martedì 26 agosto 2014

Safa, vittima del Far West afghano




Quella di Safa Ahmad è una storia di povertà e morte. Come altre mille e mille in Afghanistan, Paese che vede la terza generazione soffocata dai conflitti. Ma accanto alla scia di sangue Safa lascia un presidio di sogno e riscatto, spezzati purtroppo da ex miliziani trasformati in vagabondi, volto oscuro d’una nazione dove la quotidianità è soffocata dalla violenza degli occupanti occidentali e dei sempiterni Signori della guerra. Polvere e soprusi vagano nell’aria della capitale e dei villaggi dove bambini, donne, anziani pagano le conseguenze più dolorose. Safa è stato ucciso per una lite di strada, che pur nei suoi giovani diciassette anni cercava d’evitare, perché chi in quei luoghi nasce povero (la quasi totalità dei 32 milioni di abitanti) ha ben altri problemi da risolvere che sprecare inutili energie in sciocchi contenziosi. Non quando s’incrociano criminali matricolati come Raqib, l’assassino, non privo di passato politico. Lui era stato uno dei comandanti della Shura-e Nezar, organismo paramilitare guidato da Shah Massud, Signore della guerra considerato eroe nazionale. Da questo passato Raqib ereditava il sopruso con cui s’era impossessato dei terreni di taluni paesani che, a causa di bombardamenti (negli ultimi tredici anni della Nato), s’erano stabiliti nei dintorni di Kabul. Aveva proseguito con le proprie infamie, aumentandole in occasione del reclutamento di suoi due fratelli nella polizia di frontiera grazie al programma governativo di “disarmo, smobilitazione, rintegrazione”.

Safa, originario d’un villaggio della provincia di Parwan, ha finito i suoi giorni crivellato dai proiettili del kalashnikov imbracciato da questo soggetto e fornitogli da uomini politici. Il ragazzo era stato fermato mentre insieme al padre accompagnava la mamma all’ospedale, percorrendo la strada che unisce alcuni villaggi a quella principale del distretto. Una via costruita col Programma di solidarietà nazionale. Lì, come faceva da tempo con tutti gli abitanti, il teppista voleva impedire il percorso. Alle rimostranze dell’anziano, che sosteneva la necessità e l’urgenza del tragitto, Raqib sparava. Lo feriva gravemente procurandogli il decesso dopo una ventina di giorni. L’assassino fuggiva e tuttora trova rifugio dai Warlods di Parwan, zona dove alla vigilia del risultato elettorale il team di Abdullah ha fatto distribuire dalle 30 alle 50.000 armi a malviventi e balordi. Lo scandalo è venuto a galla e lo stesso governatore della provincia non ha potuto negare l’avvenuta militarizzazione privata della zona, senza che magistrati, polizia ed esercito prendessero provvedimenti. Di Safa gli amici raccontano che veniva da una famiglia di agricoltori della Shamili vally, intenta a coltivare un paio d’ettari di terra. Era ancora bimbo quando ha aperto gli occhi sulla brutalità che la gente del villaggio subiva a opera dei Taliban. Il bambino, assieme a un fratello maggiore, contribuiva al sostentamento familiare vendendo il bolani, tradizionale pane afghano ricoperto di verdure.

Caduto il regime dei turbanti gli Ahmad tornarono nel villaggio, sperando di riprendere un’esistenza minima ma dignitosa. Trovarono rovine, campi dissestati e molte difficoltà nel riavviare la coltivazione agricola. Fu quello il periodo in cui l’adolescente Safa incrociò l’attività del Solidarity Party e iniziò a leggere opuscoli dell’organizzazione democratica. Nonostante le difficoltà economiche si riavvicinò agli studi, mentre un’innata sensibilità e il passato di sofferenze lo aprirono ai problemi sociali facendogli acquistare coscienza politica. Quest’ultima si consolidava con incontri, dibattiti e gesti di sostegno che gli attivisti rivolgevano a uomini e donne di città e campagna. Chi l’ha conosciuto lo ricorda come un ragazzo intelligente e ingegnoso. Tempo addietro aveva proposto una rappresentativa provinciale del partito volta a preparare temi e letture che venivano affrontati in villaggi, scuole, moschee per sensibilizzare la popolazione. In una delle stanze di casa aveva creato una piccola biblioteca e offriva ad altri coetanei l’opportunità d’incrociare alfabetizzazione e idee. Per l’impegno che metteva anche nei momenti pubblici delle manifestazioni svolte alla luce del sole che, nel violento panorama afghano, espongono i militanti democratici alle ritorsioni fondamentaliste, Safa s’era guadagnato un ruolo di spicco fra i coetanei. I suoi compagni e i vertici di Hambastagi ne ricordano altruismo e coraggio, ma soprattutto la voglia di costruire un Afghanistan totalmente diverso da quello che l’ha assassinato.

lunedì 25 agosto 2014

Afghanistan, chi governa per chi


Il panorama istituzionale afghano che - verifiche delle schede a parte - viaggia verso la creazione d’un “governo d’unità nazionale” coi contendenti Abdullah e Ghani uniti nel cogestire il piano preparato da Washington, potrebbe trovare qualche ostacolo. Una delle sorprese politiche che prende corpo è l’allargamento del fronte di Unità nazionale anti americano contro le basi militari. Una sedicente Jirga della pace sorta per iniziativa di Shah Ahmadzai, ex primo ministro del mujaheddin Rabbani, l’eminente esponente dell’Alleanza del Nord che finì i suoi giorni in un attentato, s’oppone all’occupazione perenne del Paese da parte delle truppe Nato. Nel mirino c’è il Bilateral Security Agreement, l’accordo creato nel momento di rapporti ancora buoni fra Karzai e Obama, che prevede la continuazione della presenza militare statunitense in molte province afghane, soprattutto attorno alle basi aeree, per un controllo strategico sul versante militare e su quello economico. L’ex presidente s’è poi sfilato dalla promessa di apporre la firma definitiva al patto e nel novembre scorso ha passato la palla alla Wolesi Jirga (la Camera bassa). Oggi i due pretendenti alla carica di Capo dello Stato si mostrano disponibili a firmare e John Kerry è felice.

A rompergli le uova nel paniere restano gruppi democratici da sempre all’opposizione, impegnati nel sostegno alla popolazione e nella denuncia dei crimini esterni e interni (la Revolucionary Association Women of Afghanistan e il Partito della Solidarietà). E da qualche tempo un variegato e potente fronte islamico. Un’area che raccoglie il fondamentalismo dell’Hezb-e Islami, con gli immarcescibili signori della guerra e degli affari Hekmatyar e Sayyaf (quest’ultimo con uno sfrenato doppiogiochismo si dichiara pure alleato di Abdullah), il pan islamico Hezb ul-Tahrir, il nuovo partito islamista afghano Harakat-e Islami, sino a includere qualche chierico sciita come Sayed Hadi Hadi. Tutti molto attivi nell’organizzare incontri e manifestazioni con la popolazione, non solo davanti alle moschee ma guidando proteste contro l’occupazione Usa e su questioni di politica estera: la repressione della Fratellanza Musulmana in Egitto e, durante l’estate, l’ennesimo attacco israeliano a Gaza e la questione palestinese. Proprio Ahmadzai ha lanciato la proposta della necessità dell’apertura di un’ambasciata palestinese a Kabul. In tal modo questa componente islamica nell’ormai lunga fase di vuoto di potere, cerca di togliere terreno di reclutamento ai talebani interni.

Sebbene già dal 2010 vari politici locali, dal presidente Karzai a Hekmatyar, avessero avuto contatti con la galassia talebana per comprenderne gli obiettivi e valutare accordi. Gli stessi uomini della Cia presero in esame l’ipotesi di passare dallo scontro ai negoziati, tornando sui propri passi e considerando un inserimento di “talebani buoni” nella futura guida d’un Paese comunque plasmato a proprio piacimento. Poi la Shura di Quetta si tirò indietro e l’ipotesi cadde. I taliban afghani, pur sempre riottosi e ribelli, sono decisamente più malleabili dalle altre branche dell’organizzazione. La Rete di Haqqani s’è dimostrata insensibile alle aperture parlamentari e governative, mentre per i talebani punjabi e quelli dell’organizzazione Tehereek-e-Nafaz-e-Shariat-e-Mohammadi, che ben oltre le Aree tribali di amministrazione federale (Fata) puntano alla ricomposizione del cosiddetto Pashtunistan (un ampio territorio abitato dall’etnìa pashtun di varie province afghane e pakistane) l’intento si rivolge a una scomposizione dei due stati nazionali. E qui la repressione di Isi e dell’esercito pakistano, oltre che dei droni statunitensi, si fanno sentire con veemenza pari alla destabilizzazione introdotta dalla guerriglia. Insomma l’incertissimo futuro del Medio Oriente comprende, e non da oggi, anche territorio e popolo afghano.  

venerdì 22 agosto 2014

Afghanistan, attacchi al Partito della Solidarietà


Nonostante accordi e aggiustamenti fra le parti i clan di Abdullah e Ghani  (e tutta la pletora degli alleati con turbante e senza ma certamente con le armi) assieme alla Commissione Elettorale Indipendente, benedetta da Nazioni Unite e da Kerry, continuano a patteggiare il difficilmente patteggiabile: la divisione delle poltrone. Un potere che dovrebbe seguire la comparsata delle verifiche d’un numero imprecisato di urne elettorali. Le ultime cifre ne indicano 14.516, magari fra qualche giorno quel riferimento aumenterà di nuovo. Si va avanti in tal modo da fine giugno e in condizioni normali si potrebbe pensare a un ‘work in progress’, non è così. Quello che procede a Kabul è un negoziato che ai sorrisi e alle strette di mano dei due politici intenti a decidere come spartirsi la guida della Repubblica Islamica e dividere la torta degli aiuti internazionali (compresi quelli della cooperazione che spesso prendono le vie dei locali ministeri), contrappone le tensioni dei loro sostenitori. Non solo fra gli attivisti di strada, ma fra gli incravattati funzionari che constatano come i voti sui database non corrispondono affatto a ciò che compare sulle schede rivisitate.

Un peccato comune a entrambi i candidati, perché le presidenziali andate in scena di falso hanno l’intero meccanismo, basato su brogli e voto di scambio. Martedì scorso qualche parola di troppo fra gli schieramenti ha prodotto una mega rissa all’interno della sede della commissione, non sono spuntati i kalashnikov ma coltelli e forbici sì, e con essi diversi addetti si sono bucati le carni finendo in sei all’ospedale. Se tale è il clima nella struttura che ha giurato di risolvere il busillis dei voti fuori posto, non meraviglia che il Paese risenta da mesi d’una tensione elevatissima.  Sia nelle province dove i talebani continuano a mietere vittime (ultimamente cinque poliziotti a Helmand), sia dove loro stessi cadono nelle retate delle Forze della Sicurezza Nazionale Afghana (come a Shar-e Safa). La capitale prosegue a essere nel mirino dei gruppi talebani interni e della sempre attiva Rete di Haqqani, lo dimostrano gli agguati e le infiltrazioni nelle file dell’ANF. Cresce l’allarme sicurezza nelle strade con furti di materiale in pieno giorno, mentre gli attivisti umanitari occidentali sono in allerta per possibili rapimenti a scopo d’estorsione.

Cresce la criticità anche per le forze democratiche del Paese, il Partito della Solidarietà ne è bersaglio. Dopo il capillare dibattito interno dei mesi scorsi Hambastagi puntava alla partecipazione alle prossime elezioni politiche, promesse dai contendenti alla presidenza. Però il congresso, che si doveva tenere il 5 agosto e che avrebbe ufficializzato la scelta, è stato sospeso per i gravissimi episodi accaduti nelle settimane scorse. L’uccisione d’un giovane membro del partito di nome Safa, di suo padre Agha e le ripetute minacce rivolte a un altro noto militante, momentaneamente riparato fuori da Kabul, hanno fermato l’assise. Se il clima peggiorerà lo spettro della clandestinità, che i democratici di Hambastagi vogliono evitare, potrebbe diventare un crudo bisogno. Nonostante le difficoltà si protesta ancora alla luce del sole, come mostrano le foto d’un meeting contro i criminali di guerra lanciato dal Saajs. Fra i sospettati della duplice esecuzione alcuni soggetti vicini ai Warlords dell’Alleanza del Nord, la sempiterna congregazione che ha oggi nell’inossidabile Abdul Sayyaf l’elemento di spicco, propenso come Helal a collaborare con Hekmatyar. Un trio fondamentalista che, vent’anni dopo i sanguinosi anni di guerra civile di cui fu attore, rinnova la sua inquietante presenza, mentre veglia sulla mossa della bi-presidenza.

mercoledì 20 agosto 2014

Renzi, il pretesto kurdo per la scena mondiale


Accreditata da alcuni organi di stampa italiani: La Padania, Il Fatto quotidiano, di volontà mai espresse come quella di armare i peshmerga (i guerriglieri della fazione kurda di Barzani) la Rete Kurdistan Italia ha precisato che nei due mesi di crisi montante nella regione irachena, non ha mai sostenuto un’ipotesi simile. Gli stessi attacchi spietati dei fondamentalisti dell’Isis verso le popolazioni kurde presenti nella Rojava, in terra di Siria, e quelli rivolti al Kurdistan iracheno vede la componente politica filo kurda vicina alle strutture di difesa popolare (Hpg) del Partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzarsi in proprio e non domandare armi né interventi militari esterni. Si chiedono invece: un sostegno umanitario nei confronti di centinaia di migliaia di profughi e la fine degli ostracismi rivolti a realtà popolari come l’autogoverno della Rojava e di organizzatissime componenti politiche, qual è il Pkk, tenuto tuttora sotto scacco dai potenti della politica internazionale: Stati Uniti e Unione Europea, inesorabili nel bollarlo quale gruppo terrorista; a detrimento del sostegno politico-organizzativo che esso offre al suo popolo.

L’iniziativa messa in atto dal presidente americano Obama e quella partorita in tutta fretta dal premier italiano Renzi, volato in Iraq a promettere una manciata d’armi (un carico di kalashnikhov e missili sequestrati tempo addietro al faccendiere russo Zukhov), rispondono a logiche imperial-occidentali di vecchio stampo. Gli Usa sono i responsabili del perverso corto circuito di alleanze e guerre che, partendo dall’appoggio al primo qaedismo, ha avuto come tappe intermedie prima e seconda guerra del Golfo che hanno abbattuto la dittatura di Saddam portando distruzione e morte fra gli iracheni. Quindi la destabilizzazione di una vasta area, aprendo spazi immensi alla riscossa del sunnismo fondamentalista. Ora diventato suo nemico e solo due anni fa foraggiato nel mattatoio siriano, sino a vederlo crescere a dismisura e assumere forza internazionale per ampliare il progetto del Califfato islamico. Simili giochi di potere e di guerra continuano a passare sulla testa dei soggetti più umili, delle minoranze etniche e religiose, e danneggiano le stesse masse islamiche, sunnita e sciita, ormai polarizzate in uno scontro senza futuro e da un presente sanguinoso e tragico.

In questo quadro a tinte fosche la politica mondiale rilancia false soluzioni, pensate per le sue cariche e istituzioni, come non riesce a nascondere il premier italiano Renzi. Pronto a dimostrare a elettori italiani e organismi europei un attivismo cucito a misura di passi né umanitari né di spessore geopolitico che Oltreoceano non riescono a fare. Intervenire nella polveriera irachena, sostenendo d’usare le armi può solo incentivare i drammi delle componenti più deboli (kurdi, yazidi, comunità cristiane) che l’esercito iracheno e guerriglieri pashmerga hanno dimostrato di non voler né saper difendere. Il decisionismo interventista del capo dell’Esecutivo italiano, leader per un semestre del Governo europeo, è un atto narciso rivolto a ben figurare con chi conta nel vecchio continente e conquistare ulteriori incarichi per il suo clan: l’investitura ad Alto rappresentante per la politica estera, negato in prima battuta alla Mogherini per palese mancanza di esperienza e spessore, e rincorso con tale iniziativa. Il passo renziano, sostenuto dal Parlamento di Roma, magari produrrà l’incarico invischiando il nostro Paese in rinnovate disavventure come le note attività di polizia internazionale che costano denaro alle casse dello Stato.

Oltreché vite umane ai militari che combattono in “missioni di pace”, “danni collaterali” ai tanti civili uccisi anche dai Tornado che decollano e a volte cadono sui nostri cieli durante le esercitazioni. Wargame che fanno aumentare, anziché stroncare, le simpatie dei bombardati d’Oriente per Taliban, Signori della guerra o mullah del Jihad. Particolare che sfugge o semplicemente non interessa all’autoreferenzialità politica occidentale.  

Lice (Diyarbakir): un morto per onorare i martiri


Su quelle tombe i familiari pregano, gli attivisti meditano di passato e futuro, gli uomini dei villaggi che non ci sono più fanno la guardia. Perché la memoria della collina della memoria sia un monito per il tanto sangue versato. Ma ieri a Şehid Amed e nel cimitero di Sise è tornata la furia distruttiva e omicida dell’esercito turco. Si voleva rimuovere il busto di Mahsum Korkmaz, comandante e martire del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, una delle migliaia di vittime del duro conflitto che alla fine degli anni Novanta ha mietuto vite di combattenti e abitanti kurdi da una parte, e di militari turchi dall’altra. Ma la “pacificazione” e i dialoghi in corso fra i vertici politici del movimento kurdo e quelli dello Stato turco non limitano la repressione sul territorio. Esercito, polizia, magistratura non demordono e proseguono nella linea coercitiva sulla quale si diletta con ‘stop and go’ l’Esecutivo finora guidato da Erdoğan. Anche il primo cittadino di Lice Rezan Zuğurli, neo eletta con percentuali dell’oltre 80% nelle amministrative di marzo, a giugno era stata colpita da una condanna a tre anni di reclusione per aver partecipato, negli anni precedenti, a manifestazioni di protesta terminate con scontri di piazza.

Lì le proteste si ripetono periodicamente per il totale disinteresse del governo centrale alle necessità di questa comunità montana, vista da Ankara come fumo negli occhi per aver dato i natali all’organizzazione del Pkk. La Turchia (col supporto di Usa e Unione Europea) considera il partito kurdo un gruppo terroristico e ripropone continue azioni coercitive anche nelle aree dove la popolazione ne elegge gli attivisti alle massime cariche pubbliche. Fra maggio e giugno la popolazione di Lice aveva manifestato contro il rilancio di ristrutturazioni di caserme deciso dal ministero della Difesa, edifici che il sindaco Zuğurli voleva destinare a uso civile come foresterie o scuole. La condanna della magistratura nei suoi confronti ha il valore di punizioni retroattive dal sapore intimidatorio. Con la rimozione del citato busto del combattente, che la comunità kurda ricorda con affetto e riconoscimento, è andata in scena una provocazione bella e buona. I soldati hanno occupato l’area con mezzi blindati e armi spianate e alle iniziali proteste hanno risposto sparando. La pallottola, che ha inizialmente ferito l’attivista Mehdi Tașkın, è risultata fatale. A Şehid Amed s’aggiunge un’altra candida tomba che nessun kurdo voleva.