Lutto, pianto, disperazione e morte. Di altri
iraniani, accanto al capo supremo delle Brigate al Quds. Così dopo il tributo
d’una folla immensa - uno-due milioni di persone per le vie di Tehran come
all’epoca del rientro di Khomeini dall’esilio - la salma di Soleimani, passando
per la città santa di Qom, è giunta a Kerman per la sepoltura. Lì s’è
verificato una sorta di martirio collettivo. Sono morti in trentacinque nella
calca attorno alla sua bara portata in processione nella città. Le vittime
potrebbero addirittura aumentare: note d’agenzia comunicano anche il grave
ferimento di almeno cinquanta persone. Le vie strette che conducono al cimitero,
dov’era previsto l’ultimo saluto al comandante, non hanno contenuto la massa di
cittadini, molti dei quali venivano da altre località. E nel muoversi
concitatamente taluni sono rimasti intrappolati e schiacciati. Una tragedia
nella tragedia, che testimonia comunque la partecipazione di massa a un evento
che segnerà il futuro prossimo nel Paese e nella regione. Le lacrime del
solitamente impassibile Ali Khamenei, il sentimento di rivalsa verso un atto considerato
terroristico non solo dall’ala dura dei Pasdaran e dall’intero establishment
governativo, compresi i diplomatici Rohani e Zarif, segnano un fattore che
inciderà sulla linea politica futura.
Se s’è detto che il presidente Trump abbia usato quest’azione
omicida, certamente col benestare del Pentagono e lo zampino della Cia, per
lanciare la campagna elettorale del prossimo novembre, per lui dagli esiti
incerti, ma prossimamente si voterà anche in Iran. A febbraio sono previste le politiche,
nella primavera 2021 le presidenziali. In quest’ultime il pacifico Rohani non
correrà. Soleimani poteva addirittura risultare la candidatura laica, e dall’orientamento
tutt’altro che radicale, per una carica non strategica, ma sicuramente di
prestigio internazionale per la visibilità e gli inevitabili contatti cui è
destinata. Anche con quella parte del mondo, l’Occidente d’oltreoceano e quello
europeo, che hanno a lungo demonizzato l’Iran. Occorrerà comprendere se
l’espressione più oltranzista della politica di quel Paese, sia clericale (gli
ayatollah ultraconservatori), sia in divisa (le Guardie della Rivoluzione) che
a inizio Millennio aveva scelto un elemento come Ahmadinejad, riproporranno
soluzioni estremiste. Dopo l’archiviazione del riformismo di Khatami, e
l’emarginazione, con tanto di spinta repressiva dei suoi epigoni (Moussavi, Karroubi)
la spaccatura interna, non più latente, era apparsa in più occasioni. Con
l’Onda verde del 2009, con le proteste di massa dell’inverno 2016.
Il superamento degli effetti dell’embargo sul nucleare non si
sono mai registrati. La distensione dell’accordo pattuito con l’amministrazione
Obama è stata formale e non ha prodotto l’attesa normalizzazione economica.
Anzi. L’incrudimento delle sanzioni attuate da Trump, con l’intento di
esasperare gli animi degli iraniani contro la propria classe dirigente, avrà
pure rafforzato le convinzioni degli anticlericali interni, ma non ha sfondato
nella massa della popolazione. Almeno per quel rovesciamento del regime
auspicata dalla diaspora dei dissidenti. Certamente il Paese è diviso. La
destabilizzazione mediorientale, sviluppatasi attorno al conflitto siriano, dal
2013, quello yemenita, dal 2016, con al centro lo scontro con lo Stato
Islamico, ha prodotto un’accelerazione armata iraniana in vari punti della
regione, con costi elevati per le proprie dissestate finanze. Ma il coro
protestatario contro le spese militari che penalizzano i bisogni sociali
interni può affievolirsi e bloccarsi davanti alla sicurezza nazionale. L’aggressione
reale avvenuta, quelle minacciate - non si sa se con semplici risvolti teatrali
o con drammatiche future attuazioni - stanno ricompattando il popolo iraniano.
Che pensa innanzitutto a difendere confini e interessi patri, e valutare nemici
e alleanze presenti e future.
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