giovedì 29 novembre 2018

Omicidio Regeni, la lezione della Procura di Roma


Di fronte al collaborazionismo della Farnesina nella gestione Alfano (e governo Gentiloni), al silenzio omertoso di palazzo Chigi abitato da Renzi, Gentiloni e ora da Conte sui mille e passa giorni di bugie e depistaggi che pesano come macigni sull’omicidio di Giulio Regeni l’unica a muoversi è la Procura di Roma di Pignatone e Colaiocco. I due magistrati hanno iscritto nel registro degli indagati cinque mukhabarat del regime di Al Sisi che, nel mese di gennaio 2016, pedinavano il ricercatore friulano per poi rapirlo, torturarlo, assassinarlo. Si tratta d’un atto dovuto in base alle prove raccolte dai carabinieri del Ros, pur fra ostacoli viscidi come il limo del Nilo che sia la politica, sia la magistratura egiziane hanno frapposto in trentatre lunghi mesi di reiterata reticenza. Lo spazio dell’iniziativa è insignificante da un punto di vista legale, poiché la nostra magistratura non ha giurisdizione sul crimine avvenuto nel Paese arabo, ha però indirettamente un valore se vogliamo politico. Non secondo lo schema della ‘magistratura che fa politica’ sostenuto da chi odia l’operato dei giudici perché ha reati da nascondere.
Ha una ricaduta sul piano nazionale, che ha visto governi e ministri di svariate tendenze (Pd, Ncc, e ora figure tecniche sponsorizzate dai Cinque Stelle) fare passi di sostanziale ipocrisia oppure non fare nulla per mettere politicamente alle corde uno  Stato che fa dell’assassinio e della repressione indiscriminata la sua ragion d’essere. Ha, e può avere, un risvolto anche internazionale se altre componenti della vita pubblica italiana legata a interessi economici - come le aziende di Confindustria - in accordo coi ministeri preposti, intraprendessero la via della protesta civile, che migliaia di attivisti dei diritti praticano dalla scomparsa di Regeni, chiedendo verità e giustizia sul caso. Possono farlo tramite il disimpegno economico in terra d’Egitto e nelle prospicienti coste mediterranee dove l’Ente Nazionale Idrocarburi, tanto per citare la nostra azienda più nota e prestigiosa, lavora per il miliardario affare del gas del giacimento Zohr. Tutto ciò avrebbe certamente un’eco mondiale. Secondo taluni meschini commentatori sarebbe un autogol.
Beh, la nazione delle mille ‘partite del cuore’ se solo volesse potrebbe permetterselo, poiché rinunciare a commesse in risposta a un delitto commesso diventa la più alta delle risposte morali. Questi segnali sono, e possono essere, utili per far dibattere sullo scenario internazionale sull’anomalia del governo liberticida egiziano, come dovrebbe accadere per il regime saudita che ha smembrato con la sega per ossa il corpo di Jamal Khashoggi. Di fronte a simile cannibalismo geopolitico, i leader del G20 che da domani a Buenos Aires pensano e discutono solo di monete e affari hanno essi stessi sulla coscienza la condizione delle vittime già cadute in quella spirale omicida e, non mutando l’orizzonte, delle prossime che ci finiranno. Poiché Il Cairo, come Riyadh, celano i misfatti dei molti Regeni e Khashoggi liquidati con cinismo seriale. Rompere il cerchio di tale repressione delle idee, che rappresenta il motivo portante di quegli strazi, è compito della politica, dei partiti, dei governi, che invece sempre più risultano inerti e in altri casi complici o addirittura solidali coi mandanti.

martedì 27 novembre 2018

I sussurri di bin Salman, le grida di qualche piazza


Sussurra bin Salman, ai dignitari che finora l’hanno ospitato nel Bahrein, ad Abu Dhabi e Il Cairo. Gli Stati della reazione con cui il principe in odore di omicidi stringe sempre più buone relazioni non tanto commerciali, ma geopolitiche. Quelle che l’amministrazione della Casa Bianca ha ratificato nel Medio Oriente che si contrappone alla mezzaluna sciita. Con lo sceicco Khalifa bin Zayed e il generale Sisi la sintonia repressiva è assoluta, anche quando prende la via totalmente extralegale di sparizioni sanguinarie. Mbs non s’è scrollato di dosso l’odore del sangue del giornalista nemico Jamal Khashoggi, sul cui omicidio e sulla cui sparizione del cadavere ha responsabilità dirette, ma già cerca di riproporsi al mondo come se niente fosse accaduto. L’attuale tour in alcuni Paesi arabi del Golfo e del Mediterraneo dovrebbe portarlo a fine mese anche al G20 in programma in Argentina, coi grandi della terra che s’occupano di dominio economico e strategico-militare. Bin Salman è pronto a fare la sua parte, a ogni costo.
Dopo gli abbracci ricevuti fra monarchi e presidenti dittatori l’arrivo a Tunisi in programma per il pomeriggio di oggi può produrre qualche pensiero alla popolarità del sovrano in pectore, visto che già l’immagine è in caduta libera per tutti gli intrighi legati al crimine relativo all’opinionista del Washington Post smembrato e liquefatto nell’acido. Giovani tunisini già da ieri hanno protestato per le vie della capitale contestando l’arrivo di un ospite da loro totalmente indesiderato. Non è di questo parere il vecchio presidente Essebsi, propenso alle aperture che la comunità internazionale continua a riservare al discusso saudita, che gli proporrà fra l’altro esercitazioni militari congiunte. Attivisti dei diritti sottolineano la scia repressiva di cui si rende protagonista la maggiore petromonarchia del Golfo sia nella propria società, sia con ingerenze in nazioni confinanti come lo Yemen, dove porta  guerra e favorisce la persecuzione dell’etnìa Houthi prendendola per fame.
L’infamia di bloccare gli aiuti umanitari verso questa popolazione è praticata da oltre un anno. Da parte loro attivisti politici tunisini non dimenticano i favori che i Saud hanno riservato all’autocrate Ben Ali, riparato nel Golfo con tutto il clan familiare e trascinadosi i capitali sottratti alla nazione. Sono passati otto anni e il dittatore di Tunisi, responsabile del massacro di centinaia di manifestanti in quei cortei che nel dicembre 2010 diedero avvìo alle primavere arabe, non è stato estradato. Aiutato e coperto da un regime che fa del sopruso, della coercizione, dell’intrigo, dell’assassinio di Stato un progetto per il presente e il futuro, seppure mascherato con presunte modernizzazioni. I tunisini s’indignano, vedremo se l’eco giungerà in Argentina e rimbomberà altrove. Un’attivista afferma che bin Salman dovrebbe essere inseguito, ovunque si rechi, dal disgusto e dalla rabbia dei cittadini del mondo. Non è il solo, ma è bene non tralasciare e soffocare con le grida i suoi sussurri.

martedì 20 novembre 2018

Demirtaş, galera a vita


Sordo a ogni appello di libertà il presidente turco Erdoğan ha respinto l’appello della Corte europea dei diritti umani gli aveva rivolto in merito al caso Demirtaş. Il co-presidente del Partito democratico dei popoli (Hdp) venne arrestato due anni or sono a seguito dell’estensione a ogni opposizione politica della legge marziale adottata dopo il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016. Il bersaglio primo era stata l’organizzazione gülenista diffusa in molte strutture dell’apparato statale: esercito, polizia, magistratura, istruzione, burocrazia alta e bassa. Ma accanto alle decine di migliaia di persone arrestate ed epurate dai pubblici incarichi il governo dell’Akp e il presidente in persona hanno cercato una vendetta diffusa, rivolta anche a parlamentari dell’opposizione com’è Demirtaş. A lui si attribuiscono rapporti col Partito kurdo dei lavoratori, messo al bando in Turchia e considerato organizzazione terrorista anche da Stati Uniti e Unione Europea. Per questo motivo il leader dell’Hdp è minacciato d’una pena di 142 anni di detenzione. I vertici dello Stato turco snobbano l’invito della Corte di Strasburgo, sostenendo di non sentirsi  affatto condizionati da quegli orientamenti che considerano le accuse rivolte a Demirtaş un’ingiustificata interferenza con la libertà di espressione e di opinione. Così le porte delle galere turche, che rinchiudono giornalisti, intellettuali, oltreché oppositori politici, serrano anche la libera circolazione e il ritorno all’attività politica del quarantacinquenne capo della formazione che fra il 2013 e il 2015 aveva compiuto un’avanzata diventando il terzo partito turco. Una posizione conservata al cospetto dell’elettorato da Demirtaş in persona che, pur carcerato, ha riportato l’8,5% dei consensi in occasione delle blindatissime consultazioni del giugno 2017 con cui Erdoğan ha avvìato il presidenzialismo più autoritario della storia nazionale.   

giovedì 15 novembre 2018

Sisi, le macchie d’un sistema che bisogna raccontare


Il presidente golpista egiziano al Sisi era due giorni fa a Palermo al vertice sulla Libia organizzato dal governo italiano. Sosteneva la posizione d’un militarista come lui, il generale Haftar, boss delle milizie cui s’affida la Francia per riportare ‘ordine’ nel Paese del dopo Gheddafi che nel 2011 ha contribuito a scompaginare. Un’assise che aveva ben altro a cui pensare, discutendo di macro geopolitica rispetto agli scempi che, comunque, proprio questa geopolitica provoca nelle singole comunità e realtà nazionali. E’ ovvio che nessun premier, nessun rappresentante istituzionale sia uscito dal tema, riferendosi anche a questioni che coinvolgono la vita quotidiana nei Paesi che si dice di voler aiutare. Lo potrebbe fare la libera stampa, quella odiata dai politici di ieri e di oggi. Ma al di là della levata di scudi contro gli sguaiati epiteti rivolti a quel che resta, in ogni caso, una corporazione fior fior di colleghi non hanno preso la palla al balzo per ricordare - magari con un servizio, un articolo, il semplice richiamo d’una colonna - la macchia insanguinata che il generale egiziano porta con sé, qualsiasi abito indossi.

La macchia dell’omicidio Regeni, perpetrato dai suoi collaboratori, e coperto con miserabili depistaggi dai vertici del Cairo, depistaggi e omertà che tuttora seguono il loro corso in opposizione al desiderio di libertà e giustizia richiesta dai genitori del ricercatore e da migliaia di attivisti in Italia e all’estero. Avrebbero potuto - i colleghi e le loro preziose testate che occorre difendere dagli assalti di chi ama il bavaglio - raccontare storie come quella delle ultime trentuno vittime, speriamo solo incarcerate (sic), che il ‘sistema Sisi’ ha prodotto nel grande Paese arabo. La vicenda risale solo a due settimane fa ed è stata evidenziata dalle Ong, che sempre con maggiore difficoltà denunciano la repressione diffusa in Egitto, perché da tempo anch’esse sono colpite da questa repressione. Nella notte del 1° novembre scorso la sessantenne Hoda Abdelmonem, legale presso la Suprema Corte Egiziana di Cassazione, ha subìto nella propria abitazione del Cairo l’irruzione di venti agenti della National Security Agency. E’ stata portata via senza mandato d’arresto, nonostante le rimostranze della figlia maggiore, ed è rinchiusa in una delle prigioni che “ristabiliscono l’ordine” in quel Paese.

L’avvocato veniva fermata, assieme a una trentina di persone, per aver offerto copertura legale ai familiari di individui, che egualmente erano state fermati, sequestrati e di cui non si sa più nulla. L’accusa è: attentato alla sicurezza della nazione e, nei casi più gravi, terrorismo. Prima di lei, prima del rapimento e dell’assassinio di Regeni, sono stati effettuati migliaia di sequestri illeciti, è il sistema che al Sisi ha ereditato da Hosni Mubarak, altro militare che ha usato la carica di presidente per difendere la lobby e schiacciare la popolazione che gli si opponeva. La figlia di Abdelmonem che ha assistito al sequestro, oltre a manifestare preoccupazione per la madre malata e bisognosa di cure per il rischio di trombosi, ha riferito ad amici che gli agenti cercavano in casa documenti relativi alle procedure, proprio di sparizione di persone, trattate dall’avvocato. Dopo aver perseguitato per anni l’opposizione interna, sia islamica (la Fratellanza Musulmana, ma non i gruppi salafiti) sia laica, l’attacco del regime è stato rivolto all’informazione, e ora all’attivismo dei diritti (anche dei gruppi caritatevoli) e ai legali che lo sostengono. Quando sono coinvolti soggetti noti come Abdelmonem questi sequestri riescono, in qualche modo, a venire a galla. In tanti altri casi no. Ma il silenzio risulta sempre complice.

mercoledì 14 novembre 2018

Talebani di lotta e di governo: nuovi orizzonti


Aver mantenuto per due anni segreta la scomparsa del mullah Omar, deceduto per tubercolosi a Karachi nel 2013, aveva un senso per i taliban. Provava a quietare gli animi. Alle differenze fra la componente afghana e quella pakistana dei turbanti si sommavano ulteriori spaccature e diversificazioni che sarebbero venute a galla nella successione e nei tentativi di raccordo fra i vari gruppi. Dopo l’annuncio della dipartita dell’uomo-simbolo, la Shura impiegò mesi prima d’indicare in Akhtar Mansour la nuova guida. E subito avvenne la frattura con Mohammad Rasoul staccatosi dalla maggioranza talebana, che comunque perdeva quasi immediatamente il nuovo capo, ucciso in un’imboscata dai droni statunitensi che dall’alto ne seguivano l’auto in viaggio fra Afghanistan e Pakistan. Si parlò di un’operazione gestita dalla Cia, con l’aiuto in quel caso dell’Isi pakistana, che evidentemente non gradiva la leadership prescelta dalla maggioranza degli studenti coranici armati.
Rasoul formò un organismo denominato Emirato Islamico dell’Alto Consiglio dell’Afghanistan, considerato da vari osservatori una pedina iraniana in terra afghana. Il fatto che in alcune circostanze il gruppo avrebbe simpatizzato con azioni estere dell’Isis prospetterebbe un diverso orientamento, sebbene Rasoul abbia più volte affermato che per il Daesh in territorio afghano non ci sia alcuno spazio. Ultimamente il portavoce di Rasoul, il mullah Abdul Niazi ha attaccato il dialogo aperto a Mosca fra l’Alto Consiglio di Pace Afghano e i talebani che dopo Mansour sono guidati da Akhundzada. Questi, pur considerato un mullah molto conservatore, è giunto a spedire propri rappresentanti sia in Qatar sia nella piazza di colloqui. Mansour nella sua breve vita da leader non si mostrava disposto a dialoghi, e forse anche per questo è stato liquidato.
Akhundzada sembra riprendere il doppiogiochismo del più illustre Omar, infatti i talib hanno proseguito azioni militari pur nei mesi in cui le trattative con vari attori erano (e sono) aperte. Loro risultano pur sempre più tattici dei tatticismi studiati da chi li vuole usare. Fra i grandi la Cina fa parte delle potenze consultate attorno a presente e futuro dell’Afghanistan, e per gli affari in corso (sfruttamento di giacimenti di rame e terre rare offerto per i prossimi 25 anni) s’affida al modello statunitense con tanto di governo fantoccio che patteggia una soluzione politica coi taliban purché il business prosegua. Bisogna capire quale sarà il ruolo di Mosca. La politica estera russa dell’ultimo quadriennio in Medio Oriente è risultata al tempo stesso pragmatica, cinica e vantaggiosa (per sé).
Putin ha ridato spazio alla grandezza, un tempo sovietica, seppure nel cuore dell’Asia quel passato riverberi la sua immagine peggiore, basata su invasione e scacco subìto da quella che era vista, in patria e non solo, come un’Armata invincibile. Sebbene tanti volti e pensieri, ormai passati al mondo dei più che diedero vita alla resistenza mujaheddin, divenuti poi signori della guerra e in certi casi talebani, si tramandino sentimenti anti russi, alla stregua degli attuali sentimenti anti americani, potremmo scoprire aperture del Cremlino ai fondamentalisti. Ricambiate da quest’ultimi. Nella frammentazione della galassia dei turbanti, nel doppiogiochismo della geopolitica, nella tattica dei veti e nelle dinamiche mai morte di amici e nemici fra le parti, l’orizzonte afghano potrà proporre versioni aggiornate di talebani di governo e di combattimento, a favore di potenze mondiali e regionali. E’ già successo, può continuare. Gli unici per cui tutti costoro non combattono mai sono i cittadini afghani.  

lunedì 12 novembre 2018

Taliban e governo assediano gli afghani


Sfidano le bombe che comunque scoppiano contro di loro, e stamane a Kabul hanno fatto sei vittime. Alcune centinaia di abitanti della zona ovest della capitale hanno marciato nel buio della notte per raggiungere l’area del Palazzo presidenziale e riversare il disprezzo sull’ambiguità di Ghani e del governo verso i talebani. I vari tavoli dei “colloqui di pace”, aperti negli ultimi tempi anche a Mosca con talune componenti del fondamentalismo politico, trova nei vertici di Kabul tanto sensibili alla pseudo democratizzazione del Paese dei giocatori subdoli che difendono certa geopolitica, i propri interessi, non il popolo afghano. Alla protesta partecipano i familiari di quegli abitanti di Ghazni e del distretto di Uruzgan lasciati in balìa della nuova occupazione del territorio lanciata dagli studenti coranici in armi. Da mercoledì scorso centri come Jaghori sono invasi dai miliziani che non trovano ostacoli di fronte a un esercito letteralmente liquefatto. Gli abitanti che hanno potuto sono fuggiti, chi non ce l’ha fatta è barricato in casa, ma non è detto che non subirà coercizioni. Gli elicotteri promessi da Kabul contro i turbanti per un’offensiva dal cielo, non sono mai decollati.
Anche le linee telefoniche – pur trattandosi di telefonia mobile – devono aver ricevuto un’azione offensiva dei taliban perché alcuni partecipanti alla marcia, nella quale si esponevano cartelli come “Ghani e Abdullah svegliatevi”, sostenevano di non poter raggiungere i parenti per voce. Fra costoro ci saranno, magari, impiegati dell’amministrazione statale che nella posizione ricoperta, riservano ancora speranze in una diarchia capace di agire esclusivamente alla conservazione del proprio rango. Alla disillusione la popolazione afghana, e non solo quella che versa nella povertà assoluta, è giunta da tempo. E’ la mancanza di alternative valide alla comparsata quasi ventennale della  costruzione della democrazia a rendere possibile la sopravvivenza d’un tale ceto politico. La propensione a servilismo e corruzione li trasformano nelle pedine di chi tesse la regìa di tale sfacelo: governi americani e Nato. La travagliata nazione è sospesa nel vuoto di futuro creato dai suoi avvoltoi anche quando parlano di presente. La divulgazione dei risultati elettorali, tanto per tornare su un tema trattato nelle ultime settimane, è tuttora bloccata. Quel che funziona sono solo intimazione e morte, e le bombe di stanotte possono essere solo talebano-governative.

Israele, morte da terra e cielo


Domenica di fuoco nella Striscia di Gaza, dove le forze speciali dell’Idf intervengono da terra e dal cielo, uccidono sette palestinesi, fra cui Nour Barakeh, comandante delle Brigate al Qassam di Hamas, perdono nell’assalto un loro ufficiale e coprono la ritirata oltre il confine, ormai insanguinato da mesi, con un’aviazione che distrugge abitazioni e amplia il panico fra gli abitanti. Il ritorno al passato delle esecuzioni mirate non è un cambio di rotta. Tel Aviv, col consenso della politica aggressiva di Trump verso i palestinesi mostrata con l’appoggio all’ipotesi di Gerusalemme capitale israeliana, ripresenta tutta la consolidata linea di sopraffazione: fucilazioni lungo il confine, bombardamenti indiscriminati sulla popolazione, rilancio dell’assassinio di personalità pubbliche sul fronte avverso. Al bastone si ripropone la carota e la vicenda viene trattata con dovizia di particolari sulla stampa locale.
Yedioth Ahronoth, il quotidiano più diffuso fra gli israeliani, offre ampio risalto alla nota, già trattata da altri media, dei fondi che il Qatar ha previsto per dare conforto a due tipologie di famiglie della Striscia. Le oltre cinquantamila che risultano in condizione d’indigenza e i nuclei che contano feriti su quello che è diventato un vero fronte, il confine con Israele, a seguito della marcia per il ritorno lanciata dal 30 marzo. Le conseguenti manifestazioni, soprattutto dopo la preghiera del venerdì, hanno costellato le cronache di questi mesi con centinaia di morti e migliaia di feriti fra la popolazione gazawi. L’emirato qatarino prevede di distribuire 100 dollari per ciascuna di queste famiglie. Il governo israeliano finora ha congelato l’operazione, ma adesso si registra  una diversità d’opinione fra il premier Netanyahu (favorevole) e il ministro degli Esteri (Lieberman) assolutamente contrario. Le posizioni dei due sembrano irrinunciabili, e probabilmente vanno oltre la vicenda in sé.
Introducono una competizione fra i due leader, nell’ipotesi che il fondatore di Israel Beitenu, il partito dell’ultradestra sionista su cui si regge il governo, possa definitivamente fare ombra al capo del Likud, proponendosi come futuro primo ministro. Concorrenza a parte, il patto fra i falchi Bibi e Avigdor sviluppato sul terreno dell’intransigenza, prevede sempre eccessi militari, legislativi, sociali. Può, però, incrociare tattiche differenti frutto non d’una visione ideologica, peraltro comune, ma d’interpretazione utilitaristica degli eventi. Ora il denaro che il Qatar offre di far giungere nella travagliata Striscia, secondo certa stampa israeliana, servirà anche a coprire un congruo anticipo di quegli stipendi che Hamas non riesce a elargire ai dipendenti delle strutture burocratiche di Gaza. Ne scaturirebbe un tacito accordo con Hamas per una tranquillità socio-politica. Vera o falsa che sia la notizia può non incidere più di tanto sulle turbolenze, sia per la presenza d’un terzo incomodo pur minoritario (Jihad islamica), sia perché tanta gioventù si muove da sola. E anche perché con l’attacco di ieri, la stessa Hamas è sotto tiro. 

venerdì 9 novembre 2018

Dettagli turchi sulla liquefazione di Khashoggi


HF, che in chimica sta per acido fluoridrico, è stato rilevato nel villino di Istanbul in cui risiedeva il console saudita Mohammad al-Otaibi, dal 17 ottobre rientrato a Riyadh. E’ una delle ultime scoperte che la polizia turca ha rivelato alla stampa sulle indagini in corso per la sparizione, l’omicidio tramite smembramento e la disintegrazione del corpo del giornalista Jamal Khashoggi. Tracce del potente acido sono state trovate nel luogo frequentato da uno dei sospettati, un ambiente non ripulito a dovere come lo è stato quello in cui s’è consumato il misfatto. L’HF corrode il vetro e parecchi metalli e può essere stato usato dagli assassini per decomporre i resti sezionati dal famigerato dottor al-Tubaigy che sarebbero usciti dal consolato deposti in  cassette e borse diplomatiche. La macabra processione e la procedura seguente avrebbero reso introvabile il cadavere. I campioni di materiale acquisiti dagli investigatori nei giorni scorsi sono stati messi a disposizione della procura di Istanbul. E nella conferenza stampa di ieri sono giunti dettagli sull’operazione, avvenuta nel giardino del console che, prima di rimpatriare, ha cercato d’opporsi alla raccolta di materiale in quel luogo e nel pozzo. Altri prelievi sono stati fatti nella rete di drenaggio idrico e nelle fogne sottostanti, tutti hanno evidenziato l’uso dell’acido. Giorni addietro la politica turca era tornata ufficialmente sul tema per bocca d’un politico vicinissimo al presidente Erdoğan, Yasin Aktay. Questi ha evidenziato come lo smembramento del corpo della vittima serviva appunto al suo dissolvimento. Fra i vari “viaggi diplomatici” compiuti da sauditi nella metropoli turca si annoverano, oltre a quelli del commando dell’Intelligence che ha fermato e ucciso Khashoggi, anche l’arrivo di un chimico e un esperto di tossicologia utili a provar di celare l’intervento definitivo compiuto con l’acido. I due, che erano inseriti nella delegazione di undici persone definita da Riyadh ‘gruppo investigativo’ sul caso, evidentemente non sono riusciti nell’intento.


mercoledì 7 novembre 2018

Elezioni afghane, i voti non tornano


Pur limitate dall’astensionismo, voluto o forzato, le elezioni afghane hanno dribblato gli attentati sanguinari di taliban e jihadisti più di quanto riescano a superare l’ostacolo dello spoglio elettorale. Questo è stato sempre oggetto di schermaglie fra candidati che, con stratagemmi e presenza di soggetti compiacenti nella commissione elettorale, provavano a manipolare i risultati a proprio favore. Quando tratta di elementi prossimi ai poteri forti (governi fantoccio, signori della guerra e simili) i tentativi vanno sicuramente a buon fine, a danno dei pochi politici democratici privi di quelle protezioni. Anche le tanto attese elezioni 2018 potrebbero mostrare casi del genere, ma la particolarità è fornita dalla novità introdotta dall’attuale Commissione Elettorale Indipendente: il riconoscimento biometrico dell’elettore. Un sistema adottato per evitare il primo tipo di brogli, il plurivoto, diffuso e praticato in tutti i collegi in cui taluni politici forzano la mano. Così l’inchiostro, cosiddetto indelebile, che certificava l’avvenuta operazione di voto viene sostituito dall’identificazione biometrica dell’elettore riconosciuto tramite le impronte digitali.

Purtroppo parecchi di questi macchinari indispensabili alla verifica non sono giunti nei seggi, non hanno funzionato a dovere oppure si bloccavano rallentando l’azione degli addetti che, in tanti casi, si son visti costretti a ritornare al vecchio sistema di marcatura dell’indice. Ora che si è votato come si è potuto subentra l’ennesimo scoglio. Accanto alla Commissione Elettorale Indipendente lavora una Commissione Elettorale dei Reclami, le due stanno discutendo già da tre settimane sull’attribuzione di voti a vari candidati. Preferenze contestate o ritenute dubbie rispetto alla regolarità d’identificazione dell’elettore. Si chiede di non considerare valide le schede prive del marchio biometrico, cosa che rende problematica l’assegnazione di molti voti. E ci si chiede quanto sia stato diffuso il problema. Anche qui c’è una ridda di dati, spesso contraddittori, perché i due organismi, giunti quasi ai ferri corti mescolano le rilevazioni. Una per tutte: calcolare le percentuali di rilevazione biometrica su centri elettorali e sui seggi non è la stessa cosa, visto che solo il passaggio in quest’ultimi incide sicuramente sul voto espresso. Eppure i dati s’intersecano.

Ne conseguono pasticci, già conosciuti in altre consultazioni, e non si sa quanto casuali. In un simile panorama i portavoce dei partiti si scatenano, interpretando a proprio favore le situazioni che trovano convenienti e contestandole altrove. Nei dati raccolti (sempre con beneficio d’inventario) da una Ong locale di ricercatori politici, il 90% di centri elettorali hanno effettuato l’identificazione preliminare dell’elettore, che poteva svolgersi anche nelle settimane precedenti al voto. Cinquecentoventi centri dislocati in 21 province, anche importanti come Kabul, Herat, Kunduz non hanno funzionato per problemi ai macchinari o assenza di personale. Nelle aree dove s’è votato solo il 12% dei centri elettorali hanno aperto alle 7 del mattino contro il 68% che ha avviato le operazioni in ritardo. Il direttore esecutivo della Free and Fair Election for Afghanistan, un organismo indipendente che ha monitorato le elezioni, ammette che esistono rischi concreti di invalidare, solo per questioni di princìpio riguardanti il sistema di rilevazione dell’elettore, voti comunque validi. Chi non dovrebbe rischiare la rielezione è la senatrice Belquis Roshan, ripresentatisi nel collegio di Farah. Attualmente è in quinta posizione assoluta, ma il suo rank potrebbe salire poiché chi la precede, differentemente da lei, ha voti contestati. La popolazione della provincia che l’ha sostenuta già festeggia.

lunedì 5 novembre 2018

Iran, Trump rilancia il soffocamento economico


Tornano. Con le elezioni di medio termine il clan Trump si gioca la carta sanzioni contro un nemico giurato, non necessariamente il suo, ma dell’elettorato pistolero che lui ha conquistato, al quale dà in pasto il quarantennale rivale iraniano. Anche l’America democratica lo vedeva come bersaglio per la questione nucleare, poi Obama optò per l’accordo che poteva tornar utile a una partita non più sua (era al secondo mandato) ma trasferita su Hillary, Segretario di Stato candidata alla presidenza. Lady Clinton è stata incapace di trasformare in successo due punti di forza del programma: l’accordo stesso e la questione di genere che l’avrebbe fatta prima donna alla Casa Bianca. Si sa com’è andata a finire. Ora alla pancia statunitense, alle sue viscere più oltranziste guerrafondaie, xenofobe, fondamentaliste il presidente miliardario restituisce un terreno di scontro che potrebbe non essere solo economico. Gli effetti nel Paese degli ayatollah sono già evidenti e non sembrano essere vantaggiosi per Trump. Le manifestazioni popolari a sostegno del governo e della nazione stanno mostrando una partecipazione giovanile, mentre solo un anno fa studenti e gioventù disoccupata riempivano piazze diverse, contestando Rohani, crisi monetaria e inflazione crescente. 

In realtà pur senza un embargo aperto, l’Iran sentiva egualmente, anche in fase di accordo sul nucleare, una palese stretta economica dovuta alla mancata normalizzazione delle transazioni finanziarie con ricadute in ogni settore. Era la pozione velenosa che il sistema bancario mondiale, su cui pesa ancora tanto l’influenza delle strutture del capitalismo occidentale, serviva alla nazione mediorientale, sebbene i cinque firmatari dell’accordo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia) più la Germania avessero sulla carta azzerato le sanzioni. Il contrordine avrebbe dovuto rilanciare quella cooperazione mercatile di beni e servizi utili un po’ a tutti nelle dinamiche del libero scambio o di accordi connessi, compensando il peso di quei prodotti (gas e petrolio) che fanno dell’Iran uno Stato redditiere. Nei tre anni trascorsi, fra l’ultimo periodo del mandato a Obama e il biennio trumpiano, non è stato così. Non lo è stato non solo per le nazioni occidentali firmatarie dell’accordo, ma pure per quegli alleati che lo subiscono in subordine. Come l’Italia.

L’esempio più lampante riguarda le forniture del gas. L’Iran è dopo la Russia e ben prima del Qatar il Paese con maggiori riserve mondiali. Il suo business d’esportazione è però limitato, e non tanto perché il rango di concorrenza si è ampliato e negli ultimi anni vede risalire la china i produttori di gas scisto. Proprio gli Usa con quest’antiecologica estrazione ora occupano la quarta posizione mondiale. Il dislivello fra i molti produttori sparsi nei continenti e Russia-Iran-Qatar resta comunque amplissimo, poiché la triade detiene riserve stimate in oltre cento migliaia di miliardi di metri cubi di gas. Lo scorso anno, pur con 12.9 miliardi di metri cubi di gas e 2 milioni 125.000 barili al giorno di petrolio esportati, i mercati di Teheran, che trovano recettività in giganti industriali bisognosi d’energia come Cina e India, hanno riscontrato flessioni. Il rilancio dell’embargo può scavare ulteriori solchi, specie se le potenze occidentali s’adatteranno alle smanie del presidente americano per non cadere nelle previste ritorsioni economiche rivolte a loro stesse. Frattanto le strade iraniane, dove la gente si trova inevitabilmente a discutere degli eventi, e in altri luoghi pubblici come bazar e moschee, cresce il risentimento. Ieri il capo di Stato maggiore Ali Jafari ha dichiarato a quello che definisce "lo strano presidente Usa": "Non intimidirci, non spaventarci con minacce militari". Una folla copiosa l’applaudiva.

sabato 3 novembre 2018

Lezione saudita


Dopo un mese di criminalità privata praticata, esibita e rivendicata pubblicamente l’Arabia dei Saud continua a essere sulla bocca di tanta opinione pubblica, nelle penne di molti commentatori, nei proclami della geopolitica mondiale. Anche in casa c’è chi parla del caso, seppure con morbida accortezza, ma l’ipotesi lanciata di affiancare un premier a bin Salman cade immediatamente nel vuoto, visti i suoi comportamenti liquidatori verso qualsiasi ingerenza alla propria pianificazione politica. Del resto lui non ci aveva pensato due volte a umiliare parenti prossimi e lontani e businessmen arabi, sequestrandoli per giorni in un hotel iper stellato di Riyadh al fine di estorcergli consenso sul suo operato. Ha fatto defenestrare, per ora solo politicamente, il cugino designato al trono secondo una prassi consolidata da decenni. Ha stravolto e innovato il panorama interno a suo piacimento, fino a stroncare con un omicidio truce e sanguinario un personaggio noto come l’opinionista che lo criticava. 
Chi lo conosce bene afferma che se limitato nelle mosse il principe si sentirà in gabbia e attaccherà chiunque provi a contenerne le smania di potere. Dopo l’assassinio di Khashoggi, trascorso senza intoppi, c’è chi giura che MbS anziché sospirare a fondo per lo scampato pericolo d’un suo coinvolgimento geopolitico prima che giudiziario, alzerà ancor più pretese e boria aumentando la temerarietà criminale. Proprio come sta facendo fare al Paese nel conflitto yemenita, da oltre un anno in condizione di stallo e responsabile solo di massacri di civili e crisi umanitaria. Nell’orizzonte geopolitico che ha interagito con la vicenda, Stati Uniti e Unione Europea sono troppo compromessi negli affari con la petromonarchia per troncarne i rapporti, indispensabili soprattutto per il nuovo assetto che riguarda l’area regionale dove agiscono altri alleati ferrei di Washington: Israele ed Egitto. Un fronte storico che interviene uniformemente sulla questione palestinese, mentre i sauditi risultano strategici nel contenimento della presenza iraniana nel piccolo Medioriente.
E’ così da tempo. L’amministrazione Trump ribadisce con maggiore energia quest’orientamento, passando oltre anche su un evento indifendibile come il truculento omicidio di un editorialista d’un media americano, integrato nel suo territorio; un misfatto  ammesso e archiviato dagli interessati a mo’ d’inciampo da nulla. Del resto l’alibi è trovato nella collocazione della vittima: un giornalista, categoria che i potenti accettano solo nella posizione di servitori propagandisti, che era peraltro un opinionista critico, e per ultimo ma non certo meno importante veniva tacciato d’adesione alla Fratellanza Musulmana. Questa componente è odiata dalla monarchia Saud alla stregua di come viene detestata dai militari e dai partiti laici egiziani, poiché rappresenta un nemico politico. Ma allo stato attuale è difficile pensare di sganciare l’Arabia Saudita dai mercati internazionali di idrocarburi di cui la nazione araba è un pilastro, e tutto ciò diventa il motivo portante dell’evanescenza di reazioni internazionali a un’infamia che in tal modo viene istituzionalizzata. La lezione saudita è esplicita e didascalica e in giro troverà altri interpreti.