repressione diffusa e generalizzata, anche i più noti attivisti di strada che avevano agitato i cartellini rossi con su scritto Irhal , cioè vattene, rivolto al presidente islamista che non amavano, hanno conosciuto i trattamenti delle carceri. La propaganda anti Fratellanza di quei giorni affermava d’aver raccolto oltre venti milioni di firme contro il presidente, sebbene l’Alta Corte Costituzionale, che venne interpellata, sostenne come la massima autorità nazionale non poteva essere deposta con una simile iniziativa. Poi, nonostante una metà degli egiziani sostenesse quell’uomo, l’azione passò all’esercito che iniziava a far pesare le maniere di sempre, quelle forti, divenute sempre più forti e sanguinarie. Un’opposizione laica cavallo di Troia dell’esercito reazionario?

Se è per questo i laici, laicissimi ragazzi del “6 Ottobre” anche in quei turbolenti giorni dichiaravano come elementi alla El Baradei e Moussa non fossero altro che rottami mubarakiani, mentre Sabbahi appariva il classico inutile idiota di certa politica di finta opposizione. Certo, tanto s’è detto sulla lotta di potere fra la lobby militare, i tycoon e i fantocci filo occidentali, la Confraternita islamica. Eppure per l’intero biennio compreso fra la rivolta di Tahrir e l’avvio della repressione inaugurata da Sisi col massacro di Rabaa, giovani laici e islamisti si ritrovavano nelle strade cairote a inseguire il sogno d’un cambiamento di rotta governativo. Che questo non ci sia stato è una realtà, ma chi ha lavorato e per cosa è egualmente evidente, seppure oggetto d’interpretazioni differenti. L’Egitto uscito da quell’intricato periodo, mostra travagli e angosce ben maggiori per i suoi cittadini come per chi ne osserva il cupo clima che continua a schiacciarne libertà, democrazia e la stessa voglia di vivere. Una prigione a cielo aperto che è stata denunciata da Ong e avvocati dei diritti che rischiano come e più degli stessi liberal fautori di speranze cui il regime soffoca sul nascere qualsiasi vagito. Ovviamente bollando tutto come terrorismo. E facendo di tutto tabula rasa, perché cancellare il passato, anche quello prossimo, paga.  

lunedì 24 giugno 2019

Il sogno della Turchia nuova


Alla fine non hanno retto neppure Fatih e Üsküdar. Anche quelle moschee a cielo aperto che sono le strade dei due popolari quartieri che dalle sponde europea e asiatica amoreggiano sul Bosforo hanno votato a maggioranza per l’uomo nuovo dell’immensa metropoli turca. 49.51% a Fatih, 54.26% a Üsküdar contro il 49.37% e il 44.80% presi da Yıldırım. L’Akp regge ampiamente solo in qualche area (Esenler 61.03%, Arnavutköy 60.22%, Bagcilar 56.62%). Invece dove pulsa il cuore giovanile, il turismo e le rivendite commerciali (Beşiktaş, Kadiköy, Bakirköy) le percentuali sono scudisciate taglienti per il partito di governo, e İmamoğlu trionfa con quote stratosferiche: 83.90%, 82.36% 79.33%. Brividi sulla schiena del navigato Erdoğan che dovrà - e lo sa - rapportarsi al nuovo orizzonte. Visto che altre elezioni  non sono previste sino al 2023, per starsene in sella tranquillo sino a quella scadenza da lui tanto ambìta per via del centenario della Turchia moderna che lo condurrà nella grande Storia al pari di Atatürk e finanche di Solimano, dovrebbe ridimensionare le smanie di potere e strapotere. Abbassare i toni polemici, il clima da guerra civile, le vendette e le divisioni polarizzanti. Ci riuscirà? In molti casi gli avversari, che diventano nemici, creano essi ulteriori percorsi di scontro, ma il Sultano  direttamente o meno è protagonista di questo processo.
Per ora ci sono stati i complimenti al nuovo sindaco e i pronunciamenti di collaborazione di quest’ultimo che da semisconosciuto s’appresta a lanciare la leadership nazionale nel partito repubblicano. Ovviamente coi dovuti tempi. Alcuni politologi hanno avvicinato i due proprio riguardo allo sviluppo di carriera. L’elezione di İmamoğlu somiglia per certi versi a quella del primo Erdoğan che si prendeva una città dinamica dove la politica degli anni Novanta non voleva lasciar spazio all’opposizione, in quel caso islamista. Il desiderio di novità può smuovere quei turchi meno ideologizzati, che guardano al giorno per giorno e al portafogli da riempire col lavoro e svuotare con buone prospettive presenti e future. Quelle per un buon tratto garantite dall’Akp e da almeno un biennio messe in discussione anche dalle fluttuazioni politiche spregiudicate e personali dell’uomo che vuole essere tutto. In queste ore, grazie alle buone maniere fra vincitori e sconfitti, i mercati finanziari hanno offerto un po’ di tregua alla Banca nazionale e alla malandata lira turca che ultimamente ha perduto l’8% sul dollaro statunitense. Un’incognita addirittura maggiore di quella dei rapporti cordiali col maggior partito d’opposizione riguarda ipotetiche scissioni interne all’Akp.
Dividere le forze sarebbe suicida, ma ciò che è accaduto in questi anni a personaggi di primissimo piano: l’ex premier e presidente Gül, l’ex ministro degli esteri Davotoğlu, il tecnocrate Babacan, tutti messi da parte dalla strapotere erdoğaniano, da oggi non dovrebbe essere più possibile. Per il suo futuro di governo, di partito e anche della sua funzione pubblica Erdoğan dovrebbe ridimensionare il super Io che lo caratterizza da sempre. Però una questione vitale è: quali personaggi di spessore può mostrare un partito nell’ultimo quinquennio letteralmente fagocitato dal personalismo del capo? Pur dotato di enorme fiuto tattico il Sultano s’è guadagnato l’epiteto proprio per aver promosso solo ‘yes men’ e fidatissimi politici di clan e in qualche caso parenti acquisiti. Ora – il gossip che neppure il Mıt riesce a tacitare – racconta che Berat Albayrak piazzato alle Finanze per presunte competenze e per la fidelizzazione con cui anni addietro avrebbe condotto operazioni finanziare favorevoli ai tesoretti speculativi di quello che diventava suo suocero, sembra essere in rotta col potente papà di sua moglie Esra. Motivo della contesa l’infedeltà coniugale del genero, che un leader e uomo di mondo “può capire”, ma un padre della patria islamico deve censurare. Per ora silenziato è da alcuni giorni il chiacchiericcio del web che commentava le scappatelle erotiche del ministro con una turca tutt’altro che casa e moschea: l’avvenente modella Özge Ulusoy.
Con un contorno neppure poetico come quello offerto dal celebre triangolo amoroso Kemal-Füsun-Sibel dello splendido “Museo dell’innocenza” di Orhan Pamuk. Ecco, forse nella Turchia che si prospetta per i prossimi mesi dove, per attutire il colpo della perdita di Istanbul il presidente dovrebbe attenuare la polarizzazione, proprio le menti libere degli scrittori finiti nella macina della repressione contro tutto e tutti potranno ricevere il conforto della tolleranza. Forse. I giornalisti molto meno, poiché l’orgoglio del cuore laico di Istanbul difficilmente potrà creare un’enclave nell’attuale ordinamento giuridico che nei tre anni della repressione anti-golpe ha assimilato qualsiasi pensiero diverso da quello di Erdoğan ad attentato alla sicurezza nazionale.  Con conseguenti processi e condanne. L’abbraccio festoso fra İmamoğlu e la folla dei suoi elettori è risultato assai scenografico, come il suo ringraziamento: “Voi avete protetto la reputazione della democrazia nel nostro Paese”. Bisognerà vedere cosa potranno fare per la democrazia a livello nazionale i partiti d’opposizione grandi e piccoli. Qualche commentatore turco s’aspetta un rimpasto governativo, soprattutto per tenere botta su politica economica ed estera e non allargare al quadro istituzionale il ko tutt’altro che marginale di ieri.   

domenica 23 giugno 2019

İmamoğlu, doppio schiaffo a Erdoğan

E’ andata bene, benone oltre ogni speranza per il sindaco dei 18 giorni Ekrem İmamoğlu. Quanto gli era stato tolto da un Consiglio Elettorale Supremo molto compiacente ai voleri del Sultano glielo restituisce l’odierno voto popolare, con un cospicuo conforto. Stavolta il vantaggio sul candidato dell’Akp Yıldırım, non è la manciata dei 13.000 voti del 31 marzo scorso, ma 700-750.000 preferenze in più che portano il distacco a ben otto lunghezze percentuali: 53.69% per l’esponente repubblicano contro il 45.4% dell’ex ministro islamista. E col ritorno forzato alle urne in tre mesi il sistema erdoğaniano subisce un tonfo doppio, anche per la capziosità di questa ripetizione: la parziale assenza di dipendenti pubblici fra gli addetti ai seggi non s’era registrata solo nella metropoli sul Bosforo, ma anche altrove. Però si è rivotato solo lì dove Erdoğan aveva avviato la sua carriera politica, un luogo dove l’Akp dal 2001 faceva il bello e cattivo tempo, e il cuore laico e multipolitico di tanti istanbulioti non ha più battuto per l’uomo del destino. Sicuramente ci saranno state defezioni fra gli stessi elettori islamici, anche se talune loro roccaforti cittadine (Fatih, Üsküdar) saranno rimaste massivamente fedeli. Coi dati più precisi delle prossime ore potremo meglio valutare l’orientamento cittadino.

Però la dichiarazione dello stesso Yıldırım, quando le proiezioni cominciavano a essere confermate dai risultati: “Se noi continuiamo a commettere illeciti dovremo chiedere il perdono e la benedizione di rivali e fratelli” risuonava sibillina e dovrà far meditare i vertici d’un partito-regime che risulta sconfitto dopo 17 anni nella città simbolo della Turchia d’ogni epoca. Probabilmente lo spostamento del voto verso il sorriso di İmamoğlu, rispetto alla faccia mesta di Yıldırım, è dovuto non solo alle sue mosse pacificatrici dei giorni scorsi. A un certo punto il sindaco scippato, pur sostenendo che l’iniziativa del Consiglio Elettorale non fosse corretta, ha mollato il ruolo fra il rivendicativo e il lamentoso e ha parlato di nuove opportunità e di buoni auspici per la causa della democrazia nella metropoli e nella nazione. Di più. E’ andato a trovare il presidente (che nei giorni scorsi era rimasto defilato dalla contesa) e, senza alcuna boria, sentendosi però certo d’un bis gli ha prospettato una collaborazione per quella città tanto importante per chi ci vive, per il governo e per la Turchia intera. Un passo astuto, al quale Erdoğan non poteva non tendere la mano. Di fatto chi ha sparigliato le percentuali sul Corno d’Oro è stata la comunità kurda che stavolta, almeno in parte ha votato, ovviamente contro Erdoğan.

Più che aderire all’invito astensionista rilanciato da Öcalan, è passato il gesto tattico proposto da un altro recluso illustre: il copresidente dell’Hdp Demirtaş. Un uomo che si batte per la causa kurda praticando quella via parlamentare che molti successi aveva ottenuto sino a tutto il 2015, quando Isis, repressione militare interna, arresti illegali sostenuti da illazioni accusatorie e processuali hanno attaccato a fondo la rete legale del proprio attivismo. Secondo il Sultano essa è un tutt’uno con quella del Pkk e in base a tale teorema decine di parlamentari, accanto a migliaia di militanti sono finiti in galera negli ultimi tre anni. Nei commenti raccolti a caldo da noti media quali Al Jazeera c’è già chi pronostica futuri tempi bui per l’Akp. Il professor Esen, docente di Relazioni Internazionali all’Università di Bilkent ha dichiarato all’emittente che “Questo voto segna l’inizio della fine per lo stile presidenziale in Turchia”. Eppure i molti anni di presenza sulla scena nazionale ed estera dell’ex premier e ora presidente turco, dicono altro. Indicando errori e fughe in avanti, ma al tempo stesso insperati recuperi e stabilizzazioni socio-politiche. Però certi segnali nascono da prolusioni inattese. E la sconfitta di oggi pesa molto, molto di più di quella di tre mesi addietro. Forse Istanbul può risvegliare la nazione, perché “Chi prende Istanbul prende la Turchia”. Parole proprio del Sultano.



giovedì 20 giugno 2019

Hormuz infuocato, giù un drone statunitense


Sempre caldissima la situazione nel braccio di mare e di terra a ridosso dello Stretto di Hormuz da dove - dopo l’attacco del 13 giugno a due petroliere prodotto da mine poste in acqua e per il quale la Casa Bianca ha accusato direttamente la struttura militare iraniana dei Pasdaran - stamane giunge la notizia dell’abbattimento d’un drone statunitense. Precisamente volava sopra il distretto di Kouhmobarak, sulle coste meridionali iraniane prospicienti in braccio di mare incriminato. Come riporta l’agenzia iraniana Irna l’aeromobile era un modello RQ-4 Global Hawk e transitava sullo spazio aero interno. Invece una voce statunitense raccolta dalla Reuters smentisce su tutti i fronti: lo spazio aereo sarebbe stato internazionale e il drone un US Navy MQ-4C Triton. Al di là di dettagli e affermazioni contrapposte la situazione in quell’area geografica, trafficatissima nel trasporto energetico e non solo, sta diventando un caso di tensione geopolitica non di poco conto che il presidente Trump, impegnato nel lanciare la lunga volata elettorale per una sua amministrazione bis, potrebbe usare per i prossimi mesi. Così i contrasti fra Washington e Teheran aggiungono un ennesimo elemento, rinfocolati come sono già da mesi dalle mosse del primo cittadino d’America.
Il suo rilancio dell’embargo alla Repubblica islamica iraniana, cui quest’ultima rispondeva per le rime sentendosi svincolata dal famoso accordo denominato cinque più uno (dal numero delle nazioni firmatarie) e ripristinando l’arricchimento dell’uranio, rappresentano fattori di ostilità che riaccendono i già tesissimi rapporti fra i due Paesi. Sull’episodio del drone un comunicato dell’Iran Supreme National Security ribadisce che la difesa dello spazio aereo rappresenta una linea rossa che non può essere violata per qualsiasi ragione e riceverà adeguate risposte. Quel sorvolo può risultare voluto e provocatorio, e chi conteggia colpi e contraccolpi lo mette in relazione al missile lanciato ieri in terra saudita contro un impianto di desalinizzazione. Gli autori sarebbero i miliziani dalla minoranza Houthi, la fazione sciita che comunque raccoglie il 44% della popolazione e che da quattro anni anima la guerra civile in Yemen col sostegno iraniano. Sull’altro fronte è noto non solo l’impegno diretto della monarchia di Riyadh nella repressione dei rivoltosi, ma un recente dispiegamento nell’area di truppe statunitensi in appoggio ai lealisti di Sana’a.  Accanto a un migliaio di marines, le portaerei della Quinta flotta di stanza nel Bahrein hanno scaricato un buon numero di batterie di missili Patriot. Il motivo è antico, come gli argomenti della Guerra Fredda e la ‘Dottrina Eisenhower “la difesa degli interessi americani nella regione”.

martedì 18 giugno 2019

Morsi, storia d’una morte annunciata


L’ex presidente egiziano Mohamed Morsi, sessantasette anni, è morto ieri per arresto cardiaco, mentre assisteva, dentro un cubo di vetro insonorizzato, all’ennesimo processo che lo vedeva imputato stavolta per spionaggio, mentre “terrorismo, cospirazione, attentato alla sicurezza nazionale” e altre accuse gli erano state confezionate negli anni da magistrati asserviti e compiacenti al suo avversario politico: il generale golpista Al Sisi, divenuto presidente dal 2014.  La Fratellanza Musulmana, posta da tempo fuorilegge con decreto dello stesso Sisi, ha dichiarato che la fine di Morsi è “a tutti gli effetti un omicidio premeditato” e ha chiesto agli egiziani di partecipare alle onoranze funebri. Ma per ordini superiori queste sono state celebrate in gran segreto nella primissima mattinata di martedì nella famigerata prigione di Tora, alla presenza dei familiari stretti. Quindi la salma è stata tumulata nella zona est della capitale, a Medinat Nasr, 14 chilometri dal centro città. Dopo un iniziale periodo di arresti domiciliari Morsi, che era affetto da diabete, venne  incarcerato e posto in isolamento, come peraltro altre figure di spicco del movimento islamista che, dopo il massacro del 14 agosto 2013 davanti alla moschea di Rabaa al Adawiyya , è stato  perseguitato con accanimento come ai tempi di Nasser. I legali della Confraternita e alcune ong come Human Rights Watch da anni denunciano torture, maltrattamenti, privazioni, vessazioni cui vengono sottoposti quotidianamente o periodicamente decine di migliaia di detenuti. Comunque nel corso dell’accertamento del decesso, avvenuto presso l’ospedale militare cairota, il corpo dell’infartuato non presentava ferite o ecchimosi.
Se perfino una figura nota come l’ex presidente della grande nazione araba finisce in questo modo, possono risultare credibili le centinaia di grida di allarme dei familiari di egiziani imprigionati e spariti nel nulla che temono epiloghi altrettanto tragici per i loro cari. Di fatto il detenuto può crepare per infarto, insufficienza respiratoria, deperimento organico, malattie infettive o motivi che i referti medici attribuiscono a malanni fisici, ma a monte c’è il sistema di annientamento sistematico con cui un regime criminale punta all’azzeramento fisico oltre che politico degli avversari. Questo è il volto solo parzialmente celato dell’Egitto di Al Sisi e la comunità internazionale, l’Unione Europea, l’Italia stessa rimasta sorda al lutto di Giulio Regeni, non ne prendono atto, concentrati unicamente sugli affari economici e le opportunità geopolitiche. Quest’ultime decretano nel sempre infuocato Medio Oriente un avallo del fronte arabo reazionario nella sempre infuocata area mediorientale, con la monarchia saudita che fa da un fulcro per le petromonarchie del Golfo (se ne distingue il Qatar del battitore libero Al-Thani), l’Egitto di Sisi, la Libia del signore della guerra Haftar o del fantoccio Serraj presentati come statisti, un fronte che nella ricerca di supremazia regionale si contrappone a Iran e Turchia. E Ankara, dopo anni di doppiogiochismo, probabilmente non concluso, del presidente Erdoğan, può rimescolare le alleanze regionali e internazionali ora che la Russia putiniana  manifesta intenti egemonici nell’area.
E proprio sulle ceneri delle Primavere arabe che un decennio addietro facevano fiorire desideri e speranze dalle contraddizioni socio-politiche mai risolte, i fronti che si sono scontrati in Egitto - quello laico conservatore sostenitore del golpe militare, e quello laico progressista (prevalentemente giovanile, ma intensissimo e coraggiosissimo) cui s’univa per suoi interessi la Fratellanza Musulmana - possono interrogarsi su un presente che risulta peggiore degli anni folli e frolli di Mubarak. Un trentennio in cui il raìs e suoi compari (militari e tycoon) si sono divorati il Paese a danno della popolazione. La memoria corta, o colpevole perché collusa, dell’Occidente fa finta che non siano esistiti. Però le leadership mediorientali dei Bouteflika, Ben Ali, Saddam Hussein, Asad padre prima del necrofilo figlio, a un certo punto finanche Gheddafi - tutti militari che usando maschere di progressismo, rivoluzione laica o islamica, hanno promesso paradisi alla propria gente costruendo i  propri paradisi fiscali - risultano mostri che il colonialismo di ritorno ha a lungo carezzato. Ciascuno risolveva il confronto con l’Islam politico schiacciandolo e nel continuare a farlo hanno creato alibi all’altro Islam politico, che ben prima di Qaeda sceglieva la via del jihad. Ormai le due paiono realtà distinte, eppure tutt’ora fior fior di analisti sentenziano che la matrice è unica, differiscono le tattiche: c’è chi imbraccia il khalashnikov, chi la scheda elettorale. E gente come Morsi voleva trasformare l’Egitto in un Califfato. Sarà. Ciò che ha mostrato in dodici mesi di potere è stata la supponenza e l’approssimazione comune a tanti polici, peccati gravi ma nessun fondamentalismo. Mentre oggi al Cairo il salafismo wahhabita gode della protezione governativa e qualsiasi dissenso, laico e non, viene tacciato di terrorismo e perseguitato.

lunedì 17 giugno 2019

Turchia fra il voto di Istanbul e gli S-400


Sarà perché coinvolto in faccende serissime: l’accordo recentemente ratificato sui missili S-400 (in parte già pagati a Mosca, mentre le restanti quote verranno liquidate attraverso crediti che la Russia potrà vantare sulla Turchia), ma da qualche giorno Erdoğan ha smesso di parlare della ripetizione del voto  per la municipalità di Istanbul. E probabilmente non lo farà sino al 23 giugno. Più che per “causa di forza maggiore” l’assenza sembra suggerita al partito di governo da sondaggisti amici. Il sorpasso pur di poche migliaia di consensi che nello scorso marzo aveva fatto prevalere il candidato repubblicano İmamoğlu è stato considerato il coagulo nell’urna d’una protesta silente che punta a produrre lo smacco nella città-simbolo, cui il presidente tiene moltissimo. In tal senso le questioni di protezione militare e alleanza geostrategica che, negli ultimi giorni, hanno calamitato attenzione e impegni di Erdoğan non declassano la consultazione di Istanbul a problema di rango inferiore. In questo voto nella megalopoli sul Bosforo, che sfiorando i 16 milioni di abitanti è un quinto del Paese, c’è un’alta concentrazione di passato, presente e futuro sia del politico che si sente padre dei turchi, sia di chi vorrebbe un’era nuova che non arriva.

Così il voto a İmamoğlu, un personaggio assolutamente normale che non andrebbe al di là delle preferenze repubblicane, calamita  ogni scelta antitetica a ciò che il sultano incarna e vuole. Voto etnico, sociale, ideologico e del vivere quotidiano, anche di chi ha creduto nel sogno dell’Akp ma non ne è più tanto convinto. Per la crisi economica e per l’aria dell’odierna Turchia che non è quella ottimistica d’un decennio fa. Sono gli eventi e i venti che hanno portato bombe oltre il confine, considerato sicurissimo sotto il mantello della Nato, e l’hanno portate in casa, con la rinfocolata guerriglia kurda ma pure per gli intrighi internazionali dove l’Isis ha giocato con e contro l’Intelligence interna. Per tacere dei misteri dell’assassinio del console russo (dicembre 2016), dell’omicidio Khashoggi (ottobre 2018). Se Erdoğan e il suo partito-regime hanno retto un copioso e articolato fronte di attacchi, ne sono stati per altri versi artefici. Tutto ciò agli occhi del cittadino medio può produrre orgoglio se è un fedelissimo del progetto di fare della Turchia una potenza regionale geostrategica, timore se il suo orizzonte vorrebbe essere quello d’una fortificazione economica senza diventare fortezza militare, come negli anni bui delle reiterate dittature.

Ascoltare quel che dichiara il ministro degli Esteri Çavuşoğlu a sostegno della scelta del sistema missilistico fornito da Mosca: “I confini turchi non sono come quelli con Messico e Canada”, riporta a un piano realistico, non tranquillo. Oltre alla lamentela di aver chiesto, in virtù del Patto Atlantico, per mesi a Washington il conforto di armamenti adeguati, il ministro turco mette sul piatto quel che accade da tempo in un’area infiammata e rovente e giustifica così, davanti alla vaghezza del Pentagono, l’acquisto che tanto manda sulle furie Trump. Senza mettere in discussione la fedeltà turca alla Nato. Però la vicenda non riguarda solo l’hardware missilistico e dietro il software ci sono apparati e appartenenze che superano i potenti interessi dell’industria bellica. I cittadini richiamati alle urne, nulla decidono di tutto questo, sono spettatori come ieri davanti ai teleschermi dove Yıldırım e İmamoğlu si sono misurati. Una novità: i politici dell’Akp dal 2002 non s’erano mai aperti al contraddittorio, praticando sempre e solo comizi e interviste. Sgradite quelle coi veri giornalisti (ma questo accade quasi ovunque). Nel faccia a faccia pacato ma senza peli sulla lingua i due hanno parlato di questioni locali e nazionali.

Esordendo con battaglia per la democrazia (İmamoğlu) e “furto” di voti (Yıldırım), si è passati alla gestione economica della metropoli: spese eccessive e sprechi di 127 milioni di dollari per l’Istanbul Electric Tram and Tunnel Company, contro l’affermazione: non risulta dalle verifiche della Corte dei conti. Il candidato repubblicano rilanciava sulla Siria: dei 4 milioni di rifugiati accolti 550.000 risiedono a Istanbul, occorre offrirgli non solo assistenza ma occupazione attiva che ne preservi la dignità. La replica di Yıldırım: la vicenda siriana è un dramma internazionale, cui il governo del suo partito ha offerto molto e di sua sponte riguardo a protezione, servizi sanitario ed educativo. Ha quindi preso il centro del dibatto giocando a suo favore un tema di genere. Sfoderando dati ha vantato la crescita delle studentesse che nei 16 anni di governo Akp hanno superato la presenza maschile e nella stessa occupazione le percentuali sono passate dal 21% di inizio millennio all’attuale 34%. Cifre e promesse anche da İmamoğlu: almeno 340 dollari di assegno di povertà alle famiglie bisognose e soprattutto 200.000 posti di lavoro tramite l’Ufficio dell’impiego. E pure trasporti gratis per bambini sotto i 12 anni e madri con figli sino a quattro anni. E ancora per entrambi promesse ecologiche di grandi spazi verdi. E il Gezi park cementificato? veniva da chiedere ma sul tema nessuna polemica. I candidati vanno al voto col sorriso, gli istanbulioti magari no. 

giovedì 13 giugno 2019

Il Cairo, dove ringhiano le ruspe


Arrivano così con manipoli armati e mascherati, ormai puntano i fucili su una resistenza popolare che fino a qualche settimana fa impediva le demolizioni, ma non è detto che potrà continuare a farlo. L’isola di Warraq nell’area tutto sommato centrale del Cairo sul fiume Nilo, è un posto dove tuttora si coltiva la terra. L’altra isola, Gezira, un sito ‘in’ dove sorgono club esclusivi e ambasciate, dista non più di due chilometri a sud. A Warraq, a fine anni Settanta sotto Sadat, s’inurbarono contadini poveri finiti a coltivar la terra a due passi dalla metropoli che lanciava l’infitāh, l’apertura agli affari anche coi capitali stranieri. Questi diseredati lanciavano i propri piccoli commerci, coltivando un terreno fertilissimo e portando i prodotti fin sotto i palazzoni nasseriani della burocrazia. Su quelle terre costruirono case, abusive ovviamente, come tante altre attorno, comprese quelle che portavano capitali alla lobby dell’esercito che sequestrava latifondi, costruiva illegalmente e affittava ai nuovi inurbati che sempre più numerosi abitavano nella mega Cairo. Per gli abitanti di Warraq, attualmente calcolati sulle duecentomila unità, andò avanti così durante la lunga presidenza del raìs Mubarak e nel corso dei tumulti del 2011.
Nulla cambiò sotto la parentesi di Morsi e la salita al potere di al Sisi. Per quattro anni il presidente golpista affaccendato in operazioni repressive non si curò di Warraq. Finché i recenti rapporti internazionali, propugnatori del fronte arabo della reazione che ha nella monarchia saudita il fulcro militar-affaristico, ha condotto lungo le Corniche gli occhi famelici dei manager di Khalifa bin Zayed, l’emiro dell’EAU, considerato un autocrate addirittura peggiore di Salman bin. Seguendo le modernizzazioni populiste di capi di Stato ben più dinamici e scaltri, Sisi punta a dotare il Paese e la sua capitale di trasformazioni a effetto, non curandosi degli effetti di ritorno sulle condizioni di vita di strati marginali che hanno conseguenze disastrose. Così dall’estate 2017 aziende emiratine hanno pianificato il progetto di trasformare quegli ettari di terreno immersi nel Nilo in luogo da turismo iperstellare dotato di hotel, resort, villaggi per vip. Per realizzarlo occorre sfrattare gli abitanti locali, che intanto si sono mobilitati con proteste di strada, petizioni, ricorsi giudiziari, insomma hanno avviato una campagna di resistenza a tuttotondo. L’eco mediatica è stata relativa, il regime del Cairo da tempo ha tacitato la stampa interna con galera e tortura e punta a non far trapelare notizie. Però il tam tam della mobilitazione è uscito dall’isola, dalla capitale e dallo stesso Egitto.
Note emittenti come la BBC trattarono la vicenda in occasione di scontri che causarono la morte di alcuni dimostranti. Ora attivisti che agiscono in semiclandestinità, per evitare di tronare in galera dove periodicamente vengono reclusi, sostengono che questa significativa resistenza popolare nel cuore della città del potere potrebbe avere i giorni contati, poiché sempre più pesante e minacciosa si fa la pressione governativa. Il fine è allontanare gli abitanti di Warraq e trasferirli, abbattere gli edifici per motivi di sicurezza (sic) e dare spazio ai cantieri del nuovo lusso turistico. Altrove simili sbancamenti sono già avvenuti, pensiamo alla città di Rafah, sul confine con la Striscia di Gaza, dove per accordi con Israele il governo egiziano ha trasferito forzatamente un congruo numero di residenti. Certo sull’isola cairota i numeri sono decisamente maggiori, la deportazione di decine di migliaia di persone non è cosa semplice, ma grazie alle leggi speciali che propugnano sicurezza e interessi nazionali, qualsiasi trasgressione viene tacciata di terrorismo e commina decenni di detenzione.

mercoledì 12 giugno 2019

La presa di Istanbul


A dieci giorni dalla ripetizione del voto per la municipalità di Istanbul, consultazione fissata il 23 giugno, i contendenti che restano gli stessi: İmamoğlu per il partito d’opposizione (Chp), già vincitore alle amministrative di fine marzo, Yıldırım per il partito di governo (Akp), scaldano i motori per il rinnovato confronto. Li scaldano coadiuvati dai rispettivi apparati di sostegno messi a disposizione dai due schieramenti. La sfida è simbolica. Il governo della metropoli turca sul Bosforo è più prestigioso di quello della capitale, dove il presidente-sultano Erdoğan s’è fatto costruire un palazzo degno d’una reggia ottomana. Il tema della ripetizione del voto, pur senza forzare i toni, è stato ripreso in un pubblico dibattito dal segretario repubblicano Kılıçdaroğlu. Per quanto poche rispetto agli otto milioni di elettori, le 13.000 preferenze in più ottenute dal candidato del suo partito, non potevano costituire nessuna pietra dello scandalo. Però l’inattesa sconfitta del fronte governativo, per giunta con un candidato corazzato da pregressi incarichi istituzionali, bruciava troppo. Da lì il ricorso dell’Akp. Eppure le motivazioni addotte dal Supremo Consiglio Elettorale per l’annullamento della consultazione, inizialmente basate su incerte espressioni di voto, diventate poi inadeguatezza di taluni addetti ai seggi che non risultavano in organico alla pubblica amministrazione ed erano perciò inabilitati al compito, son parse costruite ad arte. Il fenomeno, probabilmente presente anche in altre circoscrizioni elettorali su cui non s’è indagato o s’è chiuso un occhio, riporta alle urne soltanto i cittadini di Istanbul. Al di là di reali o pretestuosi cavilli il motivo di questo colpo di scena e di mano sta nel cuore dell’Akp che non vuole assolutamente perdere il controllo della città dove la sua storia è iniziata. La città erdoğaniana per eccellenza.
Domata dalla rivolta di Gezi park e sottomessa al progetto di farne il fantasmagorico proscenio liberista dell’Islam politico. Le innovazioni tecnologiche del raddoppio del canale del Bosforo, del treno sotterraneo che unisce la città occidentale a quella orientale quale ulteriore trait-d’union euroasiatico, ma anche il marchio musulmano che ha portato a ridosso della kemalista piazza Taksim una nuova immensa moschea, rappresentano la dedizione verso la sua città dell’uomo che ha scalato il potere nazionale ed è un presidio turco in quello internazionale. La metropoli che gli ha dato i natali nel quartiere popolare di Kasımpaşa, che gli permetteva di giocare al calcio, e giocare anche bene da semiprofessionista ed essere ragazzo di strada venditore di simit (focacce di sesamo), ma anche di studiare e lanciarsi in politica, prima come sindaco nel Corno d’Oro, quindi come leader assoluto.  Con quell’irruenza trasferita dalla gioventù all’età adulta, declamò i versi del sociologo Ziya Gökalp “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette, i fedeli i nostri soldati” finendo diritto in galera, ma uscendone dopo un po’ e diventando vincente a furor di voti. Forse basta questo per comprendere come la manìa di grandezza conduca Erdoğan, il partito che gli sta attorno e quel pezzo di Turchia che lo segue come un’ombra plaudendo a ogni sua mossa, di rifiutarsi a cedere la città del sogno. Non solo quello sedimentato nei trascorsi centenari dello splendore che fu di Solimano, ma lo stesso senso di comunità riunita nel vatan di cui questo schieramento politico vuole farsi interprete. Per ampliare la presa egemonica da un biennio patria e sentimento nazionale sono diventati ideali rivisitati dall’Akp e strumenti ideologici per l’alleanza coi nazionalisti del Mhp. Il golpe fallito tre anni fa ha fornito al nuovo padre dei turchi il via libera per cercare aiuti parlamentari e rinnovato consenso nelle strade e nelle urne. Unici inciampi: inflazione e disoccupazione à gogo. Basteranno per eleggere un sindaco fuori dal coro nella città del sultano? Lo sapremo a breve.

martedì 4 giugno 2019

Il sangue afghano sugli inconcludenti negoziati


Kabul: giovedì scorso un attentato-suicida davanti all’ingresso dell’Accademia militare ammazza sei persone, ferendone sedici. Ancora nella capitale il giorno seguente, mentre sfila un convoglio militare statunitense, esplode un camion-bomba: quattro morti e quattro feriti, quest’ultimi sono marines. Sabato a Ghazny un nuovo assalto suicida, stavolta a una stazione di polizia. Si contano otto morti, tutti agenti, e sette feriti. Nella sequela esposta, il primo agguato è dell’Isis, il secondo talebano, il terzo non è stato rivendicato e forse neppure lo sarà. Ai contendenti non serve quasi più appuntarsi stellette sul petto, son loro a misurarsi a distanza, son loro a controllare territori ed emanare sentenze di morte. Smettono e riprendono quando vogliono. In terra afghana viene rilanciata la ‘roulette russa’ degli attentati, che in assoluto non s’era mai fermata, attenuata sì. Perché i taliban che siedono ai due tavoli dei colloqui di pace, di Doha e di Mosca, con interlocutori diversi, di là gli americani, in Russia gli uomini di Putin, volevano mostrare la buona volontà di aderire al piano di transizione. Un piano che nasceva inclinato, mostrando dei blocchi impossibili da superare, imposizioni incrociate: il totale ritiro militare americano contro il disarmo dei guerriglieri islamici. Si parla tanto, nessuno molla.

In più i turbanti guidati a Doha dal mullah Baradar, continuano a rifiutarsi d’incontrare lo staff del presidente Ghani, lo trattano da fantoccio, quale in effetti è. E con questo mettono in ginocchio quasi un ventennio di geopolitica Usa per quel Paese, passata dalla guerra aperta dell’Enduring Freedom alla finta democrazia dei presidenti eletti (Karzai e Ghani). Un disegno se non totalmente fallimentare, come quello di dotare il governo di Kabul d’un esercito autonomo, perlomeno non diverso da ciò che accade in tanti angoli non solo del Medio Oriente, dove i leader fantoccio continuano a esistere ed essere sostenuti da potenti tutori. Eppure la nudità di questo re è così sconcia da apparire nullità. A un simile bluff non crede quasi più nessuno.  Gli stessi attori degli ultimi anni che sono poi i leader in carica - Ghani, Abdullah - ansiosi sostenitori d’un sistema sbriciolato che può definitivamente seppellirli, restano attaccati alla proposta di elezioni da oltre un anno. Prendendo ordini da Washington rimandano le date: autunno 2018, primavera 2019 e poi luglio e ora settembre. Ma è un procedere cieco, su cui poco sanno gli stessi mentori del Pentagono, prima ancora che della Casa Bianca.  

Del resto le trattative, tuttora aperte sebbene inconcludenti, si arenano sui punti su esposti, nessuno vuol cedere perciò lo stallo sanguinario è ripreso e può continuare. Ovviamente a danno dei civili afghani che continuano a morire, del Paese che vede fuggire chi fra i suoi giovani può farlo, che si ritrova al centro dello scontro strisciante fra sauditi e iraniani, col Pakistan terzo ingombrante incomodo con Russia e Cina che, vista l’incapacità americana di sbrogliare l’intreccio, ormai mettono più del naso nel vespaio regionale. Tuttora si sta attaccati alle cerimonie di Khalilzad e dei collaboratori di Lavrov, passando dalla palude d’una guerra infinita a quella di negoziati senza sbocco. Washington dovrebbe mollare Ghani e accettare un governo di transizione talebano che nulla vuol concedere agli ex Signori della guerra riciclati in politica. I turbanti sanno di dover evitare il soffocamento, basato anche sulla concorrenza dei miliziani Isis del Khorasan. Sanno di non poter fare la guerra al mondo e di aver bisogno di alleanze regionali e benestare mondiali, e a questo punto si giocano la partita fino in fondo. Una partita aperta che pare irrisolvibile.