venerdì 31 gennaio 2020

Rapporto Sigar, Afghanistan più violento


Quattro sezioni più l’appendice. Con un documento di duecentoventi pagine l’Ispettorato generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) lancia l’ennesimo allarme. Per chi non lo conoscesse quest’organismo, creato nel 2008 dal Congresso statunitense, mira a “fornire una supervisione indipendente e obiettiva dei fondi destinati alla ricostruzione” (questo almeno lo scopo dichiarato) nel Paese occupato dalle sue truppe. Il rapporto di fine gennaio, esaminando la situazione in 30 province (ne sono rimaste escluse Sar-e Pul, Samangan a nord, Nuristan a est, Daykundi al centro) afferma come negli ultimi tre mesi del 2019 le azioni violente sono ampiamente aumentate rispetto all’ultimo decennio: 8.204 attacchi, rivolti a obiettivi militari e civili, da parte dei reparti americani e delle milizie talebane. Tutto ciò mentre restavano aperti i cosiddetti accordi di pace. In realtà, e questa è una concreta spiegazione dell’incremento delle azioni belliche, nessuno dei due fronti accetta le proposte dell’avversario: da parte statunitense l’inserimento nelle trattive dei governanti di Kabul, da parte talebana l’immediata attuazione del ritiro di tutti i militari presenti sul territorio afghano. Perciò il tavolo di pace langue mentre le bocche di fuoco seminano morte. Il supervisore degli incontri, avvenuti a Doha e a Mosca, l’afghano-statunitense Zalmay Khalilzad, non è riuscito a far recedere nessuno da prese di posizioni considerate irrinunciabili.
Poi è sopravvenuto il gestaccio di Trump di bloccare gli incontri, da cui è scaturito un ritorno al conflitto da parte talebana, con conseguenti ritorsioni e caccia all’uomo di marines e contractors, quest’ultimi ormai più numerosi dei primi. Sebbene i mercenari americani siano in gran parte ex militari, magari già utilizzati in loco, per loro è cambiata la divisa non i comandi sempre coordinati da Pentagono e Cia. Proprio lo scorso settembre, in cui si sono svolte le elezioni e il cui risultato è rimasto oscurato a lungo, con conteggi e riconteggi, i turbanti hanno dato fondo a una ripresa delle guerriglia. Quelle azioni dicevano: la classe politica che Washington propone e impone per noi non ha alcun valore. I politici in questione sono gli stessi che governano il Paese dal 2014: Ghani e Abdullah, che si sono ridivisi le preferenze. La recente consultazione, cui ha partecipato il 10% degli elettori, ha fatto segnare 920.000 voti all’ex presidente e 720.000 all’ex premier, rilanciando la spartizione di ruoli e potere creata cinque anni fa. Tranne poi sentirsi accusati, e non solo dai concorrenti tagliati fuori dalla corsa, dei soliti brogli. Perciò sembra un mantra conosciuto il capitolo del rapporto che parla della corruzione, nella quale, sia detto o meno, è coinvolta quella politica che la Casa Bianca ha promosso dai tempi di Bush jr e Obama, prima con Karzai quindi con la diarchia Ghani-Abdullah.
Nulla di nuovo nel modello ritrito e ormai stantìo con cui si cerca di mascherare un’occupazione, che potrebbe continuare anche col ritiro militare. E i capitoli che trattano le cosiddette “donazioni”, i fondi stanziati per la mai realizzata ricostruzione del Paese, possono avere letture ben differenti dagli allarmi che sollevano. La citata corruzione che - e l’abbiamo visto per oltre un decennio - lega le massime autorità al doppio filo dell’eversione politica e delle ruberie. Come definire altrimenti durante la “reggenza” Karzai, gli scandali di Kabul Bank in cui erano coinvolti suoi sodali? E gli affari di traffico d’oppio del clan di famiglia, con un fratello rimasto ucciso nelle faide con altri clan che godevano del business dell’eroina? Tutto con la protezione, interessata per ragioni di denaro, di signori della guerra (Fahim, Khalili) collocati in alte cariche statali, allora come poi è avvenuto con Dostum. Niente cambia sotto l’ombra dell’Hindu Kush, e quelle tre generazioni di afghani che hanno cosciuto solo guerra e morte, per sfuggire a questi eventi continuano a fuggire nelle rotte migranti diffuse ovunque nel mondo. E francamente non possono che risultare stonate le note delle pagine del documento Sigar che sostengono come “la pazienza statunitense e di altri donatori sta svanendo”. Il filo rosso che lega certe donazioni è un tutt’uno col sistema politico promosso che vive esclusivamente di corruzione e soprusi. Ed è purtroppo un filo rosso di sangue che vede molti colpevoli, portatori di armi o di denaro. 

domenica 26 gennaio 2020

Di Segni: “Io, militare in Israele respiravo cultura, non odio”


Davanti all’odierna intervista a Noemi Di Segni, presidente delle Comunità ebraiche italiane, realizzata da un navigato e appassionato cronista del Corriere della sera, qualcuno sentirà un senso di straniamento. Già come lettore mi son trovato di fronte a un’incompiuta per talune domande e soprattutto per certe risposte. Sia chiaro: ogni giornalista imposta l’intervista come crede, e l’interlocutore risponde su quel che crede. Però siamo davanti a una ripetuta tendenza da parte dei convinti israeliani, quale la Di Segni è, di leggere la realtà secondo la propria visuale e raccontarla secondo interessi di parte. La carrellata dei ricordi s’avvia da Gerusalemme dove la presidente, nella vita affermata commercialista, è nata nel 1969. Dunque due anni dopo l’occupazione da parte dell’esercito israeliano della città delle tre religioni monoteiste, più le varie confessioni di fede cristiana. La signora ricorda “… la fluidità con cui si passava da una parte all’altra della città, a bordo dell’autobus numero 4…”. L’intervistatore insiste sul concetto di fluidità e su quello di convivenza fra comunità “… E’ possibile la coabitazione fra diverse famiglie e origini ebraiche accanto ad altre realtà. A Gerusalemme ci si sfiora, tutti diversi… Un insegnamento importante, significativo: si può convivere mantenendo la propria identità nello stesso luogo, anche se molto stretto. Senza colpirsi. Senza aggredirsi”.
Parole encomiabili, che però sembrano riferirsi ad altre epoche. Dopo l’occupazione dei militari di Tsahal, nel giugno 1967, la presenza delle “altre realtà” (le famiglie palestinesi che avevano resistito alla Nakba, quelle di religione cristiana, armena) decennio dopo decennio sono diminuite. I vari governi d’Israele, di cui la signora è orgogliosa esponente nel World Jewish Congress, hanno incentivato lo sradicamento delle comunità che da secoli vivevano a Gerusalemme, favorendo unicamente insediamenti ebraici come quello della famiglia Di Segni, originaria, a detta del Corsera, di Roma e Torino. Dunque italiana, un’appartenenza di cui la presidente è fiera e noi con lei. Ma questo è un nodo su cui con tanti sionisti, sostenitori dello Stato d’Israele, ogni discorso diventa vano. Perché costoro sostengono il diritto al ritorno nella terra dei padri, quello che negano alla diaspora palestinese, una diaspora provocata peraltro dalla nascita, nel 1948, di Israele. In più basta vederla Al Quds. Basta vedere Gerusalemme est, il quartiere dove i residui del popolo arabo vivono. Solo lo scorso anno lì il governo israeliano ha ordinato la distruzione di 169 abitazioni, lasciando senza casa 328 palestinesi. Secondo un rapporto del Land Reserch Centre, fra il 2000 e il 2017 in quell’area della città 9.422 famiglie arabe hanno visto la demolizione della propria casa. In Cisgiordania - lo “Stato” palestinese nato dagli accordi di Oslo - la distruzione di abitazioni palestinesi ammonta dal 2006 a 1.525 unità. E’ questa la convivenza pensata da Israele?
Gli oltre 400.000 palestinesi che vivevano nella città santa prima dell’occupazione militare sono diventati 340.000. Mentre il numero di coloni ebrei, cittadini di altre nazioni, continua a crescere e con esso gli insediamenti giudicati illegali dai maggiori organismi mondiali (Consiglio di Sicurezza Onu, Corte internazionale di Giustizia) tanto che da tempo si parla di ebraizzazione della città. Nei ricordi del passato la presidente Di Segni si supera col servizio militare svolto “…nel gruppo dell’Intelligence. Un insostituibile allenamento culturale. Non l’odio verso il nemico. Una parola che non ho mai, dico mai, sentito in due anni. C’era sempre un concetto di difesa, di tutela…” Se lei lo dice, sarà accaduto. Però la storia di Shin Bet, Mossad, Tsahal, la storia d’Israele dice anche altro. In tanti casi cose per niente onorevoli. Nelle migliori situazioni parla di soprusi, vessazioni, torture, come testimoniano da decenni le cronache che coinvolgono la popolazione palestinese. Non solo i suoi leader politici, i militanti o i gruppi armati. Gente comune colpita, anche a morte, solo per il fatto d’essere palestinese, in quella scellerata equazione di arabo eguale terrorista grazie a cui Sharon ha costruito il Muro dell’apartheid parlando di difesa. Un concetto tutto militare, ripetuto anche da Noemi Di Segni. Un sentimento che riporta alla mente la pratica di combattimento Krav Maga, messa a punto dall’addestratore militare israeliano Imi Lichtenfeld. Anche questa tecnica definisce difesa l’attacco, e può prevedere l’uccisione del potenziale avversario.

venerdì 24 gennaio 2020

L’Egitto torturatore e l'anniversario di Tahrir


Mentre il parterre internazionale con Putin, Erdoğan, Macron, Merkel, sino al premier italiano Conte, era nei giorni scorsi in fibrillazione sulla questione libica e conduceva trattative coinvolgendo il carceriere dell’altra sponda mediterranea il presidente-golpista Al Sisi, in Egitto il 2019 s’era chiuso con la notizia della prima donna morta in prigione. Decesso avvenuto prima di Natale nel penitenziario di Al Qanater, famigerato come Tora, ed entrambi al Cairo. Ad Al Qanater – come denunciano associazioni dei diritti umani – sono concentrate molte detenute “politiche”, che poi sono persone non necessariamente impegnate in ruoli ufficiali e ufficiosi, ma donne punite per il contributo alla difesa di diritti, avvocatesse e attiviste perseguitate che s’aggiungono ad altre arrestate da tempo. Nomi noti e meno. Su taluni media stranieri, perché quelli egiziani ormai ‘normalizzati’ e resi afoni tendono a tacere ogni misfatto del regime, era finita Aisha Shater, figlia di uno dei capi storici della Fratellanza Musulmana. Lui arrestato nel novembre 2013, assieme a Badie e altri esponenti di vertice della Confraternita, lei cinque anni dopo. Poi la ragazza era stata ricoverata in ospedale per le pericolose conseguenza d’uno sciopero della fame. Era il mese di ottobre 2019 e la prigione Al Qanater diventava sempre più uno dei luoghi di perdizione per chi ci finiva dentro.
Le pratiche, non dissimili da quelle di altre galere messe su dalle Forze Armate d’Egitto, vedono un incremento di coercizioni criminali. Torture innanzitutto, fisiche e psicologiche. Quelle sofisticate che promettono e cancellano il barlume d’una possibile liberazione in cambio di denaro e  prestazioni sessuali. Quelle grevi fatte con cavi elettrici sui genitali, stupri da parte di secondini mascherati, abominevoli e perverse violenze con strumenti di tormento. Schifezze dittatoriali, suprematismo machista, razzismo di genere che mirano a soffocare il dissenso femminile. Del resto se il sistema di terrore messo su dal raìs egiziano - che viene coccolato dalla politica globale perché torna comodo al riordino del Medio Oriente - non guarda in faccia neppure nomi noti del recente passato come quello di Aboul Fotouh, pensiamo cosa può accadere a persone qualsiasi. Fotouh, oltre a essere un noto medico, è stato un esponente prima della Fratellanza poi leader di più d’un raggruppamento e nel 2012 candidato alla presidenza, prima di diventare un detenuto. Ora è un carcerato che rischia la pelle. Quest’estate suo figlio ne denunciava ripetute crisi cardiache lasciate senza cura, non da secondini senza cuore ma dalle massime autorità di governo che, magari, ne auspicano una dipartita simile a quella dell’ex presidente Morsi. Questo il clima dell’Egitto seviziato e dimenticato. Queste alcune delle vicende su cui i potenti voltano pagina.
Domani ricorre il nono anniversario della Tahrir della speranza. Una parentesi, un sogno conquistato con fiumi di sangue (846 vittime) nei diciotto giorni che squassarono il clan Mubarak, non il suo sistema. E men che meno quello della lobby militare che, infatti, a breve lo sostituì e proseguì a orientare il Paese fino a riprenderne possesso. Domani qualche indomito oppositore può pensare se non di manifestare, perlomeno di mostrarsi. Poiché di coraggio i libertari egiziani ne hanno da vendere, qualcuno lo farà. Così gli avvocati dei diritti scampati alla repressione indicano un vademecum minimo di autotutela. Invitano a non camminare per via per lunghi tratti, evitare l’uso di metropolitana e bus, consigliano di utilizzare un’auto privata oppure prendere un taxi. Poi ovviamente di evitare di portare con sé il telefono mobile. Chi intendesse farlo dovrà cancellare dalla memoria foto personali e ogni immagine, numeri telefonici, indirizzi email, messaggi, applicazioni di social media. In quell’immensa, triste, grigia galera ch’è diventata il grande Paese arabo sono bastati anche piccoli pretesti per infilare nel perverso incastro di reclusione-liberazione-reclusione decine di migliaia di giovani ingenui i cui cellulari sono serviti alla polizia per incastrare un’infinità di loro amici. Innocenti colpevolizzati per aver ricordato che la gente di Tahrir, nello storico inverno 2011, chiedeva libertà e giustizia per quel nuovo Egitto che non è mai nato.

venerdì 17 gennaio 2020

Iran, il sermone della Guida Suprema


La Guida Suprema Ali Khamenei è intervenuta oggi a “guidare” la preghiera del venerdì a Teheran. Non accadeva dal 2012. L’epoca in cui il suo legame col partito dei Pasdaran, aveva liquidato Ahmadinejad e la fazione dei basij che cercava di emarginare il peso del clero. I Pasdaran, che pure pensavano di riportare gli ayatollah fuori dalle decisioni politiche nazionali, scelsero di proseguire il connubio che viaggia nel tempo e rappresenta il fulcro del blocco conservatore dominate. Stamane migliaia di fedeli sciiti e delle Istituzioni della Repubblica Islamica hanno ascoltato le parole dell’uomo che da molto più di Khomeini dirige la politica iraniana. Investito del ruolo dal Ruhollah, il quale nel 1989 prima di morire promosse l’allora cinquantenne Khamenei alla massima carica di controllo del Paese, carica introdotta col discusso velayat-e faqih (il cosiddetto governo del giureconsulto). Non sarebbe toccato a lui quell’incarico, poiché era un semplice hojatoleslam (un religioso di medio rango). Il delfino designato era Ali Montazeri un mari’a-e taqlid, nello sciismo un titolo che spetta a pochi ayatollah, detti appunto “fonte d’imitazione”. Però per Khomeini il compagno di studi e di lotta Montazeri non doveva essere imitato in quelle critiche lanciategli addosso  per la prosecuzione della guerra con l’Iraq e per la severità con cui venivano comminate pene capitali. Dunque, via l’uno, dentro il conservatore Khamenei, che poi condivise il potere nel Paese col solido Rafsanjani, esponente della fazione prammatica.
Rafsanjani ebbe due mandati presidenziali, fino al 1997, con cui introdusse importanti passi di liberismo economico, di cui chierici fondamentalisti non volevano sentir parlare. Intanto Khamenei imponeva la sua lunga mano su vitali organismi della Repubblica Islamica: il Consiglio dei Guardiani, che ammette i candidati alle elezioni; e l’Assemblea degli Esperti, che designa la Guida Suprema e può esautorarla. Da trent’anni Khamenei è l’ombra presente in ogni apparato iraniano. Legandosi a strutture diventate potentissime, come quella della forza dei Pasdaran, che collocano i propri uomini ai vertici delle Forze Armate, della politica, dell’economia. Controllare chi può essere ammesso alle elezioni è l’anticamera per avere nel Majlis (il Parlamento) deputati favorevoli alle decisioni da prendere. Guidare le bonyad (le fondazioni, le più note sono: Mostazafan Foundation e Relief Committee) vuol dire avere nelle proprie mani l’economia nazionale. Un’economia densa di contraddizioni, di cui gli embarghi di Obama e di Trump dovuti al nucleare sono solo un aspetto. L’altro è legato all’uscita dalla posizione di dipendenza dalle formidabili risorse energetiche, questione che prima il decennio di guerra con Saddam, quindi i contrasti interni fra conservatori e riformisti, poi il tema del nucleare e la conflittualità regionale, hanno tenuto a lungo congelata. Khamenei, limitato nei movimenti d’un braccio per un attentato subìto, è da anni dato per pronto alla dipartita. Un’operazione alla prostata nel 2014, in cui gli venne asportato un tumore, lo considerava spacciato. I nemici internazionali e interni diffondono periodicamente voci della sua morte, eppure la Guida Suprema continua a restare al suo posto e dirigere gli assai variegati orientamenti politici.
Nel sermone di stamane il vecchio ayatollah, ma non vecchissimo visto che fra i tradizionalisti si contano ultranovantenni, ha riportato l’attenzione sull’attacco ricevuto con l’assassinio del generale Soleimani. Un’azione criminale che ha indebolito le Guardie della Rivoluzione, da cui è seguito l’amarissimo errore dell’abbattimento dell’aereo ucraino che “fa bruciare i nostri cuori”. Questo afferma l’uomo che decenni di politica hanno mostrato come impassibile e che il mondo ha visto lacrimare davanti alla salma dell’amatissimo comandante pasdaran, uno dei martiri più illustri della patria. Così la folla che assiste alla preghiera-comizio più che pregare maledice il nemico statunitense, quello che da quarant’anni attenta alla libera azione del Paese, e le grida “Morte all’America” risuonano come sfogo e monito. La Guida vuole ricompattare la popolazione pur davanti alle copiose proteste dell’ultimo biennio e alle contestazioni dei giorni scorsi. “Assassini” “dimissioni” hanno urlato in centinaia e migliaia. A essi Khamenei contrappone i due-tre milioni che hanno pianto per Soleimani, lanciando quasi un’improbabile sfida numerica. Non sarà questa a decidere il futuro. Più delle migliaia dei giovani contestatori, pesano le recenti dimissioni delle tre giornaliste, rigorosamente velate come richiedono agenzie e tivù di Stato, ma pentite d’aver retto l’iniziale pantomima del regime sull’incidente. Solo se inizieranno le defezioni dei fedelissimi, la partita fra i fronti pro e contro il sistema potrà mutare gli assetti finora conosciuti.

martedì 14 gennaio 2020

Rohani: Tribunale speciale per l’aereo abbattuto


Chi siano i responsabili da punire per il “tragico errore” dell’abbattimento dell’aereo di linea ucraino, non è ancora chiaro. Quale sarà la punizione è un enigma ancora più grosso. Evidentissimi i motivi scanditi in un pubblico intervento dal presidente iraniano: “perché il mondo intero sta guardando”, “perché questo non è un caso come gli altri”, “perché chiunque debba essere punito, sarà punito”. E sarà un Tribunale speciale con esperti e un giudice d’alto rango, promette Rohani, a svolgere indagini ed emettere sentenze. Secondo quanto dichiarato da un portavoce governativo ci sono già degli arresti, ma non trapela di più. La sua informativa parla anche di alcune detenzione per manifestazioni definite “illegali”, quelle che sono state riscontrate in diverse città e filmate anche con video amatoriali postati su alcuni social media. Il governo le ha distinte da quelle “legali”. Tutte però mostrano prevalentemente giovani adirati che ripetono slogan, gridando “assassini” e “dimissioni”. Le nuove proteste rimbalzano sul web, per ora non sono copiose né come altre già avvenute, né come quelle del lutto nazionale per l’assassinio del generale Soleimani. Sono, però, vive, presenti, coraggiose in un momento di altissima tensione, di sbandamento della stessa componente dura e forte della politica interna (i pasdaran), di difficoltà delle massime autorità del regime, dalla Guida Suprema al presidente.

L’opposizione si chiede se l’ala dura dei Guardiani della Rivoluzione si guarderà dal fare nuove vittime per via, e spera che la cittadinanza, pur volendo difendere il Paese da ingerenze imperialiste, incrini il potere degli ayatollah, fondamentalista e riformista, e punti a voltare pagina, a laicizzare la nazione. Ma i laici conservatori, inquadrati fra i basij o meno, tale separazione dalla ‘sfera protettrice’ del clero difficilmente potranno praticarla. C’era stato un parziale precedente. Nel secondo mandato di presidenza di Ahmadinejad una fazione basij ne sosteneva una tendenza non proprio anticlericale ma un po’ antisistema (lui riceveva l’appoggio dell’ayatollah Yazdi sul movimento Hojatiye che con posizioni mistiche contesta l’affarismo capitalistico). Con questo passo Ahmadinejad s’inimicò la Guida Suprema e incappò in una serie di accuse di corruzione rischiò condanne e cadde in una sorta di congelamento politico. I pasdaran rincararono la dose: fra il 2017 e 2018 accusarono l’ex presidente di tramare contro il governo fomentando le proteste scoppiate in quella fase. Seppure Ahmadinejad avesse il dente avvelenato per l’ostracismo ricevuto, il suo fronte d’opposizione è uno, e magari non certo il più importante, al forte connubio che dirige il Paese: ayatollah (conservatori e moderati) e Partito dei pasdaran. Spezzarne la fitta rete d’intrecci e interessi economici, legati alle fondazioni, ai rapporti diplomatici sul fronte politico-militare-geostrategico mediorientale, anche nella difficile fase del rilanciato embargo non sembra semplice. E’ la scommessa lanciata dall’opposizione, anche quella delusa che aveva appoggiato Rohani, e che da due anni gli sta voltando le spalle.

sabato 11 gennaio 2020

Iran, pasdaran da assassinati ad assassini


Dunque è stato un missile ad abbattere il Boeing 737 della Ukraine International Aerlines, venuto giù mercoledì scorso subito dopo il decollo dall’aeroporto internazionale di Teheran. Le prove prodotte dal premier canadese Trudeau, a nome dei 63 connazionali morti nel disastro, rappresentate da immagini acquisite dall’Intelligence del suo Paese, apparivano inconfutabili. Un missile lanciato dalle Forze dell’aeronautica iraniane, una delle strutture dei Pasdaran, che temevano un attacco a una propria caserma. Ora il comandante di quelle Forze Ali Hajizadeh, dice di “voler morire” per gli effetti dell’errore umano, ammesso ufficialmente con tanto di rammaricate scuse anche dalle massime autorità del Paese, la Guida Suprema Khamenei e il presidente Rohani. Contro di loro già si scaglia la rabbia di tanti giovani. Coloro che protestavano di recente per il caro benzina e generalmente contro il regime clericale. Coloro che non hanno partecipato agli accorati tre giorni di lutto che hanno accompagnato, una tappa dopo l’altra, la salma del generale Soleimani in varie località. Probabilmente protesta anche una parte di chi ha partecipato al profondo cordoglio, ma non comprende né accetta un simile accadimento.
Un “errore umano” di quella dimensione dove condurrebbe il Paese in uno stato d’assedio? Gli iraniani desiderano difendere la patria da ipotetici o reali assalti nemici, ma devono fidarsi dei propri reparti. Quest’ultimi non possono cadere nel panico temendo le ombre di quella normalità che hanno voluto conservare nonostante la crisi in corso con gli Stati Uniti. Infatti era stata proprio l’Aeronautica militare di Teheran a non voler chiudere lo spazio aereo, e da quella decisione la popolazione s’attendeva un’efficienza che invece è mancata. Farebbe bene a morire tante volte quante sono le vittime il comandante  Hajizadeh, che assieme alle massime autorità sono al centro delle ire di quei giovani che rivendicano le vite degli 82 iraniani morti, e ovviamente di tutti gli altri passeggeri, finiti come Qassem Soleimani, ma per mano non del Satana statunitense, bensì per quel che c’è di satanico nella guerra minacciata e in quella strisciante che, peraltro i leader massimi, in questi giorni cercavano d’attenuare. Eppure nella strana esplosione del volo di linea, quando i vertici iraniani si defilavano sostenendo di non voler consegnare le scatole nere, mentre comparivano i sospetti d’un abbattimento, riemergeva una spaccatura nel Paese appena cementato dal lutto.
E nonostante il ministro degli Esteri Zarif rilanci il quasi alibi del clima d’assedio creato da Washington, e Trump risuoni le trombe degli attentati che Soleimani avrebbe preordinato, sembra quasi inverosimile che il regime di Teheran ammetta le proprie responsabilità. Altri governi, in vari momenti, hanno sempre e solo negato. In Oriente, in Occidente e in casa nostra. Forse l’apparato dei Pasdaran, che pregustava un’avanzata d’ulteriore potere interno davanti all’affronto americano che ha privato la strategia militare, politica e diplomatica interna d’un personaggio di peso come il capo della Brigate Al Quds, ha subìto lo sbando d’un errore tanto  macroscopico. Ora il malcontento riaccusa tutti: chierici, guardie della Rivoluzione, Istituzioni che dovrebbero difendere la nazione, l’economia, la gente e l’esistenza di tutti e invece mostrano buchi, carenze, omissioni di cui si pentono in ritardo. Una folla nelle strade della capitale urla contro la Guida Suprema, chiede le dimissioni del presidente, vuole un cambio di passo e di sistema. Contro di loro la polizia spara per ora lacrimogeni, nelle scorse settimane aveva usato proiettili. Aveva represso e ucciso, incarcerato e vietato, come fanno altri regimi. Gli stessi che gli ayatollah vogliono aiutare (a Damasco, a Baghdad) e lì (Beirut e San’a’) dove appoggiano la grande famiglia sciita. Ma intanto la porta di casa brucia. E non solo per le follìe omicide del Satana Trump. 

venerdì 10 gennaio 2020

Afghanistan, droni assassini e Resolute Support


Colpito, esploso, bruciato. Ieri un leader talebano è finito come il generale Soleimani, disintegrato da un drone statunitense nella provincia occidentale afghana di Herat. Si chiamava Nangyalay, era un mullah. Ma un deputato del Consiglio provinciale ha ricordato che nell’azione “mirata” sono rimasti uccisi anche sessanta civili. Si registra anche un numero imprecisato di feriti. I missili lanciati sono stati numerosi e hanno investito l’area abitata di Shindand. Il capo talib ucciso apparteneva alla fazione del mullah Rasool. L’operazione rientra nelle iniziative della missione Resolute Support che ha cinque anni di vita e con cui la coalizione Nato presente sul territorio sostiene di “contribuire ad addestramento, assistenza e consulenza delle Istituzioni e delle Forze di Sicurezza afghane, al fine di facilitare le condizioni per la creazione di uno stato di diritto, Istituzioni credibili e trasparenti e, soprattutto, di Forze di Sicurezza autonome e ben equipaggiate, in grado di assumersi autonomamente il compito di garantire la sicurezza del Paese e dei propri cittadini”. Queste intenzioni sono naufragate da tempo. Il rendimento sul campo dell’Afghan National Army, nonostante il reclutamento che ha raggiunto picchi portando il numero dei militari a 350.000 unità, è sempre risultato scarso.
Nelle azioni di conflitto aperto - come gli attacchi talebani che nel 2016 hanno prodotto la presa della città di Kunduz, ripetuta anche nella scorsa estate, o la sequela di attentati anche nelle aree più controllate della capitale - ha visto i reparti afghani impreparati e inefficienti. C’è da pensare che il Resolute Support costituisca l’alibi con cui gli Stati Uniti continuano la propria presenza militare nel Paese, dove sono state approntate undici basi aeree di controllo e attacco, appunto coi droni, verso l’intera regione. Di rimando c’è il coinvolgimento degli alleati Nato per iniziative improntate al solo vantaggio geostrategico statunitense. Attualmente 41 nazioni, contribuiscono coi propri soldati alla missione che conta attorno alle 16.000 unità. L’Italia è presente con 900 fra ufficiali e sottufficiali della Brigata aeromobile Friuli, dell’Aeronautica e Marina e dei Carabinieri. 148 i mezzi terrestri più 8 aerei dislocati fra Kabul e appunto la zona di Herat. Ed è attiva anche in quelle operazioni di controguerriglia contrassegnate dalle cosiddette Task Force numerate. Quest’ultime dirette esclusivamente da comandi statunitensi, in alcuni casi neppure della US Army, ma dai vertici della Cia, vengono rivolte negli ultimi tempi contro i miliziani dell’Isis e i taliban.
Ma ci son stati diversi episodi in cui gli “obiettivi” erano civili definiti combattenti. Nel settembre 2010 il tenente, post mortem capitano, Alessandro Romani, incursore parà del ‘Col Moschin’, impiegato nella ‘Task Force 45’ rimase ucciso in un’azione in corso nella provincia di Herat (a Bakawah) rivolta alla cattura di presunti terroristi. Quest’ultimi mutano identità nel testo che ha accompagnato la motivazione del conferimento d’una medaglia d’oro alla memoria da parte dell’Esercito Italiano “… nel tentativo di catturare degli insorti intenti a posizionare un ordigno esplosivo sul ciglio della strada…”. Lo scorso anno cinque militari italiani sono stati protagonisti di un avvenimento non letale per loro, ma egualmente tragico per le ferite e le conseguenti amputazioni che i militari hanno dovuto subire. Si trattava sempre di incursori, inseriti in una Task Force, numero 44, di cui lo Stato Maggiore italiano e gran parte della stampa mainstrem hanno celato la vera dinamica. Il reparto venne colpito da un ordigno esplosivo non nel corso d’un pattugliamento, bensì durante la caccia a miliziani dell’Isis. Un’azione di guerra come le molteplici compiute dalle truppe del Resolute Support. Un risoluto sostegno alla guerra. 

martedì 7 gennaio 2020

Soleimani, un funerale da Ashura


Lutto, pianto, disperazione e morte. Di altri iraniani, accanto al capo supremo delle Brigate al Quds. Così dopo il tributo d’una folla immensa - uno-due milioni di persone per le vie di Tehran come all’epoca del rientro di Khomeini dall’esilio - la salma di Soleimani, passando per la città santa di Qom, è giunta a Kerman per la sepoltura. Lì s’è verificato una sorta di martirio collettivo. Sono morti in trentacinque nella calca attorno alla sua bara portata in processione nella città. Le vittime potrebbero addirittura aumentare: note d’agenzia comunicano anche il grave ferimento di almeno cinquanta persone. Le vie strette che conducono al cimitero, dov’era previsto l’ultimo saluto al comandante, non hanno contenuto la massa di cittadini, molti dei quali venivano da altre località. E nel muoversi concitatamente taluni sono rimasti intrappolati e schiacciati. Una tragedia nella tragedia, che testimonia comunque la partecipazione di massa a un evento che segnerà il futuro prossimo nel Paese e nella regione. Le lacrime del solitamente impassibile Ali Khamenei, il sentimento di rivalsa verso un atto considerato terroristico non solo dall’ala dura dei Pasdaran e dall’intero establishment governativo, compresi i diplomatici Rohani e Zarif, segnano un fattore che inciderà sulla linea politica futura.

Se s’è detto che il presidente Trump abbia usato quest’azione omicida, certamente col benestare del Pentagono e lo zampino della Cia, per lanciare la campagna elettorale del prossimo novembre, per lui dagli esiti incerti, ma prossimamente si voterà anche in Iran. A febbraio sono previste le politiche, nella primavera 2021 le presidenziali. In quest’ultime il pacifico Rohani non correrà. Soleimani poteva addirittura risultare la candidatura laica, e dall’orientamento tutt’altro che radicale, per una carica non strategica, ma sicuramente di prestigio internazionale per la visibilità e gli inevitabili contatti cui è destinata. Anche con quella parte del mondo, l’Occidente d’oltreoceano e quello europeo, che hanno a lungo demonizzato l’Iran. Occorrerà comprendere se l’espressione più oltranzista della politica di quel Paese, sia clericale (gli ayatollah ultraconservatori), sia in divisa (le Guardie della Rivoluzione) che a inizio Millennio aveva scelto un elemento come Ahmadinejad, riproporranno soluzioni estremiste. Dopo l’archiviazione del riformismo di Khatami, e l’emarginazione, con tanto di spinta repressiva dei suoi epigoni (Moussavi, Karroubi) la spaccatura interna, non più latente, era apparsa in più occasioni. Con l’Onda verde del 2009, con le proteste di massa dell’inverno 2016.

Il superamento degli effetti dell’embargo sul nucleare non si sono mai registrati. La distensione dell’accordo pattuito con l’amministrazione Obama è stata formale e non ha prodotto l’attesa normalizzazione economica. Anzi. L’incrudimento delle sanzioni attuate da Trump, con l’intento di esasperare gli animi degli iraniani contro la propria classe dirigente, avrà pure rafforzato le convinzioni degli anticlericali interni, ma non ha sfondato nella massa della popolazione. Almeno per quel rovesciamento del regime auspicata dalla diaspora dei dissidenti. Certamente il Paese è diviso. La destabilizzazione mediorientale, sviluppatasi attorno al conflitto siriano, dal 2013, quello yemenita, dal 2016, con al centro lo scontro con lo Stato Islamico, ha prodotto un’accelerazione armata iraniana in vari punti della regione, con costi elevati per le proprie dissestate finanze. Ma il coro protestatario contro le spese militari che penalizzano i bisogni sociali interni può affievolirsi e bloccarsi davanti alla sicurezza nazionale. L’aggressione reale avvenuta, quelle minacciate - non si sa se con semplici risvolti teatrali o con drammatiche future attuazioni - stanno ricompattando il popolo iraniano. Che pensa innanzitutto a difendere confini e interessi patri, e valutare nemici e alleanze presenti e future.

sabato 4 gennaio 2020

L’Iran piange il figlio della Rivoluzione Islamica


L’orrendo foco della pira, cui è stata ridotta l’auto su cui viaggiava il generale iraniano Soleimani appena sbarcato all’aeroporto di Baghdad, è l’immagine impressa nella mente di milioni di iraniani. L’hanno vista e rivista sulla tivù di Stato e sono scesi in strada in decine di migliaia, a Tehran e in molte città, piangendo e urlando una rabbia infinita. Per la morte di quello che definiscono un figlio della Rivoluzione khomeinista, e un fratello che ha combattuto con loro. Loro sono i tanti volti che sfilano, sessantenni o poco più, i basij, gli ex combattenti della ‘generazione del fronte’ che ha creduto negli ideali di giustizia e parità sociale, nel riscatto dei mostazafin. Quanto di questi ideali sia rimasto nei decenni di consolidamento del regime dei chierici è da verificare, poiché il Paese ha attraversato periodi di guerra civile e consenso quasi totale, di conservazione e riforme. Con un filo rosso di contestazione laica mai sedato. Un elemento ha finora riunito le varie anime iraniane: il rifiuto dell’imperialismo incarnato dagli Stati Uniti. Quello che oggi, nel volto e nell’azione del presidente maramaldo, Donald Trump, colpisce alle spalle un sistema da sempre ritenuto nemico. Ma lo scontro ora tracimato in attacchi omicidi, ha avuto negli ultimi tempi altra arma affilata e velenosa: l’embargo. Doveva essere cancellato con l’accordo sul nucleare perorato dalla presidenza Obama e raccolto da quella Rohani, superando la contrapposizione creatasi con le amministrazioni Bush jr contro Ahmadinejad.

Eppure la promessa normalizzazione non è mai giunta. Negli ultimi quattro anni le strutture “occidentali” della finanza mondiale anziché regolamentare le transazioni di denaro da e verso l’Iran le hanno tenute bloccate, come durante il periodo dell’embargo e tutt’al più le hanno rallentate, con disagi non indifferenti. Un discorso generalizzato che vale per le grandi aziende statali, sia per le bonyad controllate da ayatollah e pasdaran, e poi a caduta su tutto: dalle attività medie e piccole di imprenditori, a quelle dei bazari. Insomma, uno strumento di pressione e soffocamento dell’economia, utile anche a riscaldare gli animi e creare malcontento popolare. Diffuso e trasversale, come ha potuto costatare chiunque si sia recato in quel Paese anche solo per turismo. Non solo i cambiavalute in nero di certe piazze finanche centrali, ma tassisti, operatori alberghieri, venditori d’ogni genere, loquaci giovani sui bus confermavano quest’orientamento e le difficoltà conseguenti. Poi sono giunte le penali trumpiane e la situazione è precipitata. Il moderato presidente Rohani, che grazie a quell’accordo s’era giocato la rielezione, è stato oggetto delle contestazioni dell’inverno 2017 e di quelle recenti del rincaro del carburante. Con le nuove sanzioni il bilancio iraniano perde due terzi delle risorse scaturite dal commercio degli idrocarburi e questo, in un’economia di “Stato redditiere” mai del tutto emancipata, crea un dissesto spaventoso innescando inflazione, carovita, disoccupazione.

Ma si registrano perdite anche in altri settori. Fonti come Financial Tribune ma anche Forbes registrano la cancellazione di contratti per varie merci: quasi 40 miliardi di dollari per aerei mercantili, mezzo miliardo per tappeti, 850 milioni per pistacchi e ancora caviale e vetture per trasporto merci. Insomma un disastro per affari e lavoro. Per la minore circolazione di capitale interno le casse statali – mentre proseguiva il sostegno solidale alla grande famiglia sciita mediorientale, un impegno diventato bellico in Siria e Yemen – hanno dovuto affrontare problemi di bilancio limitando o azzerando le spese sociali interne. Da qui le voci di dissenso alle campagne militari estere che giovani contestatori del regime hanno agitato nei mesi scorsi. Ora questo malcontento potrebbe passare in secondo piano, sebbene nulla sia scontato. Intanto la Baghdad sciita ha onorato la salma del comandante Soleimani con migliaia di cittadini in strada. Chi in quel Paese non ama l’ingerenza iraniana, guardava i funerali di soppiatto. Ma doveva osservare anche le truppe statunitensi in tenuta di guerra che presidiavano gli obiettivi sensibili, cui presto s’aggiungeranno altri 3.500 marines in partenza per quello che Washington ridisegna come un fronte. Domani la salma dell’ex capo delle Brigate Al Quds giunge a Mashhad. Funerali di Stato, da eroe e martire, presso il mausoleo dell’Imam Reza.   

venerdì 3 gennaio 2020

Trump fa assassinare Soleimani


Se la follia può orientare la geopolitica la scelta comune di Trump e del Pentagono di uccidere a Baghdad il generale Qassem Soleimani, capo della Forza Al Quds (i reparti d’eccellenza dell’esercito iraniano) e l’uomo di fatto più potente della nazione dopo la Guida Suprema Ali Khamenei, è un passo che aiuta nuove escalation di guerra. Ampliando i conflitti locali già in corso, quelli che da tempo divorano vite inermi in Siria, Yemen e in Iraq. E quelli che si preparano su scenari devastati, come in Libia, dove le truppe di Ankara invaderanno non uno Stato sovrano, bensì una terra diventata di nessuno, ovvero divisa fra uno statista-fantoccio (Fayezal Serraj) e un signore della guerra (Khalifa Haftar) con il benestare della comunità internazionale. Così Trump avrebbe fatto uccidere un uomo-simbolo di una nazione nemica per lanciare una volata lunga sulla Casa Bianca, che l’impeachement subìto potrebbe ostacolare, perlomeno nell’ombra lanciata sul suo ruolo politico. Da baro incallito Trump cerca un recupero usando l’arma che unisce il Paese delle armi e incendia la prateria mediorientale. Ma stavolta non è solo. A decidere che il drone statunitense alzasse la posta con quest’omicidio - definito dal ministro degli Esteri di Teheran “un atto di terrorismo internazionale” che, aggiungono i connazionali, non resterà impunito - ci sono i generali del Pentagono.
E allora nel mondo geopolitico che verrà, di cui si discute alla luce di quanto accaduto nel primo Ventennio, c’è da riconsiderare quanto si è avuto davanti agli occhi negli ultimi tempi. Gli Stati Uniti non sgombrano le occupazioni di vari angoli del mondo. Si celano dietro conflitti combattuti da alleati, schierano mercenari al posto di marines, agiscono solo dal cielo senza sporcarsi gli scarponi con fango e sangue proprio, comunque seminano ingerenza, distruzione, morte. Le recenti differenze rispetto al secolo scorso è che su alcuni scenari non sono più soli. S’è fatta sotto la Russia putiniana, e nel caos mediorientale c’è lo scontro fra le potenze regionali. L’Iran è fra queste, nella lotta non solo a distanza con l’Arabia Saudita, ma la vera protagonista, sempre più inquietante e invadente, non solo metaforicamente, è la Turchia. Che Erdoğan ha plasmato secondo suoi voleri e che a maggioranza continua a essergli fedele. Tornando allo scenario destabilizzante creato dall’agguato mortale a Soleimani, che ha eliminato anche il comandante delle truppe irachene Abu Mahdi al-Muhandis, vicino alla struttura militare iraniana, accanto ai tre giorni di lutto nazionale occorrerà capire se quest’omicidio produrrà nel Paese quel compattamento che gli iraniani riscontrano quando sono colpiti dall’esterno.
Soleimani era un capo militare, ma con lui e dietro di lui c’è il partito dei Pasdaran che talune piazze, non necessariamente foraggiate dalla Cia, contestano. Di sicuro scatteranno le dure rappresaglie che Khamenei ha già annunciato. L’eco militare di vendetta è nelle parole e nei piani del comandante delle Guardie della Rivoluzione Mohsen Rezaei, che rivendica per l’amico Soleimani ucciso l’alto profilo di martire della Rivoluzione. Dunque il futuro si ripropone come il passato. Usa e Iran si rimpalleranno il ruolo di Grande Satana, accusandosi di terrorismo e praticando operazioni militari rivolte anche a figure-simbolo, come l’assassinio di Soleimani dimostra. Interessate tutte le polveriere in fiamme e quelle già esplose, con Israele prigioniero d’uno sfrontato uomo della guerra qual è Netanyahu. Paese nuovamente nel mirino e pronto ai  raid, che verso i più deboli, come i palestinesi di Gaza, non ha mai smesso.