sabato 29 maggio 2021

Covid-19 e disastro indiano

Se non fosse il disastro che è, con tutti gli intrighi, i sotterfugi, le bugie, i drammi che affliggono decine di milioni di cittadini, la vicenda di mister Poonawalla farebbe da trama a una delle tante produzioni di Bollywood, tutt’altro che a lieto fine. Anche per lui fuggito a Londra con l’avvenente consorte e i pargoli, sembra giunta la sorte avversa del destino. In realtà cade in piedi, finisce in un’enorme e lussuosissima abitazione nel paradiso dei signori: l’area per straricchi di Mayfair. Comunque continua a dire di star male e aver paura di tremende vendette. Proprio così. Adar Poonawalla è figlio di Cyrus, il creatore del Serum Institute di Pune, azienda nata nel 1966 e diventata leader nella produzione mondiale di farmaci. Adar ne è da tempo l’amministratore delegato, sarebbe meglio dire era, poiché su quella carica pende quell’incertezza che l’ha fatto riparare nel buen retiro  dell’ex matrigna coloniale, inseguito - sostiene sempre lui -  da minacce pericolosissime. Più che dalla gente comune, moribonda e sofferente in gran numero, le intimidazioni potrebbero venire da chi contesta alla multinazionale d’aver trascurato il mercato interno dei vaccini anticovid, per lucrosi contratti internazionali. Nelle scorse settimane davanti ad alcuni centri dove i ricoverati crepavano per mancanza d’ossigeno e di altri strumenti di supporto alla malattia comparivano manifesti che accusavano “Perché avete spedito i vaccini dei nostri bambini all’estero?” Alla domanda legittima e disperata, la polizia ha risposto con retate rivolte ad attivisti dell’opposizione. Ma anche figure di primo piano della politica nazionale: Sonia Ghandi, per il Partito del Congresso, Sitaram Yechury per quello comunista, e lo spauracchio del premier Mamata Banerjee, che ha umiliato il Bjp nella recente elezione nel Bengala, hanno chiesto conto a Modi di tanta criminale sciatteria verso il terribile male. Lui semplicemente se ne infischia. 
 
Proprio gli affari del Serum Institute e del suo super manager, hanno avuto il benestare governativo, e dopo l’accordo addirittura d’un anno fa stipulato con AstraZeneca per la produzione del Covidshield ad uso interno, le mosse successive dello scorso gennaio vedevano Poonawalla dirottare 70 milioni di dosi a Paesi stranieri. A fine di quel mese s’è verificato un incendio della nuova linea di produzione aziendale del vaccino (casuale, doloso? nulla trapela) e secondo quanto dichiarato alla stampa l’amministratore delegato, temendo per la sua incolumità, ha fatto velocemente le valigie trasportando l’intera famiglia nel sicuro riparo britannico. Ancor’oggi Poonawalla afferma che potrebbero “tagliargli la testa”, facendo intendere quasi una vendetta di sponda jihadista. Una versione benvista dal fondamentalismo hindu, che un anno fa aveva diffuso la teoria del “Coronajhad” per lo sviluppo assunto dalla pandemia in un’area di Delhi dopo un incontro di massa organizzato da una Confraternita islamica. Purtroppo simili raduni sono ripresi dopo l’estate. A maggio scorso Modi aveva decretato alcune settimane di chiusura di molte attività, la ricaduta sulla micro economia di milioni di famiglie i cui pasti quotidiani dipendono dalla possibilità di lavorare, aveva delineato una situazione esplosiva. Nei mesi estivi s’era registrato  un calo dei contagi, pur fra controlli minimi e riscontri insignificanti. Nei mesi di ottobre e novembre giungevano le ciclopiche manifestazioni degli agricoltori, provocate da decreti governativi in loro sfavore, seguite da una sorta di liberatoria per feste private, pubbliche e religiose. I contagi risalivano paurosamente, eppure il negazionismo governativo era assoluto. Scarsissimi gli investimenti sul disastrato settore sanitario, disprezzo e persecuzione verso medici e scienziati che lanciavano accorati appelli, imbarazzanti suggerimenti per tamponare la pandemia con “urina di vacca e unguenti a base di olio di sesamo, di cocco e burro da porre nelle narici due volte al giorno”. Un pazzesco mix di menzogne e superstizione che ha condotto, dietro certi guru promossi consiglieri del governo, milioni di hindu a immergersi, come da atavica ritualità, nelle acque del Gange, per poi galleggiarvi cadaveri. 

 

Le pire sotto cielo sono apparse in decine di servizi, in centinaia d’immagini che il contenimento repressivo del Baharatiya Janata Party non è riuscito a oscurare. Certo, l’apparato mediatico di sostegno ha prodotto, e continua produrre, un’enorme disinformazione tramite i propri canali. La più inquietante riguarda gli apparati e istituti preposti proprio alla notifica dell’attuale stato della malattia. Diversi organi, anche sul web, trasmettono cifre aggiornate ogni ora - attualmente indicano in 320.000 le vittime - ma diversi studiosi di statistica, anche indiani, sostengono che i numeri sono ampiamente sottostimati. I cittadini deceduti per Coronavirus sarebbero oltre un milione, alcuni esperti sostengono che come per altre percentuali il governo impone agli istituti un abbassamento anche di cinque volte i dati finali. Così dopo un anno, l’India potrebbe aver registrato oltre un milione e mezzo di vittime, quota che rapportata al miliardo e 350 milioni di abitanti può apparire contenuta, ma di per sé non lo è, e in ogni caso rappresenta la peggiore catastrofe del Paese dalla sua indipendenza. Nessuna carestia, nessuna inondazione monsonica ha fatto altrettanto. Il guaio è che con l’orientamento dell’attuale esecutivo al potere l’orizzonte rimane oscuro. Accanto all’altolà tutto in spirito nazionalista imposto alla grande azienda farmaceutica di Pune: i vaccini devono restare in loco, e ne sono previsti con un logo che mostra l’effige neanche a dirlo di Modi, il sistema ospedaliero non viene rafforzato, quello preventivo neppure, la sovrappopolazione non solo negli enormi slum, ma nelle stesse periferie delle metropoli con estrema  promiscuità abitativa, lasciano inalterata la minaccia di nuovi focolai. Cui s’aggiunge la questione delle varianti. Chi non viene vaccinato, dunque centinaia di milioni di persone, visto che per quest’anno il governo promette d’inoculare 300 milioni di dosi, presta il fisico a diventare un laboratorio per sviluppi del Sars-CoV 2 in nuove versioni. Le varianti indiane sono due. Forse tre. Per ora. Del domani non v’è certezza.

venerdì 28 maggio 2021

Taliban, la vera trattativa sul terreno

Né Doha, né Mosca e neppure Ankara. Le trattative reali, sul terreno che sa di polvere ocra e di polvere da sparo, si fanno in certe province attorno a Kabul. A est, Laghman, a ovest Wardak e poi a Baglan e Lugar, tanto per completare i punti cardinali. Tanto per ricordare chi comanda e dove, e soffoca in una morsa la capitale. Ritiro della missione Nato dal primo maggio aveva decretato con tanto di firma ufficiale l’ex presidente americano Trump. Più avanti ha ribadito l’odierno capo della Casa Bianca, Biden, cercando uno spazio personale in una decisione già presa  più che presso lo Studio Ovale, nella stanze blindate del Pentagono. Così è scaturita la proroga fino al simbolico 11 settembre prossimo. Eppure il ventennio della disfatta e del disonore non si cancellano, restano nelle mente di chi li ha subiti (milioni di afghani), di chi ci fa i conti oggi (governanti fantoccio e loro apparati), di chi gestisce il presente e prepara il futuro (i talebani). Quest’ultimi hanno formato una sorta di Comitato di trattativa locale, rivolto ai disperati che vestono la divisa d’un esercito fantasma, quello messo su con retorica e prosopopea dalla Nato con la struttura del Resolute Support. Coi suoi istruttori, anche italiani, che traevano guadagni personali nello stare in loco, per addestrare qualcosa d’inservibile, un’armata Brancaleone che, al di là di qualche ardimento o vendetta personale, non ha cuore né interesse a battagliare contro i turbanti. Così, l’ennesima madornale bugia, venduta per anni sui media occidentali: l’autodifesa afghana a prescindere dalle truppe d’occupazione, è venuta allo scoperto. 

 

In realtà l’inefficienza si palesava a ogni assalto nemico, sempre più baldanzoso - l’assedio di Kunduz, durato settimane, i ripetuti attacchi a Lashkar Gah - e attualmente che il futuro del Paese è segnato, perché i marines stanno già smobilitando da alcuni centri, ecco che i governatori tutt’altro che provvisori si fanno vivi. Si tratta dei comandanti talebani che telefonano, sì telefonano, o inviano i loro messi in certi avamposti, dove sono asserragliati, e sarebbe meglio dire abbandonati, reparti dell’esercito di Kabul. Gente che mangia a stento e beve acqua piovana (quando c’è) dicono agenzie come Reuters. Gli ambasciatori parlano coi capi, dicendogli: guardatevi attorno, scrutatevi in faccia, siete in condizioni disperate, chi ve lo fa fare a combattere per Ghani? Se vi ritirate non vi uccidiamo. Se entrate nelle nostre file, vi nutriamo e vi paghiamo. E’ quanto raccontano cronisti locali al New York Times. Una verità che, pur conosciuta, i portavoce politici statunitensi non dichiarano per pudore, e l’attuale governo afghano cela per disperazione. Al di là dei feroci e criminali attentati contro gli hazara, compiuti dall’Isis del Khorasan seppure attribuiti agli studenti coranici, quest’ultimi non sembrano voler neppure attaccare più l’esercito di Kabul. Cercano di comprarselo. Poi qualche militare, qualche poliziotto che li ha in odio, magari combatterà come l’ultimo kamikaze. Uscendo dalla propria “Fortezza Bastiani” in terra afghana, come in un passo d’un infinito ottocentesco “Grande gioco”.


 

lunedì 24 maggio 2021

Gaza, quel che resta di certi giorni

Si specchia in una pozza torbida lo sguardo di tre oggi bambini, domani – se gli andrà bene, molto bene perché la morte è sempre dietro l’angolo – giovani gazawi. Cerchio d’acqua, forse liquame poiché l’Israel Defence Forces ha picchiato duro con le sue bombe non solo su palazzi. Ha colpito strade, interrompendone molte di gran comunicazione e cercando la ragnatela a lei ostile dei tunnel. Quegli ordigni hanno scavato trincee, aperto voragini, divelto tubature d’acqua potabile, già insufficienti per un milione e mezzo di gente. Hanno sventrato fogne. Chi osserva di persona ciò che resta dei giorni dell’anomalo conflitto, parla di tanfo, del puzzo nauseabondo degli scoli che tracimano da condutture colpite, per sbaglio? Chissà. Dodici anni addietro non è stato così, si sospetta che lo sia anche stavolta perché aerei e droni sanno su cosa e dove tirare, lo Shin Bet ha lavorato meticolosamente, lo testimonia l’uccisione di alcuni capi nemici, sebbene qualcuno sia sfuggito agli omicidi mirati. Come in altre occasioni, far fuori alcuni militanti ha divelto molte vite innocenti. Morte anche fra costoro. Morti bambini. Pure queste sono cronache d’esecuzioni annunciate, perdite collaterali all’obiettivo primario, con un’aggiunta che arrotonda la cifra e la porta da dieci a cento, da venti a duecento e passa. Saranno stati una ventina i capi di Hamas e della Jihad “eliminati”? I portavoce della Difesa israeliana non l’annunciano, forse sono di meno, il resto è una manciata di cadaveri che il popolo piange e che portavoce anche più illustri dei direttori delle testate nostrane - s’è scomodato Bernard-Henri Lévy - addebitano alla resistenza palestinese che imprigiona i gazawi. Così parlò il filosofo-scrittore, questo replicano diversi pappagalli mediologici.   

Fra chi ancora incredulo, nonostante l’età abbia salutato l’infanzia e s’avvicini all’adolescenza, osserva dai buchi una realtà che continua a non comprendere e soprattutto ad accettare e chi ormai sa che quello è l’orizzonte ordinario conosciuto dalla nascita, lì è scampato almeno in tre guerre a distruttivi missili celesti, perciò sfoglia magari qualche pagina salvata oppure pensa a come fuggire. Forse pensa a scampare alle bombe, i maestri del mainstreaming diranno: a scappare dallo Stato (sic)- galera di Hamas. Certamente rincorrere una vita nuova è il pensiero più giusto felice, pieno, desideroso d’un futuro che viene negato ai ragazzi della Striscia  anche dal corto-circuito della politica locale. Ma s’è detto cento e cento volte: lo straniamento di questi giovani, destinati a crescere e invecchiare, nella privazione d’una vita ordinaria alla stregua dei fratelli della Cisgiordania, è frutto delle tare che il loro vero carceriere, la politica d’Israele, ha creato dopo presunti accordi. Firmati e disattesi. Quelli di Oslo 1993 e il ritiro dell’Idf dalla Striscia nel 2005 hanno solo prodotto da una parte insediamenti di coloni fondamentalisti, dall’altra embarghi e raid sanguinari. Osservare dall’alto macerie è più speranzoso rispetto a non poterle guardare se si è finiti sotto quintali di cemento e gli occhi ormai sono chiusi, il respiro è spento, il sangue gelato. I cuori che restano battono per un orizzonte che non dovrebbe restare eguale, ma per chi conta e comanda, per chi decide e uccide il futuro d’una popolazione senza il diritto alla vita è un fuscello. Lo si può estirpare senza dover rendere conto all’umanità e per i più fedeli del popolo eletto, neppure a Dio.

mercoledì 19 maggio 2021

Gaza, l’arma della resistenza oltre le armi

Il conflitto a distanza fra le Intelligence israeliana e iraniana vede in azione da circa un ventennio agenti del Mossad e quelli dei Pasdaran in un’ampia area mediorientale. I primi usano infiltrare il nemico, e per colpire gli ingegneri di Teheran impegnati nel programma nucleare hanno probabilmente reclutato dissidenti persiani. I reparti Al Qods hanno intrapreso una copiosa formazione di quadri militari fra gli Hezbollah libanesi e i combattenti di Hamas e della Jihad palestinese. Nell’attuale ‘guerra’ fra Israele e Hamas - come i media mainstream amano definire l’impari battaglia dell’aria di questi giorni (227 vittime palestinesi, 12 in Israele) - appare un ben superiore impatto balistico della resistenza gazawi rispetto all’ultima grossa offensiva ricevuta dall’Idf col cosiddetto ‘Margine di protezione’. Sebbene i missili in dotazione ai miliziani palestinesi non possano competere con quelli che esplodono con precisione millimetrica sulla propria lingua di terra, né possono essere teleguidati verso obiettivi avversari, la loro gittata (alcuni sui 100 km), il numero (oltre 3.000 razzi in otto giorni), l’intensità (fino a 470 lanci quotidiani) evidenziano alcune novità. Una capacità considerevole nonostante lo stato di embargo vissuto dal milione e mezzo di abitanti della Striscia e dalle stesse forze politico-militari impegnate in una Resistenza che si mostra viva, anche sul fronte delle armi. I tanto discussi razzi non giungono più dall’esterno, spediti com’erano fino qualche anno fa attraverso celate e lunghe vie di percorrenza: rotte marine nel Mar Rosso verso il Sinai o via terra dal Sudan ed Egitto, quindi sempre coi carovanieri trafficanti di tutto sino ai cunicoli del confine sud di Gaza. Quel periodo s’è chiuso. Vitali restano sempre i tunnel contro cui Israele lancia bombe oppure cerca di tamponarli anche con progetti di mura sotterranee, compiacente il regime di Al Sisi. La dozzina di chilometri meridionali della Striscia non è sigillata e la Santa Barbara della resistenza armata palestinese vive un’altra fase. Quella della fabbricazione in loco. L’Intelligence iraniana ha istruito nuovi quadri alla fabbricazione degli esemplari dei proiettili usati in questi giorni, che provocano qualche problema Israele, non solo nelle zone prossime ai detestati gazawi. 

 

Taluni missili hanno gittate lunghe, circa 100 km, dunque possono raggiungere e superare Tel Aviv. La tecnologia è quella dei Fajr iraniani. Ciò che ha maggiormente preoccupato lo Stato maggiore d’Israele è la quantità di razzi lanciati e la loro modalità, cioè l’uso della balistica. L’intensità dei lanci può confondere l’intercettazione del pur sofisticato sistema di protezione aereo - l’Iron Dome - che tutela il territorio israeliano. I razzi giunti a bersaglio, e in qualche caso mortali, costituiscono quel 5% di tiri non intercettati dal meccanismo difensivo. Ma i palestinesi, oltre ad aver acquisito nozioni per la produzione in loco con tanto di base di lancio, sono stati addestrati alle variabili del moto dei proiettili. Non sfruttando tutta la lunga portata del razzo e tenendo una traiettoria bassa si riesce a ingannare i radar del controllo elettronico israeliano e a bucarlo. Il Mossad, come suo costume, non resta a guardare. Fra i nemici eliminati in questi giorni ci sono anche alcuni esperti di balistica e ingegneria: Juma Talha, responsabile di Ricerca e Sviluppo del governo di Hamas, Sami Radwan che era a capo del Dipartimento Tecnico nella Striscia e l’ingegnere Jamal Zabdeh per i Progetti Industriali. Freddati dai missili intelligenti, e investigatori, diremo noi. Come facesse Israele a sapere dove questi uomini si trovassero, seppure la Striscia sia un territorio circoscritto, appartiene al ‘mestiere’ dell’Intelligence. Aggirare l’Iron Dome è sicuramente più difficile che perforare la rete di protezione di cui la resistenza si dota. La guerra di spie, informatori, infiltrati di Israele col Partito Islamico e i suoi sostenitori regionali va avanti da tre decenni e continuerà. Come proseguirà la resistenza ben oltre la tecnologia delle armi, visto ciò che mostra il sentimento di ciascun palestinese a ogni livello.

martedì 18 maggio 2021

La psicanalista palestinese Samah Jabr: “La resistenza è un diritto e un dovere”

Più e meglio d’una pianificazione politica, sia rispetto all’immobilismo cariatico di Fatah sia dell’islamismo più o meno intransigente,  l’intervista che la psicanalista palestinese Samah Jabr ha concesso ieri alla rivista online Lundimatin, pone punti chiarissimi nell’incistata questione palestinese, tornata a insanguinare vari angoli abitati dal suo popolo. La linea che Israele ha intrapreso da oltre un ventennio – secondo la regìa di Netanyahu e non solo, diciamo noi – gioca sul binomio: palestinesi barbari terroristi o sottomessi disumanizzati. Nell’uno, con omicidi mirati e bombardamenti generici, e nell’altro caso, tramite lo stillicidio d’una frammentazione d’un popolo: i fuoriusciti tenuti lontani da una terra che si chiamava Palestina, chi vive sotto embargo (Striscia di Gaza), chi è sotto occupazione (Cisgiordania), chi nella precarietà dei campi profughi in Giordania, Libano, Siria, a tutti costoro s’impedisce di ricreare una dignità comunitaria, un’essenza economica, una rappresentanza degna d’autorevolezza, di ascolto e accettazione mondiale. Teoricamente questo era previsto nel 1993, non è mai stato così. A tal punto che il sostegno al popolo palestinese, non solo e non tanto per le angherie subìte, ma per la propria capacità di resistenza è riconosciuta da Paesi solidali, limitata però da iniziative come i recenti ‘Accordi di Abramo’, dall’attivismo internazionale, minuto o organizzato, non dalle parolaie istituzioni internazionali come l’Onu reso impotente da veti e aggiramento delle risoluzioni. La stessa Autorità Nazionale Palestinese tende a passivizzare il suo popolo, relegandolo al ruolo di beneficiario di carità internazionale. Una linea che Israele gradisce perché gli toglie dal panorama geopolitico un interlocutore attivo e rivendicativo. 

 

Perciò, sostiene la psicoterapeuta
che vive e lavora a Gerusalemme e della capitale scippata dal sionismo prim’ancora che dai coloni ultraortodossi conosce le mille e una contraddizioni,  i palestinesi devono uscire dal ruolo di vittima che molti vogliono cucirgli addosso. Esiste un’ampia gioventù palestinese, straniata dallo stallo d’una condizione bloccata, la cui prospettiva è unicamente quella di reiterare azioni già viste, se non per esperienza diretta per informazione acquisita. C’è il desiderio d’uscire dal tunnel – materiale e metaforico – non per diventare bersaglio o supplice d’aiuto, bensì per vivere un’esistenza degna della dignità che anima chi sente di voler affermare una differente vita personale e collettiva. D’altra parte Jabr non dimentica come i traumi per i connazionali siano sempre presenti e s’aggravino. Essi vivono sotto perenne minaccia di repressione, prigionìa, espulsione, massacro. Per loro la Nakba esiste da settantatrè anni e continua a perpetuarsi giorno dopo giorno. Questa gente subisce quotidianamente la ripetizione di un’illegalità davanti ai propri oppressori. Non possono che conseguirne angoscia, depressione, frustrazione, umiliazione psicologica, sofferenza sociale. Il male creato dall’occupazione va oltre gli episodi anche cruenti e luttuosi in sé, l’impotenza viene interiorizzata, si perde l’autostima soggettiva e collettiva di poter trovare uno sbocco a una condizione asfittica. L’impotenza paralizza i più, al di là dell’invecchiamento, della mancanza di energie e di soluzioni a medio termine. Però la resistenza contribuisce a tener viva la voglia di vivere, per quanto tutto ciò appaia un paradosso nei giorni in cui a Gaza la morte saetta improvvisa, azzerando anche la vita dei bambini. Eppure la resistenza umanizza, mostra come gli interventi esterni non sono in grado né vogliono proteggere i palestinesi. La resistenza è un diritto e un dovere. E sebbene la solidarietà internazionale dal basso sia una linfa benefica, quel che manca è una ripoliticizzazione interna, unica salvezza per la gente che soffre, da cui può e deve emergere una rigenerata leadership nazionale.  

sabato 15 maggio 2021

Israele, l’odio per l’informazione

Nessuna vita vale un edificio, per quanto simbolico, per quanto utilissimo. Dunque l’angoscia per le vittime, centoquaranta con trentanove bambini, che i palestinesi contano fra le macerie della Striscia rappresentano l’inaccettabile in questi giorni di morte dal cielo. E anche per chi, senza responsabilità diretta, muore dentro i confini d’Israele. Ma la polverizzazione, minacciata e poi eseguita, dell’edificio presente a Gaza City, dove operavano l’emittente Al Jazeera e l’Agenzia giornalistica Associated Press è l’ennesimo tassello che Israele pone alla sua strategia d’oscuramento dei propri crimini. Evitare di mostrare, parlare, scrivere è sempre più difficile nel sistema globalizzato dell’informazione. Eppure si cerca di farlo. Lo fa soprattutto chi sa di stare nel torto, chi considera i reporter nemici di cui sbarazzarsi, impedendo loro di lavorare in ogni modo, con qualsiasi mezzo. Così dopo l’ultimatum dell’Idf, che ha evitato di aggiungere altre morti innocenti a quelle già mietute fra i civili di Gaza intimando di sgomberare l’edificio che sarebbe stato raso al suolo, il proprietario dello stabile (indicato anche come un membro della Sicurezza nell’area) chiedeva qualche altra manciata di minuti per salvare parte della strumentazione abbandonata all’interno dopo l’intimazione di sgombero e la fuga del personale lì impegnato. Nessuna proroga è stata concessa. E computer, telecamere, video, macchinari professionali sono stati seppelliti sotto le lastre di cemento della torre implosa su se stessa e sbriciolata. Così i teorici dell’informazione corretta, sempre e tanto invocata, trattano l’informazione. Chiaramente quella dell’edificio la considerano nemica, faziosa, propagandistica perché appartenente all’holding che gestisce e finanzia l’emittente qatarina dall’epoca della fondazione (1996). In realtà Israele, non solo l’attuale governo d’Israele e il suo leader che ne indirizza la politica da oltre un ventennio, etichettano in questo modo chiunque (giornalista, opinionista o cittadini del mondo) la pensi diversamente da sé. Tanto da aver marginalizzato anche altre voci ebraiche, neppure tanto dissidenti come intellettuali democratici defunti e in vita. Impedire, poi, alla stessa Associated Press, storica agenzia internazionale con oltre centosettant’anni di cronaca narrata, di continuare a farlo in quel palazzone di Gaza City, è sintomatico della grande falsità che Israele racconta di se stessa: essere una democrazia. I fatti dal 1948 dicono altro.

mercoledì 12 maggio 2021

Palestina, una storia con troppi nemici

La politica estera della Casa Bianca che, col verbo dell’amministrazione Biden, s’impegna ad adottare un approccio di difesa dei diritti nelle controversie internazionali mostra un fiato cortissimo nella crisi israelo-palestinese di questi giorni. Sia sulla Spianata delle Moschee, ridotta a un campo di battaglia e ancor più sulla Striscia di Gaza ridiventata bersaglio dei raid aerei dell’Idf. Ci sono anche i razzi lanciati sul territorio israeliano,  finanche su Tel Aviv - alcune fonti dicono un migliaio - che hanno provocato una terza vittima, dopo le due donne colpite ad Ashkelon, mentre cinquantatré risultano finora i cittadini arabi morti nell’escalation militare che ha tutta l’aria di rinverdire le campagne di sangue degli ultimi dodici anni, da Piombo fuso del 2009 al Margine di Protezione del 2014. E mentre Hamas, direttamente colpita nella Striscia sia con l’uccisione mirata di tre responsabili più l’abbattimento d’un grande edificio di sua giurisdizione, e la Jihad islamica si scambiamo col premier Netanyahu accuse e minacce su chi pagherà di più nelle prossime ore, nel dramma e nella morte già fioccano le denominazioni: Guardiani delle mura la chiama Tel Aviv, Spada di Gerusalemme rispondono da Gaza,  da Oltreoceano non giungono segnali di contenimento d’un contrasto che già scivola in aperta offensiva. Israele muove truppe sui confini e richiama oltre cinquemila riservisti. Anche perché in alcuni centri dove la convivenza con gli arabo-israeliani si snodava senza contrasti, la litigiosità è deflagrata in base alla virulenza di questi giorni: a Lod, a sud di Tel Aviv, la cittadinanza palestinese ha dato alle fiamme sinagoghe e auto. Stavolta la popolazione d’Israele non osserva in tivù quel che compie Tsahal alle vite degli altri, vede la propria vita in pericolo, ovviamente non su tutto il suo territorio.

A un Biden meditabondo o assai più in attesa di mosse internazionali, soprattutto russe e turche visto che quei due capi di Stato si confrontano su questa crisi, sopperiscono suoi subalterni, ad esempio Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale, che si confronta con l’omologo israeliano. Più che altro per sostenere la linea della difesa degli storici alleati. Nessuna parola sui blandi tentativi dell’Onu di ripristinare la calma, anche perché proprio gli Stati Uniti stanno prendendo tempo e per ora impediscono la formulazione di testi e risoluzioni. L’attuale ambiguità non stupisce di certo, è una posizione adottata da decenni con le più svariate amministrazioni sempre unite nell’avallare l’occupazione illegale di Gerusalemme nel 1967, l’annessione di fatto del 1980, fino ai passi ampiamente provocatori del 2017 col riconoscimento della Città Santa quale capitale d’Israele. Certo, gli ultimissimi voltafaccia delle più occidentali fra le nazioni arabe firmatarie del cosiddetto ‘Accordo di Abramo’, hanno posto una pietra tombale sull’annosa rivendicazione d’uno Stato Palestinese, promesso, concesso per modo di dire a Oslo, e scippato dalla prosecuzione delle occupazioni illegali dei coloni, proseguite ora col parossistico sfratto da Sheikh Jarrah. Think tank democratici che in questi giorni osservano e, magari, commentano col solito buonismo di ritorno le fiammate di violenza nei luoghi, anche quelli di preghiera, dove i palestinesi sono ghettizzati, sostengono che occorre lavorare per isolare e prevenire violenze. Eppure da oltre un decennio le contraddizioni - palesi, stridenti - nella Cisgiordania occupata e nella Striscia martoriata non solo dal fuoco aereo, ma dall’embargo terrestre, sono rimaste inalterate. Quindi hanno incrementato la frustrazione sociale e civile d’un popolo ridotto a servitù dal fanatismo dell’ultradestra israeliana ormai padrona d’uno scenario politico incistato dal non  senso d’un sistema che gode della discriminazione imposta a cittadini piegati dall’apartheid. Egualmente la casta politica palestinese congela presente e futuro (le elezioni rimandate ancora una volta sono l’ennesima prova), davanti ai falsi fratelli del mondo arabo avvelenatori di pozzi e al cinismo geopolitico internazionale. E il cerchio appare tragicamente chiuso.  

sabato 8 maggio 2021

Kabul, sabato rosso sangue

Ancora donne e ragazze. Ancora Dasht-e Barchi, l’area sciita di Kabul. Ancora morte, ancora sangue. Sangue senza pietà che lascia a terra un centinaio di persone, quaranta vittime e circa sessanta di feriti. Tanti ne arrivano all’ospedale di Emergency, dove i letti quasi non bastano.  L’ennesimo attentato - diviso su tre esplosioni: un’autobomba e due ordigni improvvisati - si è sviluppato nel pomeriggio, quando le studentesse d’una scuola del quartiere abitato dalla comunità hazara stavano uscendo dopo la fine delle lezioni. La zona è stata più volte deturpata da attacchi, un anno fa con l’agguato senza cuore a un ospedale pediatrico di Médecins Sans Frontières nel corso del quale vennero assassinati addirittura neonati. Quello fu un crimine dell’Isil afghano, questo di oggi non è stato rivendicato, ma c’è chi giura che la matrice sia la stessa. I talebani, prim’ancora di ricevere accuse di responsabilità, che l’attuale governo volentieri rivolge loro, si sono dichiarati estranei e hanno condannato l’azione. Il presidente Ghani non ha perso l’occasione per accusarli pur non potendo esibire prove da parte degli uomini dell’Intelligence, solitamente in ritardo su tutto. Ha dichiarato: “I talebani con l’escalation della loro illegittima guerra, si mostrano ancora una volta non solo riluttanti a risolvere i problemi, ma complicano la situazione”. Parole di chi non sa cosa dire e fare, di chi si sente abbandonato dagli stessi mallevadori d’un tempo che hanno organizzato il ritiro militare entro l’11 settembre. Di fatto il rientro delle truppe Nato pone in seria difficoltà l’esercito afghano che, nonostante il decennio di cura, preparazione, finanziamenti e ogni tipo di sostegno ricevuto dall’Occidente non è in grado di garantire la sicurezza al territorio e alle Istituzioni. Intanto la fase di transizione è incertissima, i talebani dovrebbero far parte d’un esecutivo provvisorio su cui è contrario una parte dell’attuale establishment che però non ha né forza bellica, né presa sulla popolazione. Quest’ultima continua a essere bersaglio di contendenti spesso anonimi, come gli attentatori dell’Isil. L’agenzia Onu dell’Unama ha riferito che nei primi tre mesi di quest’anno le vittime civili hanno superato la quota di quelle registrate nel 2019.

mercoledì 5 maggio 2021

Afghanistan, Essi furono

Sarà la data del “Cinque maggio” rimasta nella memoria letteraria, oltre che in quella storica, con l’Ei fu manzoniano, ma oggi il Corriere della Sera dedica due pagine alle vittime italiane in Afghanistan, che sono, anzi erano, militari. Vittime delle “missioni di pace” Enduring Freedom (2001-2006) e Isaf (2006-2014) come le hanno chiamate i governi nazionali, appoggiando i piani del Pentagono e della Cia, poiché anche quando tutto passò sotto il marchio Nato, erano sempre quelle strutture a dirigere le azioni belliche. Per la cronaca i governi di Roma che hanno inviato truppe in missione (analisti e politologi afghani, dunque non solo i taliban, l’hanno sempre definita occupazione) furono Berlusconi II e III, Prodi II, Berlusconi IV, Monti, e per la successiva missione Resolute Support tuttora in corso, gli esecutivi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e II, Draghi. Insomma tutte le formule politiche e tecniche, di centro-destra e di centro-sinistra, sono responsabili della partecipazione al fallimentare ventennio di guerra afghana nel quale anche il nostro esercito s’è infilato. Scorrendo i volti, in gran parte di giovani uomini sotto i trent’anni, e qualcuno maturo sulla cinquantina (i carabinieri Congiu e De Marco, l’agente dell’Aise Colazzo) troviamo alpini, parà, qualche lagunare, geniere, artigliere anche con precedenti esperienze, prevalentemente in Bosnia. 

 

Immaginiamo che a tutti lo Stato Maggiore Italiano qualche lezioncina di geopolitica l’abbia dispensata, oltre a un meticoloso addestramento su quanto andavano a svolgere. Che per l’appartenenza ai corpi descritti e in virtù dello scenario in atto, non aveva nulla di pacifico. ‘Missione di pace’ era l’edulcorata enunciazione con cui i nostri Governi e Parlamento, e l’informazione mainstream che li supporta e li decanta, motivavano il finanziamento annuale: otto, novecento milioni di euro per un totale di 8,5 miliardi di euro (i conteggi si fermano al 2018). Questo ha pagato la comunità nazionale, accanto alle cinquantatré bare di chi vi ha preso parte. Tributo frutto più di un’omologante subordinazione politica che d’imprescindibili obblighi di adesione alla Nato, l’Italia dei partiti è stata totalmente acquiescente verso i contraddittori piani predisposti dai presidenti Usa: George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump. E non è assolutamente vero che fosse obbligata a farlo. Nel tempo altri Paesi membri della Nato hanno ritirato le proprie adesioni da operazioni di polizia militare in giro per il mondo. L’Italia no. Senza neppure inseguire sogni di gloria o tatticismi d’altre epoche con cui si spedivano i bersaglieri in Crimea per ricevere sostegno armato ai progetti risorgimentali. Ricordare i  militari caduti è cosa dovuta, chiedersi dell’inutilità del loro sacrificio in una politica estera afona e succube d’un imperialismo mai morto, è doveroso.
Chi come l’artigliere Marco Callegaro prima di suicidarsi - seppure il tragico gesto è stato tacitato nonostante gli espliciti  segnali: il cadavere riverso nel suo ufficio di Kabul, la testa violata da un colpo partito dalla pistola d’ordinanza - scriveva alla moglie Beatrice: “Sono dentro una cosa più grande di me”, è sicuramente vittima della politica decisa a Palazzo Chigi, alla Farnesina e ratificata a Montecitorio. Possiamo nutrire pietà per i morti, fra cui c’è il romano di fatto e di nome Alessandro Romani, un assaltatore della Task Force 45, reparto d’eccellenza agli ordini della Cia, quegli organismi che per anni hanno praticato nelle province afghane extraordinary rendition. Purtroppo conosciamo cos’erano queste azioni: s’irrompeva nelle case sospettate di ospitare combattenti, si prelevano civili, li si portavano nelle basi Nato, eseguendo interrogatori. Human Rights Watch ha in più occasioni denunciato le torture praticate su gente comune in simili interrogatori. Osservatori internazionali hanno ribadito che queste pratiche hanno ampliato considerevolmente il consenso talebano in un popolo vessato. Nel ricordare i militari italiani caduti in Afghanistan la politica nazionale dovrebbe promettere: mai più. Mai più vittime avvolte nel tricolore, mai più vittime del tricolore. Morti nostri e morti d’una scellerata politica nazionale, voluta o inconsapevole al servizio di Stati sedicenti amici.

martedì 4 maggio 2021

West Bengala, il bruciante tributo di Modi al passato

In queste ore si fa un gran parlare della sconfitta elettorale del premier indiano Modi. In realtà le elezioni statali (paragonabili alle amministrative dell’Occidente, solo con numeri oggettivamente ciclopici) non rivestono un’importanza simile alle politiche. Eppure le aspettative che proprio il Primo Ministro aveva creato nel più popoloso dei cinque luoghi chiamati alle urne, il West Bengala, avevano da due mesi accentrato l’attenzione dei media interni e internazionali. Sia per le criticità della pandemia in forte risalita dal mese di febbraio, tanto che diversi scienziati e ricercatori chiedevano alla politica nazionale di rinviare l’appuntamento, sia per la difficile gestione dell’organizzazione che ruotava attorno a una campagna elettorale basata su raduni numerosi e pericolosi per la promiscuità creata. Narendra Modi – superficiale e borioso, carente e incapace, un Bolsonaro asiatico – ha tirato dritto mentre il Paese, settimana dopo settimana, accendeva ogni giorno migliaia di pire per la cremazione delle vittime del Covid. Inseguiva Modi un riscatto in un luogo evocativo, appunto dove Calcutta è capitale, la patria di Syama Prasad Mukherjee, un politico d’inizi Novecento e fondatore del Bharatiya Jan Sangh. Questo è stato il partito della destra hindu, considerato il braccio parlamentare del Rashtriya Swayamsevak Sangh a sua volta braccio armato, nel senso letterale del termine, e tuttora responsabile d’inaudite violenze contro avversari e gente comune. 

 

Insomma si trattava d’intervenire in grande stile nella regione dove le radici dell’attuale partito di governo, Bharatiya Janata Party, si sono sviluppate. Da qui l’iperattivismo del Capo dell’Esecutivo che sognava un rilancio nel popoloso Stato dell’est, nominalmente è definito occidentale per distinguerlo dal Bengala orientale, diventato dal 1971 Bangladesh. L’uno e l’altro sono la complessa metamorfosi d’una spartizione legata all’annosa vicenda post indipendenza che nel 1947 ha creato India e Pakistan, nazioni condizionate dal rispettivo orientamento religioso. Il West Bengala nel trentennio 1977-2007 ha conosciuto la guida d’una coriacea coalizione marxista; poi ha visto spuntare la figura d’una donna fortemente amata e premiata elettoralmente dalla sua gente: Mamata Benerjee. Poco più che ventenne portava nel Partito del Congresso, afflitto da intrecci e intrighi della dinastia familiare Nehru: da Indira, figlia dello statista Jawaharlal, a Rajiv Ghandi, quindi a sua moglie Sonia, una ventata di cambiamenti soprattutto su questioni morali e di lotta alla corruzione. Sebbene fra Mamata e Sonia i rapporti siano rimasti cordiali, l’attivista diventata leader vanta un rigore virtuoso da venire indicata come uno dei politici innovatori nel Paese. Smarcatasi dal Partito del Congresso Benerjee s’è posta alla testa d’un movimento diventato gruppo politico, Trinamool Congress, ha speso la sua popolarità in polemica con gli esponenti marxisti, facendosi forza dell’appoggio dei contadini verso i quali ha intrapreso politiche di sostegno. 

 

Per quanto si evidenzi la sconfitta del Bjp nella regione bengalese, i vincitori del Trinamool Congress che appartengono a un’area oggettivamente di destra, non possono sperare di pesare sulla scena nazionale. Localmente, cioè in uno Stato che coi suoi 96 milioni di abitanti è fra i più popolati della Federazione indiana, questo partito è considerato soprattutto la bestia nera del marxismo che nel territorio ha espresso intellettuali e personaggi di cultura. Gli attivisti del Trinamool si godono un successo che umilia l’ottica tradizionalista e machista di Modi costretto a subìre uno smacco personale da una donna, pur navigata come Benerjee. E’ duro da digerire anche il vitalismo con cui l’indomita avversaria, oggi sessantaseienne, ha proseguito la campagna elettorale su una sedia a rotelle per un infortunio occorsole durante un comizio. Sarebbe stato meglio che il Bjp, intenzionato a risalire la china in quella zona del Paese, non avesse esposto il Primo Ministro, poiché perdere il 30% di preferenze rispetto alle politiche di due anni fa con Modi impegnato nei raduni piazza, oggi criticatissimi, costituisce un palese boomerang. Da Delhi, velata dai roghi delle pire, i think tank di governo sostengono che la massa hindu dimenticherà questa sconfitta. I tre anni dalle prossime elezioni possono essere riempiti di grandezze da rilanciare sui tavoli del G20, nei consessi della geopolitica mondiale dove Modi è invitato come attore di peso. Però il racconto di un’India ‘fabbrica e farmacia del mondo’, che dunque lo sostiene e soccorre, è soffocata dalla carenza d’ossigeno quintessenza del disastro sanitario. Bisognerà vedere quanto durerà la crisi. Se dovesse prolungarsi, le stragi pandemiche potranno condizionare il collante del nazionalismo religioso e squilibrare quella che è stata definita l’ipnosi del consenso indiano. 

 

domenica 2 maggio 2021

India elettorale dove il contagio schizza alle stelle

La vita deve proseguire, la politica deve procedere. La pandemia può fare più vittime ma non importa, perché i due momenti - così come i riti religiosi o il pellegrinaggio del Purna Kumbh Mela comunque realizzato giorni addietro - necessitano di rivitalizzazioni e celebrazioni. E oggi l’India delle urne guarda chi vince e stabilisce nuovi equilibri, come il Trinamool Congress nel Bengala occidentale che nell’ultimo decennio ha cancellato la trentennale supremazia del partito comunista, indiscusso amministratore del popoloso Stato dov’è Calcutta (5 milioni di abitanti su un totale di 93). I cinque territori (West Bengala, Kerala, Tamil Nadu, Assam, Puducherry) dove nelle recenti settimane si è votato raggiungono i 230 milioni di abitanti. Una quota consistente seppure non gigantesca. Del primo abbiamo detto, la sinistra si conferma nel profondo sud in  Kerala e Tamil Nadu, mentre il governativo Bjp guida gli altri due Stati. Però nei tre mesi in cui la campagna elettorale s’è sviluppata raduni e comizi hanno messo gomito a gomito, faccia a faccia, fiato a fiato decine di migliaia di persone, d'ogni partito. Tutte incuranti di protezioni, invasate nel seguire i politici e gridare come loro e più di loro. Tutte guardate da qualche agente, non di più. Questi comportamenti hanno indubbiamente contribuito all’incremento delle infezioni che a livello nazionale sfiorano quotidianamente il mezzo milione, quelle accertate, così come per le quattromila vittime note, visto che ce ne sono centinaia e centinaia di non registrate e immediatamente cremate su pire di fortuna per il rischio d'ulteriori epidemie. 

 

Il governo centrale, quelli locali si son guardati bene dal rinviare queste consultazioni nonostante la crescita esponenziale dei picchi epidemici già da fine gennaio. Alcuni studiosi hanno messo a confronto la situazione di venti Stati dove non si votava con i cinque impegnati nei seggi. I grafici indicanti la crescita che, ovunque dal mese di marzo, mostrano una salita ripidissima, nelle aree che hanno ospitato manifestazioni elettorali raggiungono una verticalizzazione assoluta. Naturalmente viene anche ricordato come a fine 2020 l’Esecutivo Modi si cullasse nell’illusione che la peggiore ondata nel Paese, quella vissuta da aprile a ottobre scorsi, fosse attenuata, da lì anche la scarsa preoccupazione per la campagna vaccinale e lo stesso reperimento di materiale sanitario, compreso l’approvvigionamento dell’ossigeno, la cui carenza da settimane fa morire cittadini perché  i malati gravi sono diventati milioni. E non si hanno spazi attrezzati dove poterli ricoverare. Il disastro era annunciato da mesi, ma si è andati avanti egualmente con la possibilità d’infettare sempre più gente, com’è avvenuto con queste elezioni. La situazione critica è generalizzata, però dove i presidi minimi vengono usati con maggiore attenzione (nel Maharashtra e Gujarat)  l’esplosione pandemica risulta più contenuta.