Né Doha, né Mosca e neppure Ankara. Le trattative reali,
sul terreno che sa di polvere ocra e di polvere da sparo, si fanno in certe
province attorno a Kabul. A est, Laghman, a ovest Wardak e poi a Baglan e
Lugar, tanto per completare i punti cardinali. Tanto per ricordare chi comanda
e dove, e soffoca in una morsa la capitale. Ritiro della missione Nato dal
primo maggio aveva decretato con tanto di firma ufficiale l’ex presidente
americano Trump. Più avanti ha ribadito l’odierno capo della Casa Bianca, Biden,
cercando uno spazio personale in una decisione già presa più che presso lo Studio Ovale, nella stanze
blindate del Pentagono. Così è scaturita la proroga fino al simbolico 11
settembre prossimo. Eppure il ventennio della disfatta e del disonore non si
cancellano, restano nelle mente di chi li ha subiti (milioni di afghani), di
chi ci fa i conti oggi (governanti fantoccio e loro apparati), di chi gestisce
il presente e prepara il futuro (i talebani). Quest’ultimi hanno formato una
sorta di Comitato di trattativa locale, rivolto ai disperati che vestono la
divisa d’un esercito fantasma, quello messo su con retorica e prosopopea dalla
Nato con la struttura del Resolute
Support. Coi suoi istruttori, anche italiani, che traevano guadagni
personali nello stare in loco, per addestrare qualcosa d’inservibile, un’armata
Brancaleone che, al di là di qualche ardimento o vendetta personale, non ha
cuore né interesse a battagliare contro i turbanti. Così, l’ennesima madornale
bugia, venduta per anni sui media occidentali: l’autodifesa afghana a
prescindere dalle truppe d’occupazione, è venuta allo scoperto.
In realtà l’inefficienza si palesava a ogni assalto nemico,
sempre più baldanzoso - l’assedio di Kunduz, durato settimane, i ripetuti
attacchi a Lashkar Gah - e attualmente che il futuro del Paese è segnato,
perché i marines stanno già smobilitando da alcuni centri, ecco che i
governatori tutt’altro che provvisori si fanno vivi. Si tratta dei comandanti
talebani che telefonano, sì telefonano, o inviano i loro messi in certi
avamposti, dove sono asserragliati, e sarebbe meglio dire abbandonati, reparti
dell’esercito di Kabul. Gente che mangia a stento e beve acqua piovana (quando
c’è) dicono agenzie come Reuters. Gli
ambasciatori parlano coi capi, dicendogli: guardatevi attorno, scrutatevi in
faccia, siete in condizioni disperate, chi ve lo fa fare a combattere per
Ghani? Se vi ritirate non vi uccidiamo. Se entrate nelle nostre file, vi
nutriamo e vi paghiamo. E’ quanto raccontano cronisti locali al New York Times. Una verità che, pur
conosciuta, i portavoce politici statunitensi non dichiarano per pudore, e
l’attuale governo afghano cela per disperazione. Al di là dei feroci e
criminali attentati contro gli hazara, compiuti dall’Isis del Khorasan seppure
attribuiti agli studenti coranici, quest’ultimi non sembrano voler neppure
attaccare più l’esercito di Kabul. Cercano di comprarselo. Poi qualche
militare, qualche poliziotto che li ha in odio, magari combatterà come l’ultimo
kamikaze. Uscendo dalla propria “Fortezza Bastiani” in terra afghana, come in
un passo d’un infinito ottocentesco “Grande gioco”.
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