Dunque è stato un missile ad abbattere il Boeing 737 della Ukraine International Aerlines, venuto
giù mercoledì scorso subito dopo il decollo dall’aeroporto internazionale di
Teheran. Le prove prodotte dal premier canadese Trudeau, a nome dei 63
connazionali morti nel disastro, rappresentate da immagini acquisite
dall’Intelligence del suo Paese, apparivano inconfutabili. Un missile lanciato
dalle Forze dell’aeronautica iraniane, una delle strutture dei Pasdaran, che
temevano un attacco a una propria caserma. Ora il comandante di quelle Forze
Ali Hajizadeh, dice di “voler morire” per gli effetti dell’errore umano,
ammesso ufficialmente con tanto di rammaricate scuse anche dalle massime
autorità del Paese, la Guida Suprema Khamenei e il presidente Rohani. Contro di
loro già si scaglia la rabbia di tanti giovani. Coloro che protestavano di
recente per il caro benzina e generalmente contro il regime clericale. Coloro
che non hanno partecipato agli accorati tre giorni di lutto che hanno
accompagnato, una tappa dopo l’altra, la salma del generale Soleimani in varie
località. Probabilmente protesta anche una parte di chi ha partecipato al
profondo cordoglio, ma non comprende né accetta un simile accadimento.
Un “errore umano” di quella dimensione dove condurrebbe il Paese
in uno stato d’assedio? Gli iraniani desiderano difendere la patria da
ipotetici o reali assalti nemici, ma devono fidarsi dei propri reparti.
Quest’ultimi non possono cadere nel panico temendo le ombre di quella normalità
che hanno voluto conservare nonostante la crisi in corso con gli Stati Uniti. Infatti
era stata proprio l’Aeronautica militare di Teheran a non voler chiudere lo
spazio aereo, e da quella decisione la popolazione s’attendeva un’efficienza
che invece è mancata. Farebbe bene a morire tante volte quante sono le vittime
il comandante Hajizadeh, che assieme
alle massime autorità sono al centro delle ire di quei giovani che rivendicano
le vite degli 82 iraniani morti, e ovviamente di tutti gli altri passeggeri,
finiti come Qassem Soleimani, ma per mano non del Satana statunitense, bensì
per quel che c’è di satanico nella guerra minacciata e in quella strisciante
che, peraltro i leader massimi, in questi giorni cercavano d’attenuare. Eppure
nella strana esplosione del volo di linea, quando i vertici iraniani si
defilavano sostenendo di non voler consegnare le scatole nere, mentre
comparivano i sospetti d’un abbattimento, riemergeva una spaccatura nel Paese
appena cementato dal lutto.
E nonostante il ministro degli Esteri Zarif rilanci il quasi
alibi del clima d’assedio creato da Washington, e Trump risuoni le trombe degli
attentati che Soleimani avrebbe preordinato, sembra quasi inverosimile che il
regime di Teheran ammetta le proprie responsabilità. Altri governi, in vari
momenti, hanno sempre e solo negato. In Oriente, in Occidente e in casa nostra.
Forse l’apparato dei Pasdaran, che pregustava un’avanzata d’ulteriore potere
interno davanti all’affronto americano che ha privato la strategia militare,
politica e diplomatica interna d’un personaggio di peso come il capo della
Brigate Al Quds, ha subìto lo sbando d’un errore tanto macroscopico. Ora il malcontento riaccusa
tutti: chierici, guardie della Rivoluzione, Istituzioni che dovrebbero
difendere la nazione, l’economia, la gente e l’esistenza di tutti e invece
mostrano buchi, carenze, omissioni di cui si pentono in ritardo. Una folla
nelle strade della capitale urla contro la Guida Suprema, chiede le dimissioni
del presidente, vuole un cambio di passo e di sistema. Contro di loro la
polizia spara per ora lacrimogeni, nelle scorse settimane aveva usato
proiettili. Aveva represso e ucciso, incarcerato e vietato, come fanno altri
regimi. Gli stessi che gli ayatollah vogliono aiutare (a Damasco, a Baghdad) e
lì (Beirut e San’a’) dove appoggiano la grande famiglia sciita. Ma intanto la
porta di casa brucia. E non solo per le follìe omicide del Satana Trump.
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