giovedì 29 settembre 2016

Egitto, la denuncia sulla prigione-tomba di regime

Incubo e morte - Come in un racconto di Edgar Allan Poe, il titolo dice quasi tutto: “Siamo nelle tombe”. Ma non ci troviamo davanti a un trattato d’archeologia su Piramidi e faraoni. Le tombe in questione sono le celle di una delle peggiori prigioni d’Egitto, il cosiddetto Scorpione all’interno della struttura penitenziaria di Tora, a sud della capitale. Lì i famigerati mukhabarat della Qata` al-Amn al-Watani che rispondono al ministro dell’Interno Abdel Ghaffar (una delle eminenze grigie dell’omicidio Regeni) e i Servizi di sicurezza militari seppelliscono attivisti, giornalisti, intellettuali, oppositori del regime. E pure concittadini e stranieri sgraditi. “E’ rivolta ai prigionieri politici. E’ stata progettata in modo che chi vi entra non possa che uscirne morto” precisava Ghaffar in persona in un’intervista televisiva del 2012, quando la nazione era in mano al Consiglio Supremo delle Forze Armate, di cui lui è un esponente di rango. Tutto è inserito in un dossier di ottanta pagine redatto da Human Rights Watch. Racconta i trattamenti inumani in spazi angusti senza letto né materasso, con privazioni di cibo e medicine, vari tipi di tortura e maltrattamenti basati su pestaggi e abusi anche sessuali, senza che alcun legale o familiare possa incontrare i sepolti vivi.
”Corpi da gettare e dimenticare” - Seppelliti e abbandonati, appunto. Presentando il rapporto Joe Stork, direttore dell’Ong per il Medioriente e il Nordafrica, ha affermato: “La prigione Scorpion si colloca al termine del percorso repressivo di Stato, che lascia gli avversari politici senza voce né speranza. Il suo scopo sembra esser quello d’un luogo dove gettare chi critica il governo e dimenticarlo”. Gli operatori di HRW hanno raccolto le dichiarazioni dei familiari di venti detenuti, di due loro legali, di un ex prigioniero e visionato referti medici e foto di soggetti malati e deceduti. Quanti sono i reclusi in Egitto? Non ci sono dati certi. Alcune statistiche hanno contato 41.000 arresti dal golpe bianco contro Morsi all’elezione presidenziale di Sisi, nel maggio 2014. Altri 26.000 sono gli arresti effettuati dall’inizio del 2015. La storia dello Scorpione è legata al progetto repressivo attuato da Mubarak dopo l’assassinio di Sadat per stroncare l’azione antigovernativa del gruppo islamista al-Gama`a al-Islamiyya. Il settore speciale, già attivo nel 1973, venne ampliato. Oggi conta 320 celle e un migliaio di detenuti, fra cui il Gotha della Fratellanza Musulmana. Altri leader, fra cui Morsi, sono rinchiusi al Borg al-Arab vicino Alessandria.
Prossimi cadaveri - Dopo un graduale allentamento repressivo all’inizio del 2000, quando il raìs firmò anche il rilascio di alcuni prigionieri, c’è stato un ritorno in auge del supercarcere con le operazioni di extraordinary renditions. Una riguardò anche il nostro Paese: il sequestro dell’imam Abu Omar, effettuato a Milano nel 2003 da un manipolo di agenti della Cia, col supporto logistico fornito dal Sismi del generale Pollari. Un rilancio della struttura coincise con la stretta sulle crescenti agitazioni sociali avvenute fra il 2004 e 2008. Dal momento dell’incarico conferito da Sisi a Ghaffar  quale ministro dell’Interno, la situazione nel già terribile carcere per oppositori è peggiorata. Il divieto alle visite dei familiari vuole celare le tragiche condizioni generali dei detenuti che di fronte a cibo scarso o immangiabile deperiscono, s’ammalano, muoiono. Decessi per queste cause si sono registrati in più occasioni. Mentre accadevano il ministero dell’Interno continuava a proibire l’ingresso ai parenti che avrebbero potuto introdurre cibo e medicine, fino a ordinarne il sequestro nelle rarissime revoche del divieto. Anche nelle circostanze in cui qualche giudice ha consentito ai familiari d’introdurre farmaci per i malati più gravi si sono verificate requisizioni preventive.  
Vittime illustri e sconosciute – Per la mancanza di un’infermeria nella prigione i detenuti affetti da malattie croniche (diabete, epilessia, epatite C, insufficienza cardiaca) non sono assistiti e rischiano la vita. Casi conosciuti hanno coinvolto soggetti pubblici, com’era Essam Derbala, esponente d’un gruppo islamico affetto da diabete e deceduto mesi fa per l’impossibilità di cure, sebbene un procuratore nell’agosto 2015 gli avesse accordato la possibilità di assumere farmaci. Il fratello ha testimoniato che quest’ultimi venivano forzatamente trattenuti dalle guardie. Medesima situazione vissuta da un deputato del Partito della Giustizia, Farid Ismail, deceduto nel maggio 2015 per mancata assistenza sanitaria. Uno dei leader della Fratellanza, il noto al-Shater detenuto anch’egli nel braccio H dello Scorpione, ha raccontato l’episodio alla sorella che l’ha riferito a HRW. Si tratta di nomi noti che fanno notizia, quel che accade a semplici attivisti e cittadini comuni non giunge neppure a HRW. Nel febbraio scorso un gruppo di 57 detenuti ha lanciato un simbolico sciopero della fame per sensibilizzare le strutture mondiali dei diritti. Il governo tramite il responsabile per la detenzione, il generale Hassan al-Sohagi, ha dissuaso i già deboli protestatari a bastonate.

Richieste ad Al Sisi - Un altro detenuto noto, il giornalista di Al Jazeera al-Shamy passato anch’egli per quella prigione, aveva raccontato che durante il suo sciopero della fame veniva forzatamente sedato e indotto a ricevere nutrimento. Mentre varie umiliazioni con denudamenti forzati, calpestìo dei corpi distesi sul pavimento da parte dei soldati sono stati narrati sempre da Al-Shater.  Col dossier Human Rights Watch lancia alle autorità egiziane un monito per mutare atteggiamento di fronte a simili crudeli condizioni. Lo rivolge al ministero dell’Interno affinché la stessa persecuzione politica non si trasformi in una condanna a morte per via dei trattamenti descritti. Si chiede al presidente Al Sisi di: abolire aggressioni e punizioni contro i reclusi, permettere l’assistenza sanitaria e familiare, invitare la Commissione africana dei diritti dell’uomo per visite e controlli periodici in quei luoghi. E ai magistrati locali si chiede di indagare su abusi e piani illegali di violenza rivolta ai carcerati, politici e non. Proprio come per Giulio Regeni.

martedì 27 settembre 2016

Güler: “Siamo tutti in pericolo perché Erdoğan e l’Akp costruiscono l’impero della paura “

Sibel, ti senti una perseguitata da Erdoğan?
Sì, lo sono. Mi sento perseguitata non solo come giornalista, ma come donna kurda che non gradisce Erdoğan. Lui e il suo partito (Akp, ndr) sostengono l’idea di una nazione, una lingua, una religione. Adottano una politica neoliberale. Chiunque sia in disaccordo con questa visione diventa un bersaglio. Gli avversari (kurdi, socialisti, aleviti, le donne, la comunità LGBTI, e poi accademici, insegnanti, giornalisti, ecologisti) non possono usare la libertà di parola. Siamo arrestati, lasciati senza lavoro, mentre le minacce pendono su di noi come una spada di Damocle. Persino la gente comune si sente in pericolo. Perché Erdoğan e l’Akp costruiscono l’impero della paura. Ora, stanno strumentalizzando il tentativo di golpe del 15 luglio e tramite lo stato d’emergenza e decreti statutari terrorizzano il Paese. Così, noi tutti ci sentiamo perseguitati.
Quali sono le imputazioni a carico tuo e dei tuoi colleghi?
Io e 43 amici giornalisti siamo finiti il galera il 20 dicembre 2011. Allora 36 di noi vennero arrestati con l’accusa di essere membri dell’Unione delle Comunità Kurde e del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Siamo stati rilasciati dopo due anni e mezzo. Il caso è tuttora aperto presso la Corte, che ci accusa di sostenere il Pkk attraverso il lavoro d’informazione. In più la Corte considera illegale il lavoro di raccolta di notizie compiuto tramite i nostri viaggi all’estero. Faccio un esempio, cosicché i lettori in Italia possano comprende lo scandalo di simili accuse. Una mia amica scrisse una citazione di Adorno sull’agenda. Per questa frase è stata accusata di essere una sostenitrice del Pkk. Secondo la Corte, Adorno è un membro del Pkk. (Sibel ride) Ancora: un mio viaggio in Germania nell’aprile 2003 viene scambiato per un viaggio in Iraq sebbene fosse evidente sul mio passaporto la destinazione tedesca. L’atto d’accusa è pieno di lacune e chiede una pena che va dai 7 ai 25 anni di reclusione. Sostengono che nel 2001 sia andata in montagna col Pkk, ma non hanno prove. Io invece mostro documenti dell’Università di Istanbul e di altri organismi, compresi quelli del distretto di polizia che mi rilasciava passaporti e carte d’identità, che testimoniano la mia presenza in Turchia, non sulle montagne irachene.   La prossima udienza è fissata per il 18 novembre. Poiché il governo ha destituito migliaia di giudici a causa del tentativo di golpe, nessuno sa cosa può accadere. Sapete cosa c’è di comico? Tutti i pubblici ministeri e giudici che ci hanno arrestato e ci stavano giudicando ora sono in prigione per quel tentativo antistatale…
Che ne è del tuo quotidiano, Özgür Gündem, o di Cumhuriyet ?
Cumhuriyet è ancora in attività. Invece il governo ha chiuso Özgür Gündem perché è una testata kurda. Attualmente i giornalisti kurdi dissidenti pubblicano un nuovo giornale chiamato Özgürlükçü Demokrasi.
Chi sta raccontando al mondo ciò che accade in Turchia dall’interno del Paese?
I giornalisti che resistono all’Akp. Malgrado tutte le pressioni abbiamo media alternativi come quello citato poc’anzi, l’agenzia Diha News, l’agenzia Eta, Evrensel, IMc Tv e altre. Il regime può chiuderle ma noi pubblichiamo ancora, proseguiamo con diciture diverse e usiamo internet efficacemente.
I media ufficiali (canali televisivi, quotidiani come Hürriyet) riescono a raccontare la realtà liberamente?
Tutti i media mainstream sono interdetti agli oppositori. Lì non si trova neppure una parola sulla violazione dei diritti umani da parte di Erdoğan e del partito di governo o si leggono distorsioni di notizie sugli avversari. Solo i media alternativi offrono informazioni e pubblicano articoli su ciò che realmente accade. Ma si vede il risultato: giungono arresti, chiusure, blocco della diffusione. 
Solo Amnesty International e Human Rights Watch denunciano la repressione alla libera stampa turca…
Lasciami aggiungere Reporters Without Borders e la Federazione Internazionale dei Giornalisti.
Gli oppositori moderati al regime, come il Chp, sono prostrati a Erdoğan?
Chp è prostrato davanti all’Akp perché questo partito è stato volutamente ingannato dalla disperazione che era frutto della tacita paura. Il Chp ha visto che l’Akp avrebbe usato l’apparato statale contro l’opposizione, esacerbando i poteri in stato d’emergenza dopo il tentato golpe. E d’altro canto dopo lo shock il partito di governo aveva bisogno di nuove alleanze per risollevare il senso nazionale. Così l’Apk ha avvicinato i kemalisti nella sfera politica, burocratica e militare per un’alleanza adeguata e mandataria, e ha creato l’illusione di ‘un’unità nazionale’. I repubblicani si sono inchinati verso quest’illusione e perché comunque erano preoccupati di finire fra i bersagli del terrore scatenato dal governo. Un’altra ragione o per meglio dire un loro piano: il partito di maggioranza avrebbe sgombrato il campo da avversari e, grazie all’unità nazionale, non avrebbe toccato il Chp. Dopo la liquidazione delle opposizioni, i repubblicani pensano di essere l’unica alternativa all’Akp.  
Un anno e mezzo fa avevi paragonato il comportamento del presidente turco a quello d’un bambino capriccioso. E ora?
Continuo a pensarlo: ciò che accade è un naturale proseguimento di quei comportamenti. La tradizionale struttura conservatrice della Turchia anela costantemente l’Impero Ottomano, ma la realtà del mondo e del Medioriente non offre il disco verde a questo piano. Stati Uniti, Russia, Europa e pure forze regionali come Iran e Arabia Saudita non accettano una simile politica. Eppure l’utopia di Erdoğan, passo dopo passo, chiede di regredire. Un anno fa e mezzo fa Erdoğan ruggiva e reclamava d’essere il leader del Medioriente? Osserviamo l’orizzonte attuale: lui vuole solo mantenere il vecchio peso politico nella regione e segue una strada che si è ristretta, focalizzata sul fermare i kurdi.
Quanto può risultare vincente il nazionalismo che Erdoğan mutua dal kemalismo, socialdemocratico o fascista?
Il nazionalismo è uno strumento pratico per Stati come la Turchia. Lo è nelle crisi economiche, politiche, giudiziarie, militari. Però, com’è risaputo, somiglia a un cattivo medicamento che peggiora le cose. In questa fase tre tipi di nazionalismo (kemalista, conservatore, fascista) s’incontrano tatticamente contro le classiche opposizioni (le differenze sociali in particolare i kurdi e le forze straniere contro lo Stato turco). Ma le basi sociali di quest’alleanza - i gruppi di capitale e le Ong - sono differenti e fra loro esistono conflitti d’interesse. Questi non consentono all’alleanza di risultare strategica. Di conseguenza chi sarà in grado di effettuare manovre intelligenti potrà ottenere guadagni periodici (in tal gioco l’Akp è in vantaggio). Tuttavia tale situazione non evidenzia in maniera permanente un insediamento forte né per lo Stato né per la società. Al contrario nascondere questioni strutturali (democrazia, leggi, pace sociale, ecc.) che devono obbligatoriamente esser risolte, le riduce in cancrena. E a medio termine la situazione potrebbe dover affrontare un problema esistenziale.
La repressione mette insieme kurdi, gülenisti, marxisti, considerati tutti terroristi…
Normalmente le pressioni autoritarie avvicinano gli oppositori. Seppure la posizione dei gülenisti dev’essere esaminata differentemente. La loro tradizionale ideologia è basata sulla sintesi turco-islamica e si riflette contro kurdi e socialisti con ostile aggressività. Kurdi e socialisti lo sanno bene. Ci potrebbe essere interazione sociale, azioni simboliche in quella base sociale infastidita dall’autoritarismo. Ma, dopo il 15 luglio, la base sociale gülenista è messa fuorigioco. Le relazioni fra marxisti o gruppi della sinistra e i kurdi pongono due diverse riflessioni. La prima: dal 1980 c’era sempre stata una collaborazione fra queste componenti e, per quanto si può discutere sull’efficacia del rapporto, la collaborazione continuerà. La seconda riflessione riguarda un nesso fra kurdi e alcuni socialisti che tollerano influenze kemaliste. Questa tipologia socialista è adirata col Chp e con quella parte repubblicana compromessa con l’Akp. Tuttavia proprio per le priorità sociali e politiche, non penso che questi socialisti creeranno un’alleanza coi kurdi. Invece pressioni autoritarie possono sì obbligare gruppi socialisti a collaborare coi kurdi, se ciò non dovesse accadere molti di loro non potrebbero proteggersi.
Riaprendo la lotta armata il Pkk azzera la strategia dei colloqui attuata da Öcalan?
Una dura guerra in Turchia esiste già. E non è iniziata perché il Pkk ha chiuso gli spazi alla strategia di Öcalan. La guerra è ricominciata perché lo Stato turco, verso cui è indirizzato il piano di Öcalan, non fa nulla per attuarlo. Se il Pkk vedesse qualcosa di positivo nelle attitudini del governo di Ankara, non penso che continuerebbe a usare le armi. Questi militanti l’hanno dichiarato molte volte.
Taluni analisti smentiscono l’idea d’una diversa prospettiva fra il Confederalismo Democratico di Öcalan e il separatismo inseguito da altri membri del Pkk. E’ così?
Il Confederalismo democratico è un sistema per ogni tipologia di alternativa: autonomia, federazione, separazione… Perciò se nel Pkk esistono differenti approcci, non riguardano il Confederalismo Democratico. Il Pkk crede che tale modello sia la migliore alternativa per tutte le componenti del Kurdistan e per altri popoli senza una separazione dalla realtà mediorientale. Se la questione kurda non può essere risolta unitariamente allora, fra le diverse ipotesi, c’è anche la separazione. Il Pkk l’ha ripetuto parecchie volte, però non c’è nessuna recente dichiarazione che pone quest’opzione. Inoltre non abbiamo notizie di una profonda discussione sul tema all’interno del Pkk. Se in quel partito esiste un dibattito credo riguardi i momenti delle differenti alternative. Macro analisi a parte, abbiamo bisogno di riflettere su questa realtà: se da qualche parte c’è un conflitto duro, continuo e dagli alti costi, la gente coinvolta perde la fede nei metodi pacifici. Questo è un fatto concreto. 
E il percorso del Partito democratico del popolo (Hdp) è alternativo alle prospettive del Pkk ? Perché Demirtaş non respinge apertamente l’accusa evitando d’essere considerato un fiancheggiatore?
L’Hdp non valuta il Pkk come fa lo Stato turco, può solo rigettarne metodi e strumenti di lotta. Il Partito democratico del popolo reclama da tempo la cessazione della lotta armata e condanna gli attentati del Pkk, però non descrive il Pkk come un’organizzazione terrorista. Se lo facesse si sparerebbe sui piedi poiché la base sociale dell’Hdp crede nel Pkk. E Demirtaş non vuole perdere la base del partito. La distinzione fra i due soggetti è procedurale. La principale differenza riguarda, appunto, la scelta della lotta armata. Oltre quest’aspetto non c’è contrasto ideologico nei reciproci programmi, sebbene si riscontri qualche differenza sulla soluzione di questioni sociali.
I combattenti del Rojava sono passati dall’assedio dell’Isis a Kobanê alle operazioni ostili dell’esercito turco a Manbij. Quale futuro può avere il progetto del Rojava in un ridisegno della Siria?
La lotta in Rojava ha posto l’esistenza e la valutazione dei kurdi al cospetto del mondo. Ha legittimato e reso visibili le richieste sociali della comunità che finora erano rimaste ignorate. Si tratta di un punto di non ritorno. Tuttavia il bilancio del Medio Oriente che lavora contro i kurdi e la lotta per il potere in quell’area non allontanano i rischi per questo popolo.  Diversamente da cent’anni fa, i kurdi sono organizzati in un’ampia fascia territoriale e hanno la consapevolezza di poter raggiungere degli obiettivi con le loro forze. Essi non sono più una comunità da sprecare facilmente nei rapporti di forza internazionali, alla luce della situazione mediorientale si rivelano come una società che non dev’essere ignorata. Malgrado le obiezioni militari e politiche mosse da Stati arabi, Turchia, Iran i kurdi del Rojava avranno uno statuto, ovviamente se essi stessi non avanzeranno  critiche. Questo statuto è legato al destino futuro della Siria.   

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Sibel Güler è una giornalista kurda che, come altri colleghi, ha subìto limitazioni della professione e arresti da parte del governo Erdogan dal 2011. E’ stata redattrice e, per un periodo, direttrice della testata Özgür Gündem, chiusa nell’agosto scorso dall’attuale premier Yıldırım. L’accusa rivolta al gruppo di cronisti di cui fa parte Güler (media e agenzie sono: Azadiya Welat, Özgür Gündem, Diha, Anf, Fırat Dağitim, Demokratik Modernite) è quella d’essere membri del Comitato Stampa dell’Unione delle Comunità kurde (Kck). Quest’organismo viene accusato dalla Stato turco di sostenere il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, posto dal 2001 nella lista delle organizzazioni terroriste stilata da Stati Uniti e Unione Europea. Per similitudine i giornalisti in questione vengono tacciati di terrorismo. Dopo un lungo periodo di detenzione Güler è stata rilasciata, è in attesa del processo, ma non può più svolgere il suo lavoro. Dal 15 luglio scorso le è stato ritirato il passaporto con la motivazione di “essere pericolosa per l’indivisibile unità della Turchia”.

venerdì 23 settembre 2016

Ghani abbraccia il macellaio di Kabul

L’alleato fondamentalista - La navigazione governativa a vista messa in atto negli ultimi mesi dal presidente afghano Ghani approda a un primo passo verso un obiettivo, per ora rifiutato dai destinatari. Quest’obiettivo è stabilire una pacificazione coi riottosi talebani e per convincerli Ghani imbarca nientemeno che Hekmatyar, uno dei più spietati signori della guerra locali. Un fondamentalista doc che aveva già fatto da pontiere all’epoca del dialogo fra la Cia–Karzai e il mullah Omar. L’ha annunciato con enfasi il rappresentante dell’Alto consiglio afghano di pace, Ahmad Gilani, seppure nell’occasione i due attori non fossero presenti. La manovra, che avrà sicuramente ricevuto l’assenso del puparo di Ghani John Kerry, mostra il totale fallimento di emancipare l’ultimo burattino ufficiale afghano tramite un proprio esercito, enorme nei numeri (300.000 uomini) e  totalmente inefficiente sul campo. Il nemico fondamentalista che, dopo 15 anni di guerra, non è stato sconfitto resta la spina nel fianco sia degli Stati Uniti, lì interessati a geostrategie e business, sia degli affari di altri grandi del mondo: Cina, India, Gran Bretagna. Allora si torna al passato, ben prima dell’11 settembre, quando a fine anni Ottanta il mondo bipolare si scontrava in quel territorio, con un’Unione Sovietica impelagata in un’invasione che la dissanguò, e gli Usa che foraggiavano la resistenza di vari gruppi mujaheddin. Fra questi l’Hezb-i Islami creato da Hekmatyar,
Una vita per la ‘guerra santa’ - Originario di Kunduz, ingegnere mancato all’università di Kabul, e inizialmente  filocomunista prima di tramutare il suo credo politico a Peshawar, in quei campi profughi dove gli afghani riparavano e dove agiva e reclutava l’Intelligence pakistana, Hekmatyar è un protagonista di primo piano  d’una storia lunga e intricatissima, che riassumiamo nelle vicende salienti. Le varie fazioni resistenti e vincenti contro l’invasione sovietica si ritrovarono, dopo la ritirata dell’Armata Rossa (1988), a gestire rissosamente le leve di comando. Fra i maggiori schieramenti, oltre a quello di Hekmatyar, c’erano Jamiat-I Islami di Rabbani e Massud, Ittihad-I Islami di Sayyaf. Anno dopo anno il comune governo scivolò in contrasti, fino alla contrapposizione armata durata dal 1992 al 1996, di cui fece le spese soprattutto la popolazione civile. Quella di Kabul, accusata d’essere stata acquiescente verso i russi, fu particolarmente colpita da chi voleva insediarsi in città. Il 1993 viene ricordato come l’anno nero della capitale che contò oltre diecimila morti civili. A provocarli le milizie di Rabbani e Massud insediate in città e quelle di Hekmatyar che da una collina circostante martellava coi mortai le truppe nemiche e le zone abitate dalla popolazione presa come bersaglio fisso. L’epiteto di ‘macellaio di Kabul’ viene da lì. Ma i suoi avversari non erano certamente galantuomini. Come non lo erano altri signori della guerra coinvolti: Mohaqiq, Dostum, Sayyaf, Fahim, Khalili. Nei curricula di ciascuno ci sono le tendenze più varie dal filosovietismo, al fondamentalismo islamico. Secondo i periodi sono stati nemici e alleati, risultano finanziati e armati da potenze mondiali (Usa, Urss, India, Cina) e regionali (Arabia Saudita, Pakistan, Iran), compaiono in ruoli ufficiali di governi afghani passati e attuali.
Crudele real politik - Si dirà: è la geopolitica bellezza. Quella che vede il cinismo variegato su scala macro e micro maciullare gente, ormai da quattro generazioni, cosicché dall’Afghanistan si continua a fuggire e certi afghani meditano il jihad antioccidentale portato a  destinazione: Europa o America che sia. Ottantamila furono le vittime civili dei quattro anni di guerra fra le bande afghane, quasi tutti i protagonisti di quel delirio sono vivi, vegeti e potenti, tantoché i depositari del ‘modello democratico’ da innestare li vogliono al proprio fianco. Inascoltate restano le voci di un’associazione locale come il Saajs che sui massacri della guerra civile afghana ha stilato dossier che raccolgono il dolore di migliaia di familiari, inizialmente reticenti a denunciare per il terrore che tuttora questi signori incutono. Nessuna Corte Internazionale ha raccolto il loro appello, troppo deboli, troppo umili, troppo sole quelle voci per gli interessi globali. Né le figure istituzionali che la democrazia occidentale ha insediato per trasformare il Paese in una società normale, mai hanno voluto chiedere conto dei crimini commessi. Prima Karzai, ora Ghani i signori della guerra li scelgono come alleati per cercare un presente che per la gente comune continua a profilarsi nero: i Taliban imperversano e controllano più della metà delle province, il governo annaspa e cerca un accordo che costoro rifiutano perché sanno di poter puntare all’intera posta: salire al potere, come nel 1996. Mentre l’America balbetta e al più prepara un’altra guerra se Trump, come può accadere, salirà alla Casa Bianca.


Enrico Campofreda, 23 settembre 2016

mercoledì 21 settembre 2016

L’Egitto di Sisi e la riforma delle ristrettezze

Quel che Giulio Regeni ricercava e studiava, anche tramite quei contatti trasformatisi in una trappola (col responsabile del sindacato ambulanti Mohamed Abdallah informatore del Mukhabarat), è una realtà difficile da nascondere. Un Paese con gravissimi problemi economici, cui non bastano né i 16 miliardi di petrodollari sauditi, che chiedono in cambio la riacquisizione dell’isola di Tiran sul mar Rosso e la creazione nel Sinai d’un porto franco mercantile targato Riyad, né il miliardo e mezzo di dollari statunitensi convogliati tutti sugli armamenti, mentre altri vengono dalla Francia. Gli investimenti esteri risentono del clima d’insicurezza della nazione, il turismo è in ginocchio, dimezzato dopo l’attentato all’airbus russo (già era dimezzato dal 2013, nel 2011 contava 14 milioni di presenze), il Pil è bloccato. Piangono i lavoratori nel settore industriale di Suez, dove una produzione scarsissima comporta scarsissime richieste occupazionali e una disoccupazione record; mentre sul mercato interno i prezzi dei manufatti registrano aumenti per la concorrenza nulla. Così quel pezzo d’Egitto rimasto timoroso e silente di fronte alla controrivoluzione di Sisi e pure i numerosi che, in odio all’Islam politico e per amore del laicismo filoccidentale, avevano sostenuto il generale salvatore della patria, sono costretti a fare i conti coi conti che non tornano.
La lira egiziana perde terreno, ufficialmente ne servono circa nove per un dollaro, di fatto bisogna sborsarne 12.8. Ovviamente al mercato nero del cambio, che la polizia dovrebbe impedire e invece tollera perché anche questo è un sistema adottato da parecchi per sopravvivere. Certamente sulla pelle d’altri, ma le “autorità” lasciano fare. Lo Stato sa pure che gran parte del commercio, da quello dei beduini del Sinai ai mercanti cittadini, risulta abusivo. All’ingrosso e al dettaglio, come ai tempi di Mubarak e prim’ancora, però chiude gli occhi scambiando il lassismo con altri favori. A molti ambulanti viene chiesto d’essere  informatori, raccontare quel che vedono e sentono per via, bersaglio: concittadini, attivisti, stranieri, giornalisti. I lavoratori dipendenti temono presente e futuro come evidenzia un’inchiesta del settimanale Al-Arham, prendendo spunto dagli usi e costumi dell’Eid Al-Adha, la festa del sacrificio, che cade in occasione dell’appena concluso mese del pellegrinaggio (Dhū I-Hijja). Il sacrificio della pecora, praticato da molti musulmani, è diventato dispendioso per i costi sempre maggiori del mercato ovino e bovino (più 20%). C’è stagnazione nel settore primario dell’agricoltura e si scopre che parecchi allevatori cambiano mestiere: per i ripetuti aumenti del prezzo del foraggio ritengono più vantaggioso acquistare animali adulti da spedire al macello, anziché svezzarli e crescerli.
Sebbene il regime copra, divaghi e impedisca ricerche si vocifera d’uno scandalo del grano, con prezzi gonfiati. Gli autori sono ufficiali statali, legati ad apparati delle Forze Armate che controllano aziende di produzione e commercio agricoli. Ma lo staff di Sisi si prodiga a divulgare altri messaggi, oltre a quello con cui recentemente ha dichiarato di voler indicare un pesce grosso dei propri apparati polizieschi quale mandante dell’omicidio Regeni, per allontanare Sisi stesso e il ministro dell'Interno Ghaffar dalle responsabilità che li inchiodano. Invita i cittadini a partecipare alla campagna di ristrettezze della nazione, predisponendo un variegato battage pubblicitario. La cartellonistica stradale ne è uno degli elementi. Visibilissimo. Mega tabelloni anziché promuovere un prodotto chiedono ai cittadini di partecipare alla “riforma delle ristrettezze”, com’è stata definita da chi non vuole chinare del tutto la testa. Le maggiori vie del Cairo e le autostrade verso il Mediterraneo sono disseminate di questi messaggi che compaiono anche sui media. Ai sacrifici gli egiziani, che danno una buona fetta della propria popolazione alla migrazione nel bacino del Mediterraneo e non solo, sono abituati. Sacrifici economici che finiscono in sacrificio della vita per chi parte sui battelli della speranza e per chi resta a casa, finendo nelle galere dove si viene trattati “alla Regeni”. Ora Sisi gli domanda un’ennesima stretta di cinghia, se non vorranno trovarsi addosso le cinture d’un altro genere di trattamento.