lunedì 28 gennaio 2019

Talebani in marcia verso il governo, tremano le donne


L’inviato speciale Khalilzad - dopo sei giorni di fitti colloqui in Qatar coi talebani e nella possibilità d’un vicino accordo, su indicazione del suo boss  il Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo -  è atterrato a Kabul. Deve parlare col presidente Ghani e convincerlo che ciò che i taliban vogliono: escluderlo da qualsiasi funzione attiva in merito al possibile accordo, sia un bene per l’intero Paese. Cesserebbe, almeno sulla carta, un conflitto durato 17 anni e tre mesi, sebbene resti ancora aperta la questione del ritiro delle truppe straniere. Un altro punto su cui la guerriglia non transige e che vede da ieri l’Italia possibilista con la ministra Trenta. Ma certe decisioni non si prendono a Roma, sarà Washington a valutare la chiusura del Resolute support. Ai talebani risulta più praticabile non fornire aiuti sul proprio territorio al jihadismo di Qaeda e dell’Isis, seppure sul tema devono pronunciarsi anche i gruppi fratelli e rivali sostenuti dal Pakistan. Comunque per questa concessione i turbanti richiedono l’ingresso di propri rappresentanti in un governo a interim, notizia riferita da fonti talebane e non confermata da nessun portavoce americano. Gli informati sostengono: ancora per poco. E’ sicuramente questo l’ennesimo boccone avvelenato che Khalilzad offre a un presidente fantoccio, sempre più bistrattato dalla Casa Bianca.

Il faccia a faccia di questi giorni a Kabul potrà fornire ai colloquianti di Doha, che hanno già fissato un nuovo appuntamento per il 25 febbraio, il polso della situazione nei palazzi della capitale afghana, non a caso in questa fase risparmiati da  autobombe e kamikaze. Ma la tregua potrebbe non durare a lungo. O Ghani si sottometterà del tutto alla strategia tratteggiata dagli Usa, con tanto di sua personale marginalizzazione e umiliazione o probabilmente torneranno gli assalti nel cuore della città, anche in quella maggiormente vigilata. Del resto la parte talebana più intransigente prosegue le offensive in periferia e punta a firmare un accordo di pace col massimo controllo territoriale. Attualmente  è presente  nella metà delle province, e il controllo tende a crescere e vuole crescere. Washington ha fatto capire a Ghani che il patto di pacificazione è alternativo alle elezioni. E il presidente, che puntava a rilanciare il suo incarico in occasione del rinnovo elettorale, non ha davanti a sé margini di trattativa, inviso ai taliban e snobbato dagli americàn. In un recente viaggio estero, con conferenza stampa in Svizzera, ha dovuto ammettere che dall’inizio della sua presidenza (2014) hanno perso la vita in agguati e attentati ben 45.000 fra militari e poliziotti.

Chi maggiormente si dispera per quanto  appare all’orizzonte sono le donne, anche quelle note che siedono in Parlamento. Vedono che la regressione è nell’aria. Finora le pochissime attive in ruoli professionali, negli spostamenti, oltre a vestire il tradizionale burqa, dovevano essere accompagnate da un maschio di famiglia. Per non parlare delle più elementari condizioni esistenziali, anche muoversi per andare al mercato prevedeva quel genere di scorta. Le cose potranno peggiorare. Già sono partite le lamentele di non fare del processo di pace un obiettivo da conseguire, ancora una volta sulla pelle delle donne. Ma chi può garantirlo? Non l’attuale governo messo ai margini dai due dialogati e sempre servile coi fondamentalisti. Gli stessi uomini favorevoli al dialogo che lavorano con lo staff di Khalilzad non s’occupano certo di diritti e diritti di genere. Dovrebbero farlo i talebani folgorati sulla via di Kabul? E’ difficile pensarlo. Così il ritorno al passato è dietro ogni angolo, seppure non si dimentica come sotto Karzai e Ghani le limitazioni alle scuole per bambine e ragazze sono stati frequenti, l’hanno testimoniato per anni ong locali come Afceco. Mentre le case rifugio di Hawca per donne abusate subivano persecuzioni dai democratici governi locali, sostenuti dall’Occidente.

venerdì 25 gennaio 2019

Güven, fame di libertà


La protesta estrema, a rischio vita, ha dato i suoi frutti. Leyla Güven, membro e deputata del Partito democratico dei popoli, l’aveva attuata dallo scorso 7 novembre: uno sciopero della fame per protestare contro l’isolamento cui è sottoposto il leader del Pkk Abdullah Öcalan. Lei era stata arrestata nel gennaio 2018 per il sostegno dato a manifestazioni contro la repressione turca verso le enclavi kurde del nord della Siria, il territorio del Rojava autogestito dalla comunità e difeso militarmente dagli attacchi dell’Isis e negli ultimi mesi dello stesso esercito turco. Per queste operazioni la Güven non faceva sconti alla linea della fermezza attuata da Erdoğan e non faceva sconti a se stessa, praticando lo sciopero nel carcere turco dov’è reclusa. Un gesto che non è rimasto isolato. Giorno dopo giorno, altri 150 militanti e attivisti kurdi solidali con lei dentro e fuori le carceri, a Erbil e in altre località, hanno attuato la medesima azione. Anche il cuore dell’Europa ne è stato coinvolto e la seconda sede del parlamento europeo, Strasburgo, ha visto schierarsi dottorandi kurdi che lì lavorano sulla stessa linea d’una cosciente determinazione: non mangiare per la Güven, per Öcalan e per tutti i detenuti kurdi. Dopo undici settimane di sciopero la cinquantacinquenne deputata risultava in pericolo di vita, così un magistrato ha disposto la sua scarcerazione. Nel frattempo, l’attenzione riportata su Öcalan ha prodotto una deroga all’isolamento e lo storico detenuto (è nel carcere speciale di İmralı dal 1999, dopo la cattura a Nairobi da parte di agenti del Mıt che ebbero la collaborazione degli allora premier tedesco Schröder e italiano D’Alema) una dozzina di giorni fa ha potuto ricevere una visita del fratello.

giovedì 24 gennaio 2019

Verità e giustizia per Giulio Regeni, anno terzo


Per quanto tempo ancora si parlerà dell’omicidio di Giulio Regeni? Sicuramente fino a quando i caparbi genitori saranno in vita. Finché gli amici e il movimento spontaneo formatosi in questi anni sul suo orrendo caso ne sventoleranno ancora gli striscioni gialli, che anche amministrazioni pubbliche determinate hanno esposto davanti a sedi istituzionali. Uno striscione magari ritoccato, perché aveva nel tempo smarrito uno dei due princìpi che si rivendica per quello strazio: giustizia. Chiedere giustizia è un atto profondamente politico. Domanda allo Stato egiziano quell’approccio che non ha mai manifestato davanti all’oscura vicenda. Non saranno i comuni d’Italia, né Amnesty International fattasi promotrice della campagna, a riuscire a inchiodare il presidente al Sisi di fronte a responsabilità dei suoi apparati di sicurezza che risultano implicati nel rapimento, nell’efferata tortura, nell’assassinio del ricercatore friulano.  Direttamente neppure i governi italiani che in questi tre anni si sono succeduti possono a imporre alcunché agli omologhi d’oltre Mediterraneo. Chiedere giustizia sì. Possono, anzi debbono.

Lo potevano i premier Renzi e Gentiloni che, invece, dopo un inziale azione chiarificatrice hanno abbandonato ogni volontà di difesa anche della memoria d’un cittadino che ha finito i suoi giorni seviziato da sgherri di Stato. Lo può l’attuale presidente del Consiglio Conte che, invece, non s’occupa affatto della questione, al più delegando alla terza carica dello Stato, Roberto Fico, un appello ai Parlamenti d’Europa “per trovare la verità”. Meglio di niente, ma praticamente niente. Perché non è su questo terreno che l’Egitto risponde. Anche l’interruzione dei rapporti fra il Parlamento italiano ed egiziano (il dittatore Sisi conserva ancora il simulacro della democrazia rappresentativa) serve a poco. Diverso sarebbe l’interruzione dei rapporti diplomatici, durata un batter di ciglia nel 2016, e ovviamente ancor più il blocco di quelli commerciali. Ma tutto questo i governi italiani di prima, col Pd, e d’ora, con Cinquestelle e Lega, non lo fanno, perché Confindustria preme e gli interessi dei giganti dell’economia come l’Eni ancor più. Forse non si tratta neppure di don Abbondio della politica nostrana, che “il coraggio non se lo posson dare”.

I nostri politici sono cinici, di tante questioni se ne fregano. Valutano esclusivamente quelle che hanno un ritorno: elettorale, d’immagine, d’interesse, per quanto sull’interesse privato confezionano abitini  pubblici, lo mostrano i favori fra i leghisti ladroni della prim’ora (il clan Bossi) e l’attuale leadership d’un Carroccio che dalla Padania viaggia per tutta la penisola. E guarda ovviamente all’estero. A quelle terre dove imprese grandi e piccine della cosiddetta ‘Italia del fare’ fanno i propri affari. E’ qui che i legami fra Italia ed Egitto si saldano ancor più, anziché fermarsi per chiarire ragioni di Stato sull’omicidio d’un italiano nella capitale d’un Paese sedicente amico, da parte di poliziotti e agenti segreti egiziani che eseguivano ordini provenienti da apparati nazionali. Non solo le Istituzioni, i politici d’Egitto stanno impedendo da tre anni lo sviluppo d’indagini, la stessa magistratura locale non collabora con quella italiana e la ostacola come denunciato dai procuratori romani. Questo è il regime di al Sisi, che i Regeni d’Egitto li ha iniziati a far sparire, incarcerare, uccidere da molto tempo prima del nostro concittadino. E prosegue nell’opera. Se questo è un governo amico, chiediamo ai nostri governanti quale verità, quale giustizia si potranno ottenere.  

martedì 22 gennaio 2019

Egitto, la lunga mano dei servitori di al Sisi


La lunga mano dello staff del generale golpista al Sisi è da tempo presente sul web, come sanno e testimoniano i blogger egiziani cacciati e perseguitati su questo terreno. Gli spioni informatici usano i cosiddetti troll, temine mutuato da quei personaggi mitologici delle leggende scandinave che si portano dietro una fama demoniaca. Nella comunità virtuale di Internet il troll è uso disturbare, irritare, provocare. Fra le funzioni che possono dargli talune polizie informatiche trasversali (ovviamente non solo egiziane) c’è quello di seminare qualcosa di più della zizzania. Il web è diventato il luogo dove viaggiano notizie, contatti, controinformazione. E ovviamente bufale. Poiché sul tema delle falsità la provocazione dà il meglio di sé, accusare, con un vizio di proiezione, qualcuno di diffondere fandonie è impresa facile per i distruttori dell’informazione alternativa. Costoro non sono solo dispettosi folletti di saga, hanno volti pur coperti se pensiamo ai social, da falsi profili. Però sempre rivolti al gioco della calunnia, che è sì un venticello, come meditava con voce profonda Don Basilio, ma se lasciata agire fa stordire e fa gonfiare fino a esplodere col classico colpo di cannone.
E’ questa la finalità, non certo sorretta da fine scaltrezza, dei corvi e delle cornacchiette del web che in questi giorni che s’approssimano al terzo anniversario dell’assassinio di Giulio Regeni insinuano e denigrano chi segue dai primi giorni della rivolta di Tahrir il desiderio di cambiamento di milioni di egiziani.  La rabbia repressiva dei raìs militari che si succedono al potere e del loro apparato di fanatici sostenitori, l’accettazione passiva da parte di un’altra fetta di quella popolazione che ha provato a ribellarsi, ma ora ha paura e tace. Tace per quieto vivere, per non trovarsi seviziata e sepolta viva nelle carceri speciali, per non finire ammazzata per via o nei luoghi segreti dove giovani e adulti vengono deportati. Ricordare quest’Egitto reale, che viene taciuto da troppi media, infastidisce la propaganda di regime che attacca con ogni mezzo la narrazione documentata dei delitti del presidente al Sisi. Il sanguinario attore della svolta reazionaria d’Egitto che l’opportunismo geopolitico occidentale ha assolto, per aggregarlo nello schieramento dei leader di ferro che piegano presente e futuro di Maghreb e Mashreq. E mentre s’addita chi denuncia tali scempi, già s’è detto che Giulio Regeni era: un profittatore, una spia, un gay, un doppiogiochista, un suicida.  

domenica 20 gennaio 2019

L’oscuro orizzonte della repressione di Sisi


Cos’hanno in comune Gika, Shady, Stokoza, Taher? La più brutta delle cose: la galera. E che galera, le carceri speciali che gli procura il presidente Sisi e quella repressione con cui opprime la grande nazione araba. Il suo pensiero fisso è rivolto alla gioventù d’Egitto. Fa di tutto per intimorirla, perseguitarla, angosciarla,  rovinarle presente e futuro. Lo fa in maniera sistematica da cinque anni, forte del consenso d’una parte del Paese che si piega ai militari perché li ha in famiglia, ci lavora grazie ai mille gangli che le Forze Armate hanno nell’economia egiziana. Oppure perché si schiera con chi possiede le leve della forza. Il resto dei cittadini - l’altra metà della nazione, laica o islamica che sia -  hanno sotto gli occhi l’operato del golpismo autorizzato del generale Sisi e si stanno ricredendo. Però ora hanno difficoltà a dissentire. Non gli è permesso, anzi se solo provano a evidenziare una disobbedienza al sistema corrono rischi altissimi e protratti nel tempo.


Ahmed Gika, che ora ha ventidue anni, venne fermato per la prima volta cinque anni fa da un gruppo di poliziotti in un controllo routinario. Gli sequestrarono il poco denaro che aveva in tasca e il cellulare, spulciando fra i suoi contatti. Gli agenti volevano sapere dove vivesse. Da quel momento lo tennero sotto controllo e quando incappò in una nuova retata venne picchiato e condotto in una stazione di polizia. Fu trattenuto lì per alcune settimane, quindi trasferito in un campo di detenzione dopo un interrogatorio effettuato da tre procuratori che lo accusarono di aver manifestato. Venne a sapere che per tornare in libertà avrebbe dovuto pagare una multa di 100.000 lire egiziane (circa 5.000 euro). Ma Ahmed, che studia informatica all’università, proviene da una famiglia proletaria, il padre lavora nei campi, la madre è una casalinga, in casa non c’è una cifra simile con cui riscattarlo. Resta, dunque, recluso fino all’esaurimento della pena. Nel 2017 se ne sta seduto in un caffè assieme a tre amici.

Rispunta un manipolo di agenti della Sicurezza nazionale che li insulta, li picchia e li trasferisce nell’ennesima stazione di polizia. Senza conoscere le accuse i quattro vengono interrogati da un magistrato che gli infligge quattro mesi di detenzione. Quattro ciascuno. Quest’altalena fra fermi, uscita su cauzione impossibile da pagare, detenzione e rischi di finire in un giro repressivo peggiore assilla Gika da mesi e non gli permette di proseguire gli amati studi con cui proverebbe a emanciparsi da un lavoro manuale come quello paterno. Però nell’Egitto di Sisi si finisce dentro anche se si è benestanti. Il caso del blogger Shady Abu Zeid, la cui famiglia appartiene alla buona borghesia cairota, va a confermarlo. Quel che dice e scrive Shady non è gradito ai controllori di regime, così il giovane s’è ritrovato i mukhabarat alle calcagna ed è stato arrestato. La repressione segue percorsi interclassisti, se non sei ossequioso verso il modello militare rischi comunque. Così anche l’artista Ahmed Stakoza ha conosciuto le stazioni di polizia, dove non si staziona con le mani in mano.

Queste spesso sono legate dietro la schiena. Se ci si agita, oltre a subìre una “battitura tranquillante”, si finisce appesi a testa in giù, mani e piedi legati, nella posizione definita del pollo, assai in uso nelle galere sul Nilo. Il regime, che ha a cuore la sorte della gioventù ribelle, si rivolge anche ai professionisti, è il caso del medico Taher Mokhtar, trattenuto, maltrattato, arrestato come le ‘teste calde’. Niente niente questi professionisti avessero in mente di seguire le orme degli attivisti, e giornalisti, e avvocati dei diritti che anni addietro manifestavano in ricordo della Thawra del 25 gennaio 2011.  Potrebbero tuttora finire come Shaima al-Sabbagh, colpita a morte e deceduta fra le braccia del consorte, mentre con un gruppetto di socialisti pensava di deporre fiori a Tahrir per celebrarne i martiri. Era il 2015 e il clima molto è peggiorato da quei giorni di per sé mortali e insanguinati. L’anno seguente, nel buio del Cairo rivisitato dal generale Sisi, spariva Giulio Regeni che da mesi cercava di capire cosa stava diventando quel Paese. Una storia già scritta nel sangue dal 14 agosto 2013, diventata mese via l’altro sempre più oscura. Oggi, accanto agli scomparsi d’Egitto, marcisce una gioventù malversata e oppressa cui occorre dar voce e aiuto.   

mercoledì 16 gennaio 2019

Sparire al Cairo, una mattina


Dopo esser stata reclusa in luoghi segreti che non sono prigioni, dov’era stata condotta da agenti della National Security Agency con un prelevamento forzato, l’avvocato dei diritti l’egiziana Hoda Abdel Moneim è comparsa ieri davanti a un giudice. L’udienza non ha avuto conseguenze, ha semplicemente rimandato l’accusata a una nuova comparizione. Ma accusata di cosa? Di aver difeso altri accusati: attivisti dei diritti, spesso giovani e addirittura minorenni, colleghi e giornalisti, che sono le categorie oramai sotto il tiro del regime che per anni s’è sfogato con gli oppositori. Ma la sessantenne Hoda ha un’altra colpa: essere moglie d’un collaboratore del deposto presidente Morsi, anche per questo è finita nella retata lanciata con zelo dagli apparati della “sicurezza” contro i familiari di membri della Fratellanza Musulmana finora risparmiati dalla repressione. Ovviamente dietro input del ministro dell’Interno Ghaffar, il mandante col generale Sisi dell’omicidio del Regeni italiano e dei molti Regeni d’Egitto.

La fama di legale battagliera e di donna coraggiosa sta preservando Hoda da trattamenti peggiori, quelli denunciati dai suoi stessi assistiti (violenza e tortura), ma la mattina del 1° novembre quando una squadra di mukhabarat ha visitato la sua abitazione a Nasr City, sobborgo del Cairo, non è stata certo riguardosa della privacy. Lo testimoniano le foto scattate successivamente dalla figlia che qui pubblichiamo, e le sue domande su dove conducessero la madre sono rimaste per settimane senza risposta. La polizia non ha concesso informazioni neppure a Human Rights Watch, che coi suoi avvocati aveva chiesto i motivi delle retate che fra la fine di ottobre e i primi di novembre scorsi avevano provocato il fermo e la sparizione di un’ottantina di persone. L’ong internazionale, tramite suoi canali, aveva constatato il prelevamento certo di quaranta. Di altri non si sa neanche il nome. Sono attivisti, avvocati e familiari di esponenti della Fratellanza Musulmana. Qualcuno era parente di leader famosi, come nel caso di Aisha Khairat al-Shater, figlia del vicepresidente della Confraternita e famoso imprenditore, fra i primi del Gotha del partito islamista a finire ai ferri.

Essere anche solo conoscente di qualche militante della Brotherhood diventa un pericolo. Ma la stessa vita quotidiana, i momenti privati, gli incontri, i convivi, seppure svolti in luogo appartato, vengono perseguitati cosicché chi li vive desista definitivamente da frequentare gente e posti. Denunce di avvenimenti come quello descritto ad alcuni volontari che monitorano la violazione dei diritti dell’uomo sono ricorrenti. La scorsa estate, nel pieno centro della capitale egiziana, mentre erano riuniti in un locale apparentemente sicuro, un club privato, alcuni esponenti dell’opposizione a Sisi che banchettavano con amici e parenti hanno dovuto subìre l’irruzione d’una ventina d’energumeni. Questi li hanno minacciati, hanno rovesciato stoviglie e sedie, messo a soqquadro l’intera tavolata. I camerieri del locale rimanevano impietriti, la direzione non ha opposto resistenza né protestato. I presenti non si son fatti irretire dalla provocazione, immaginando che una reazione gli avrebbe creato danni ben peggiori con l’arresto. Si può supporre che gli energumeni fossero agenti in borghese. Molto più facilmente si tratta dei famigerati baltagheya, picchiatori da strada di cui la polizia si serve per intimidire persone e incastrarle con aggressioni dirette e indirette. 
 

martedì 15 gennaio 2019

Supercoppa italiana di calcio: l'olezzo dei soldi


La vicenda della Supercoppa italiana di calcio da giocarsi nuovamente all’estero - e che estero: quell’Arabia Saudita da anni al centro di polemiche per quanto fondamentalismo wahhabita finanzi, per quanta repressione interna e nella regione mediorientale produca - ripropone il meschino orizzonte del tornaconto di certe istituzioni sportive. In questo caso la Lega Calcio di serie A, nata un decennio addietro da una scissione, voluta dai Paperoni del pallone, dell’antica Lega Nazionale Professionisti che viveva dal secondo dopoguerra. Ricordare quest’operazione pilotata dai grandi club che disdegnavano la “zavorra” delle società di provincia, diventa necessario per capire il presente. Sempre più orientato sull’affarismo sfrenato che usa lo sport come un alibi, tanto da non risolvere i cento e uno problemi che affliggono un sistema dove ormai si praticano: riciclaggio, frode sportiva e non, doping, evasione fiscale, copertura di fenomeni violenti attuati da frange politiche neofasciste infiltrate fra le tifoserie. Coi governi e il Parlamento nel ruolo di Ponzio Pilato. In realtà buona parte di questi veri e propri tumori del calcio e dello sport, erano presenti anche prima della riforma del 2010, e riguardano soprattutto le grandi società. Ora la Lega, guidata da un presidente-banchiere rampollo d’una potentata famiglia palermitana, porta la finale fra Juventus e Milan nella cittadella dello sport che gli sceicchi sauditi hanno creato a 60 km dalla città di Gedda. Lo fa per interesse. Quel Paese, reso ricchissimo dai petrodollari a tal punto farli pesare potentemente nella geopolitica mondiale, offre ingaggi da capogiro per ospitare ogni sorta di manifestazione che serve fra l’altro a far familiarizzare il mondo degli spettatori con una nazione dai costumi a dir poco reazionari. Eppure nel gruzzolo milionario, ancor più golosi della Lega risultano i club. Son loro a spartirsi, fifty-fifty, il 90% dei 7 milioni di euro contabilizzati anche tramite i diritti televisivi. Alla Lega va il restante 10%. Premesso che i diritti televisivi si sarebbero incassati anche altrove, è il ‘non mostrato’ a rappresentare il benefit per presente e futuro. Anche l’Italia sportiva, con la Lega Calcio, coi due prestigiosi club, apre le porte alla diplomazia della chiacchierata petromonarchia che, fra un Grand Prix e un match, tuttora lapida e fustiga le donne. Si accondiscende all’abbraccio dell’inquietante principe bin Salman su cui pesa il recente omicidio d’un giornalista, fatto a pezzi all’interno del consolato saudita di Istanbul. Le polemiche sull’impossibilità delle nostre tifose di accedere da sole al “Re Abdullah Stadium” o farlo indossando il velo, e l’esatto contrario: a loro verrebbe permesso ciò che alle donne saudite non è consentito, sono falsi problemi. Nonostante la maschera della modernizzazione del progetto ‘Vision 2030’, il sistema saudita resta oppressivo e criminale. Ma c’è chi sottolinea una cruda verità: il business del calcio nostrano segue quel che da tempo fanno le nostre imprese. E i 23 milioni di euro per tre finali sono bazzecole rispetto al baratto: barili di greggio in cambio di armi da usare, ad esempio, sui ribelli yemeniti. Una certezza è lampante: l’Italia affaristica dà sempre il meglio di sé in ogni incontro. 



martedì 8 gennaio 2019

Futuro afghano: si discute in Qatar


Il tavolo si tiene a Doha ed è frequentatissimo. Il mese scorso ha visto la presenza di sauditi, pakistani ed emiratini, non degli iraniani il cui interesse per le vicende afghane è sempre elevato, ma non partecipano per il veto americano. Ora i colloqui sulla persistente occupazione militare che determina l’insorgenza telebana, vivranno due giornate di confronto; però solo fra taliban e statunitensi con Zhalmay Khalilzad nella veste di gran maestro di cerimonie. Dunque, fra i turbanti prevale la linea dura che punta a chiudere le porte in faccia al governo di Kabul, considerato un manipolo di pupazzi che gli studenti coranici attaccano, denigrano, umiliano. Non gli riconoscono alcun ruolo se non quello d’essere servitori delle truppe Nato, senza le quali sarebbero da tempo stati spazzati via dall’insorgenza. Una verità evidenziata dai continui attentati fin dentro i palazzi del potere o dalle occupazioni di città e campagne che solo i fitti bombardamenti attuati dall’aviazione statunitense riescono a liberare. Tutte azioni che producono migliaia di vittime civili. La mancata presenza, diretta o per interposta persona, al tavolo delle trattative preoccupa non poco il presidente uscente Ghani, soprattutto in vista delle presidenziali del prossimo mese d’aprile.
La consultazione potrebbe venir rinviata anche a seguito dell’impasse creatasi dopo il recente voto politico di ottobre che vede l’indefinitezza della conta, polemiche sui brogli, un intoppo dell’organizzazione elettorale principalmente nello spoglio delle schede. Probabilmente al rinnovo di cariche fantoccio com’è quella presidenziale - vanificata da due mandati di Karzai, uno di Ghani e una fase d’attesa in cui s’è rischiato uno scontro armato fra i sostenitori dei contendenti (Ghani e Abdullah poi cooptati entrambi per constatare che nulla funziona) - non crede più neppure il Congresso statunitense. Sebbene le sue espressioni politiche, con quattro amministrazioni divise fra Bush jr e Obama, abbiano tenuto in loco l’apparato della forza e dello spreco che ha bruciato in circa due decenni un trilione di dollari, seminando morte con decine di migliaia di vittime e non risolvendo nessuno dei problemi che affliggono il Paese e la sua popolazione. Anzi. L’attuale inquilino della Casa Bianca procede in ordine sparso lì e in altri punti caldi del Medioriente e del mondo. Lo stesso Pentagono è propenso a un ulteriore alleggerimento delle truppe di terra (degli attuali 13.000 uomini potrebbero restarne 7-8000), tanto il servizio di pattugliamento possono continuare a farlo i mercenari, uomini armati non contabilizzati ufficialmente, ma definibili fra le venti e le quarantamila unità.
L’attuale fase gli Stati Uniti l’hanno messa nelle mani d’un afghano americanizzato come mister Khalilzad. Un pashto oggi sessantottenne, nativo del nord, nell’affascinante Mazar-e Sharif, che durante gli studi nel liceo di Kabul ha svernato in stage californiani. Quindi è passato all’Università americana di Beirut, dove si formano molti diplomatici mediorientali che vengono coptati dagli Usa. Durante la frequentazione della Columbia University, Khalilzad conobbe Zbigniew Brzezinski, think tank di razza agli ordini, un tempo di Lyndon Johnson, e in quella fase di Jimmy Carter. Sotto quest’ultima amministrazione il polacco-americano mise a punto l’operazione di armamento e sostegno dei mujaheddin che combattevano i sovietici in Afghanistan. Khalalizad gli fu al fianco in quella che gli annali strategici ricordano come ‘operazione Ciclone’. Uno degli interventi più costosi messi in atto dalla Cia, con un budget che crebbe esponenzialmente del decennio 1979-1989, toccando nel 1987 i 630 milioni di dollari. Bazzecole per quella che sarebbe diventata l’industria bellica del nuovo millennio. L’operazione era articolatissima: venne avvicinato il regime militare pakistano del generale Zia-ul Haq per sostenere i gruppi più fondamentalisti d’oltreconfine.  Insomma il bagaglio di Khalilzad in fatto di rapporti col jihadismo è robustissimo, come pure riguardo alle velleità doppiogiochiste degli attori presenti a ogni tavolo di trattative geopolitiche.
Attualmente i taliban vogliono condurre in prima persona la partita e mettono i piedi nel piatto alzando la posta. Rivendicano: ritiro totale delle truppe statunitensi, scambio di prigionieri, rimozione del divieto di movimento dei propri leader, probabilmente oltre l’area delle Fata sul confine pakistano. Non sembrano volere l’azzeramento delle basi aeree, l’unico, e non certo secondario, punto a favore dell’occupazione Nato, perché sanno che Washington non lo concederà mai. In una nazione pacificata o meno, grazie a quelle basi i generali del Pentagono continuano a monitorare e possono intervenire, nel cuore del continente asiatico a un passo da Russia, Cina, Iran, in qualsiasi momento. Il resto delle richieste può diventare contrattabile e i turbanti potrebbero spuntarla su vari punti. Una loro desiderata resta controversa: la totale delegittimazione d’un governo autoctono al servizio dell’Occidente. Anche su questo il movimento talebano appare intransigente, a tal punto da non volere (e ciò gli viene accordato) nessun rappresentante di Kabul alle trattative. Ma per accontentarli definitivamente gli Usa dovranno rinnegare un disegno ventennale, ammettendone di fatto il fallimento. Non è detto che non lo facciano, al Pentagono può bastare un controllo dall’alto, mentre nei palazzi della politica possono rientrare i fondamentalisti. Del resto nella penisola araba è così e, formalità a parte, l’estremismo coranico non è mai stato sradicato dalla cultura delle istituzioni afghane.

domenica 6 gennaio 2019

Egitto, storie d’infamia ordinaria


E’ qui che cercano di sopravvivere i sepolti vivi nell’Egitto di al-Sisi. Tora, una decina di chilometri dal Cairo, sezione al-Aqrab (lo scorpione), dove c’è di tutto, dai detenuti comuni, ai criminali incalliti e, dopo il golpe bianco del luglio 2013, tanti politici d’ogni levatura. Qui c’è il Gotha della Fratellanza Musulmana, dal presidente deposto Mohamed Morsi, alla guida spirituale Muhammad Badi, e l’imprenditore islamista Khayrat al-Shater.  Scrittori come Ahmed Nagi, attivisti noti e sconosciuti. Più si è sconosciuti più una sparizione, un decesso diventano insignificanti. Nessuno cercherà quelle matricole, i nomi risulteranno solo a familiari e amici, le cui rimostranze verranno scoraggiate a suon di accuse peggiori: terrorismo su tutte. La legge sulla sicurezza nazionale impedisce di fatto un percorso di conoscenza e verità se rivolto contro militari, forze dell’ordine e qualsiasi ganglio dell’apparato repressivo statale. Ne sanno qualcosa i legali che difendono gli interessi della famiglia Regeni. Indagando sull’omicidio del ricercatore friulano, l’avvocato egiziano Ibrahim Metwaly, è risultato da oltre un anno scomparso poi incarcerato e ora non si sa. La legale italiana Alessandra Ballerini ha più volte ricordato la frustrazione dei genitori di Giulio, e quante difficoltà hanno incontrato gli stessi procuratore e vice Pignatone e Colaiocco sia nelle indagini svolte a Roma, sia nelle trasferte compiute nella capitale egiziana.
Accanto a casi eclatanti e sanguinari, egualmente penose sono le vicende che soffocano le vite di tanti giovani che finiscono intimoriti e tenuti sospesi con arresti reiterati, minacce, pestaggi, rilasci tendenziosi e costellati di pedinamenti, con lo scopo di far cadere nella rete poliziesca loro amici, che possono essere accusati d’un non nulla e che avranno anch’essi l’esistenza sottoposta al giogo d’una prostrazione ideale e morale, con l’inframmezzo di quella fisica. Simile alla vicenda narrata alcuni giorni addietro di Sayed Elmanse ce ne sono mille, mutano i nomi, ma il meccanismo si ripete, perché il laboratorio della paura messo a punto dallo staff di Sisi oltre a punire, divulga l’asfissìa del terrore. L’ossimoro è definirlo sicurezza. Ciò che viene spacciato per ‘sicurezza del Paese’ contro oppositori politici, infiltrati, spie,  ovviamente giornalisti interni e stranieri e legali dei diritti, è un senso di paura diffuso con le esperienze che tanti giovani si trovano a vivere già da minorenni. Basta essere per via, in qualche maidan o awha, incappare in una retata o peggio venire fermati per sospetti di antagonismo o addirittura, peggio del peggio, per uno sciopero, una protesta, fosse pure un semplice sit-in. Può accade quello che la madre di Saad Mouhamed Saad racconta del figliolo.
In una calda serata dello scorso giugno il giovane era fermo davanti a una palestra nella cittadina di Khanka, governatorato di Qalyubia nel Basso Egitto. Viene circondato da un manipolo di uomini mascherati. Capisce che si tratta d’una squadra della Sicurezza nazionale, lo prelevano, lo conducono in una località a lui sconosciuta. Saad, oggi ventenne, non è nuovo a simili trattamenti. Il primo arresto lo subì quattro anni fa, mentre camminava con un gruppetto di amici. Allora venne accusato di manifestazione non autorizzata. Una legge emanata durante il primo mandato di Sisi, poi resa ancor più restrittiva, considera sedizioso un raggruppamento di cinque persone. Ovviamente tutto resta a discrezione della potenziale accusa che viene diretta su chi si vuole, poiché qualsiasi assembramento nel suq e nelle piazze potrebbe rientrare in quella casistica. Per il raduno “sedizioso” Saad si fa sei mesi di galera, sebbene non s’occupasse per nulla di politica. Una volta fuori subisce un sequestro, si ritrova in un commissariato quindi davanti a un giudice che gli rifila due anni di detenzione in base a un dossier poliziesco che l’accusava falsamente. Nei primi giorni di prigione i secondini gli intimano d’inginocchiarsi al loro cospetto. Lui si rifiuta e subisce di peggio: periodicamente gli mettono la faccia nella latrina e lo umiliano. Ma in fondo è fortunato. Ad altri gli hanno cercato l’anima a forza di botte.

martedì 1 gennaio 2019

Cairo, Egitto: le stragi e l’oppressione della migliore gioventù


C’è un via vai da sabato scorso in alcuni obitori del Cairo. Un via vai di uomini e donne che scrutano cadaveri. Quattordici freddati nell’area denominata 6 Ottobre, che sorge a ovest della zona delle famose Piramidi dove s’è verificato l’attentato contro i turisti vietnamiti, sedici in un altro condominio sempre di Giza. Più la decina fatta fuori dalle forze speciali in una zona controllata del Sinai settentrionale. Rappresentano la risposta alla sfida che il jihadismo, o l’opposizione armata interna, lancia al regime per rimettere in difficoltà l’economia nazionale in un settore strategico come quello turistico. Sisi è stato tranciante: stroncare il terrorismo, sebbene quel refrain risuona da quando lui prese il potere ufficialmente con la prima elezione del maggio 2014. Ma il generale-presidente non è riuscito ad allontanare lo spettro di attentati che si sono ripetuti e costituiscono l’incognita con cui si misurano gli apparati di sicurezza. Quest’ultimi risultano efficienti nel perseguitare giovani e oppositori, molto meno nel prevenire attentati e cacciare i terroristi. Visto l’alto livello d’informatori di cui gli apparati si servono e la pratica di retribuire la delazione, secondo qualche osservatore, tutto ciò accade per scelta. Così fra la gente regnano paura e incertezza e le Forze armate possono perpetuare quell’emergenza perenne che sa di Stato d’assedio.

Il via vai negli obitori, serve a dare un nome ai presunti terroristi falciati dai colpi polizieschi nei giorni scorsi, in modo che lo Stato riesce a dare in pasto all’opinione pubblica la propria risposta efficiente in fatto di ordine. Ma all’associazione ‘Familiari di persone scomparse forzatamente’ c’è allarme, sono loro ad accertarsi che i corpi senza vita allineati in quest’ultima occasione non siano figli, fratelli, parenti di cui da mesi, o peggio da anni, non giungono più notizie. Se qualcuno dovesse riconoscere un morto, avrebbe la magra consolazione di ritrovare il proprio caro, passato per le armi dai mukhabarat con l’accusa di un’appartenenza terroristica. E’ già accaduto e il meccanismo si perpetua. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la caccia al jihadismo reale, che esiste in alcune zone, trovando peraltro proprio nella repressione estremizzata un terreno fertile per il reclutamento. Il pericolo per la popolazione interna e per i turisti è innegabile, ma da oltre quattro anni l’attenzione di Sisi e dei suoi collaboratori è volta a colpire gli oppositori politici interni d’ogni peso e colore, paragonando quest’ultimi a terroristi, invece di attaccare i veri terroristi. La storia di Sayed Elmanse, che narriamo di seguito, è solo una delle tante subìte da giovani egiziani, che ci auguriamo di non dover ritrovare nell’elenco di nemici dell’Egitto eliminati senza tanti scrupoli da ligi esecutori.

Oggi Elmanse ha 22 anni,  entra ed esce dalle galere da quando ne aveva 17. Apparteneva al ‘Movimento 6 aprile’, quindi al Dostour Party. Il primo impatto con la repressione è di quelli che lasciano i segni sulla pelle e nella psiche: mani legate, occhi bendati, scosse elettriche sui genitali e bastonate in più parti del corpo (il trattamento riservato a Giulio Regeni). Sayed finisce nella sezione giovanile del quartier generale di Maadi con l’accusa di attentato ai beni pubblici e privati dello Stato. La famiglia non riesce a seguire tutti i percorsi di detenzione: dentro e fuori stazioni di polizia, Dar El Salaam, Abdeen, Qasr El Aini e il carcere speciale di Tora.  La polizia l’accusa di essere: fratello musulmano, terrorista, di possedere e aver fatto uso di armi. La spirale della repressione, della quale fanno parte gli stessi magistrati che incriminano anche in assenza di prove e non fanno rispettare alcun diritto del recluso che, gli riserva, assieme alle torture, l’obbligo di marcire in celle fredde e umidissime, lerce e rischiose per la salute. Esistono notizie di giovani che contraggono malattie infettive da simili reclusioni. A simili denunce lanciate da familiari, ong locali e internazionali, il governo non risponde o rigetta le accuse parlando d’ingerenze e complotto contro la nazione da parte di forze straniere. Molti Paesi, fra cui le potenze mondiali statunitense e russa per interessi geopolitici ed economici, lasciano cadere qualsiasi grido d’allarme. Mentre i militari continuano a perseguitare la migliore gioventù d’Egitto.