domenica 20 luglio 2014

Le carni straziate e il mondo che non vede


Non dovremmo farlo. Secondo il codice deontologico non dovremmo insistere nel mostrare il dolore, i corpi ridotti a miseri panni, le membra distorte o divelte. E’ vero non dovremmo, ma questo non è sensazionalismo, non si tratta di speculazione né informativa né politica.  Non c’è il morto sbattuto in pagina, c’è il morto e basta. Una drammatica sequela di vittime palestinesi. E’ quello che mai vorremmo vedere e che il mondo degli strateghi può vedere senza muovere un dito. E’ l’evidenza del cinismo che si ripete ossessiva, che lascia spazio all’azione assassina di massacratori di bambini che affermano di combattere terroristi. Gaza è l’esempio più noto, e comunque mostrato, di troppi altri crimini celati e taciuti. Siria, Afghanistan, la lista è lunga. E’ come entrare in una morgue, in un reparto chirurgico seppur arrangiato, dove quelle sfortunate vite giungono esanimi o già spezzate. Parlare di sangue, mostrare il sangue vivo oppure rappreso sulle faccine di ragazzini nati dalla parte sbagliata è opera speculativa? Attendiamo sanzioni.

All’esordio del suo Bordo protettivo Tsahal ha creato 24 cadaveri. E’ l’8 luglio: Mohammad, Amjad, Khader e altri non respirano più, a ventiquattro, trenta e quarantacinque anni è sempre presto per morire. Ma quando il giorno seguente s’arriva a Yasmin, Nidal e un altro Mohammad che in tre fanno tredici primavere scendono le lacrime senza neppure vederli. E su certi corpicini disfatti sarebbe meglio non allungare lo sguardo. I media mainstream così fanno, non mostrano le turpi immagini, ma il vero punto è che nessuno ferma questo riempimento di camere mortuarie. Altri 24 cadaveri il giorno 10 con famiglie intere, come gli al-Hajj, gli al-Batsh seguono a breve. Un giorno dopo l’altro le vite vanno e s’incontra quel che resta di Sahar, 3 anni. Il 12 c’è una strage nella prolungata strage: 52 vittime e ogni giornata porta la sua maledetta porzione. L’altalena è straziante: il 18 luglio 58, 45 nella giornata seguente. Non esiste pietà, non nella povera conta palestinese, ma nel meticoloso e infinito cerchio assassino che tiene in vita Israele. Finora il bingo segna 387. 


sabato 19 luglio 2014

Israele: cancellare la storia, azzerare il nemico



Afferma Naom Sheizaf, un giornalista israeliano che ha scritto per Haaretz, Yedioth Ahronoth e The Nation:“Mentre guardo i missili esplodere nel cielo della città che amo di più al mondo, Tel Aviv, mentre ci affanniamo correndo giù per le scale delle nostre case per raggiungere la stanza delle biciclette che utilizziamo come rifugio per le bombe, mi sento contrario a questa operazione militare israeliana con tutto il cuore”. L’operazione, che nella sua sempre fantasiosa criminalità d’intenti e d’azione Israeli Defence Forces definisce “Bordo protettivo” ha fatto in dodici giorni 337 vittime da parte palestinese (e con i raid che proseguono aumenteranno), per due terzi civili fra cui tanti bambini, e 2 vittime israeliane. L’ennesima aggressione alla galera a cielo aperto che sono i 40 chilometri della Striscia di Gaza dove sono costretti a vivere in condizioni disumane un milione e mezzo di palestinesi, è sostenuta da attacchi via cielo, mare e terra da uno degli eserciti più agguerriti e tecnologici del mondo. In azione ci sono 52.000 soldati che praticano una strage “chirurgica” colpendo più i familiari che gli stessi 20.000 miliziani della resistenza palestinese. O comunque gli uni e gli altri.

Prosegue Sheizaf: “Continuo a incontrare israeliani che non sanno, per esempio, che controlliamo ancora il ponte di Allenby (che collega la West Bank alla Giordania), così di fatto gestendo il traffico in entrata e uscita dei palestinesi dalla Cisgiordania. Oppure non sanno che in realtà l’esercito continua a operare nell’area A, in teoria soggetta alla sovranità dell’Autorità nazionale palestinese. Oppure che in West Bank non c’è una rete 3G perché Israele non permette ai fornitori palestinesi di utilizzare le frequenze. O che imprigioniamo palestinesi a centinaia senza processo per mesi e anni. Oppure altri aspetti incontestabili dell’occupazione... Abbiamo costruito due enormi prigioni. Chiamiamole “prigione West Bank” e “prigione Gaza”. La prima è una struttura a bassa sicurezza, dove i prigionieri sono autogestiti, almeno fin quando si comportano bene. Ogni tanto hanno permessi d’uscita per delle vacanze e una volta all’anno vengono persino portati in spiaggia. Alcuni fortunati hanno lavori nelle industrie vicine e ricevono stipendi al di sotto del salario minimo. Considerando anche i prezzi bassi nelle mense del carcere, in fin dei conti i detenuti fanno un buon affare”.

E ancora: “Gaza invece è una struttura a massima sicurezza. È difficile da visitare e per chi ci vive è impossibile uscirne. Lasciamo entrare solo cibo (l’essenziale), acqua ed elettricità in modo che i prigionieri non muoiano. A parte questo, di loro ci frega poco o nulla, a meno che si avvicinino allo sbarramento della prigione e allora gli spariamo come pesci in barile finché non si calmano. E quando finalmente si calmano, smettiamo di sparare perché non siamo dei bastardi che sparano alla gente per divertimento”. Chi parla d’Israele e Palestina quali nemici di realtà simmetriche che si scontrano da decenni può trovare in taluni ebrei la maggior smentita a questa grande bugia. Intellettuali come lo storico Ilan Pappé, impegnato nell’opporsi al revisionismo sionista che dagli inizi del Novecento cancella due millenni di storia per accomodanti e univoche riscritture di questo conflitto. O come l’architetto Eyal Weizman che analizza le trasformazioni dei Territori occupati in un sistema dove gli interventi architettonici e le caratteristiche naturali sapientemente ridisegnate creano una vera occupazione civile. Suggerimenti per lettura, riflessione e divulgazione i rispettivi “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi, 2008. “Architettura dell’occupazione”, Mondadori, 2009.

giovedì 17 luglio 2014

Europa amara per Mogherini: stroncatura baltica


Nella biografia che la quarantenne Federica Mogherini ha fatto girare alla Camera dei Deputati e alla Farnesina, di cui dirige il dicastero, accanto alle note personali: sposata e mamma di due bimbe, c’è il curriculum di studi (maturità classica e laurea magna cum laude in Scienze Politiche, con tesi sull'Islam politico fatta durante l'Erasmus all'Istitut de Recherche e d'Etudes sur le Monde Arabe et la Mediterranee (Irem) di Aix-en-Province). C’è l’imprimatur politico: è dal 2008 parlamentare del Partito Democratico e presidente della delegazione italiana all'Assemblea Parlamentare Nato, più membro della Commissione Esteri e della Commissione Difesa della Camera. Per il Pd finora ha seguito i temi della globalizzazione, nel Dipartimento esteri, e fa parte della Direzione nazionale. Negli anni degli studi è stata vicepresidente dell’European Youth Forum e della Ecosy (l'organizzazione dei giovani socialisti europei), membro della Segreteria del Forum della Gioventù della Fao, responsabile Università e poi Esteri della Sinistra giovanile. Negli anni '90 ha seguito, da volontaria Arci, le campagne nazionali ed europee contro il razzismo e la xenofobia ("Nero e non solo!" e "All different, all equal" del Consiglio d'Europa.

E’ inoltre socia dell’Istituto Affari Internazionali, membro del Consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti e “fellow” del German Marshall Fund for the United States. Fa parte del Consiglio dell'European Leadership Network for Multilateral Nuclear Disarmament and Non-Proliferation (Eln) e del Consiglio Internazionale della rete dei Parlamentari per la Non-proliferazione e il Disarmo Nucleare (Pnnd). Un perfetto curriculum, più prestigioso di altri rampanti colleghi, di partito e non, che nella politica vedono una formidabile via per una personale carriera. Eppure alla lituana Dalya Gribauskaite tutto questo non basta. Anzi. Ha palesato ogni contrarietà sulla persona dicendo alla propria radio nazionale: "Vediamo che alcuni candidati esprimono apertamente le loro opinioni pro-Cremlino. Naturalmente, tali candidati sono totalmente inaccettabili per il nostro gruppo di paesi". Poi a Bruxelles ha aggiunto: "Sosterrò solo una personalità che abbia esperienza di politica estera, che sia neutrale, rifletta le posizioni di tutti e 28 gli Stati membri e non sia filo-Cremlino". Già l’esperienza politica, in questo caso internazionale. E’ uno dei temi uscito dalla sfilza di domande poste al Presidente del Parlamento europeo Martin Schultz nella conferenza stampa di ieri.

Lui, oltre a difendere la candidata Mogherini sostenendo di parlare nella veste istituzionale e non a nome del partito socialista europeo, ha tenuto botta ai dubbi di diversi rappresentanti dei media (non solo d’area baltica) sul nome dell’esponente italiana che Renzi vuole per dare prestigio e rafforzare il suo semestre a Bruxelles. Nonostante la difesa d’ufficio, davanti alle diffuse perplessità che sottolineavano carenza d’esperienza e autorevolezza della nostra esponente per il ruolo di Alto Commissario per le Politiche Europee in un globo che continua ad aumentare la sua incandescenza, è giunta la fumata nera che ha messo di malumore Renzi. Il premier, nel suo stile, ha lanciato una battuta affermando che in mancanza d’accordo bastava un sms e nessuno si sarebbe scomodato per venire a Bruxelles. Un bel proposito per chi in quel luogo dev’essere di casa per sei mesi… Perciò non è servita a una smarrita Mogherini la visita a Gerusalemme e Ramallah ai leader Netanyahu e Abu Mazen, nel pieno dell’ennesima tragedia che vede l’esercito d’Israele rilanciare stragi di civili su Gaza. Non sono servite le foto al museo dell’Olocausto e le immagini diffuse da molti media italiani.

Sul presunto orientamento filorusso della candidata Mogherini, insinuato dalla Gribauskaite, non abbiamo dichiarazioni  dell’interessata.  Magari, oltre a sostenere il piano South Stream che taglia via i paesi baltici da qualsiasi passaggio di gasdotti, la ministra negli ultimi tempi avrà rivolto a est uno sguardo e una vicinanza d’intenti che finora l’hanno condotta esclusivamente a ovest. Nell’ovest per eccellenza: quello che varca l’Oceano. Essere vicina al German Marshall Fund for the United States, struttura ovviamente “apartitica” statunitense fondata nel 1972 per il 25° anniversario del piano Marshall, significa aderire al pensiero dei think thank lì formati che si occupano di promozione e cooperazione fra Stati Uniti ed Europa, nelle sedi di Washington, Berlino, Parigi, Bruxelles, Varsavia, Belgrado, Ankara. Per quel che è dato sapere l’organismo sta finanziando studi per il “buon governo e la democrazia” nell’area sud balcanica, ma non siamo in grado di dirvi se queste attenzioni fossero già presenti all’inizio dei Novanta, all’epoca del cancelliere Helmut Kohl, una delle menti, insieme al papa Santo, del singulto nazionale che dalla Slovenia è tracimato a sud diventando guerra etnico-religiosa e massacro. Certo i temi della sicurezza restano al centro dell’attenzione democratica degli strateghi politici che lì si formano e studiano. Questioni come: preservare la Nato per la difesa del 21° secolo o il ruolo dello spionaggio (in relazione alla tensione fra Usa e Germania su chi controlla chi). La “fellow” e ministra Mogherini prende appunti su tutto ciò. A meno che non si sia iscritta, all’insaputa dei colleghi d’istituto e di partito, anche in qualche scuola geostrategica moscovita.  

martedì 15 luglio 2014

Afghanistan, aumentano le vittime civili


Non s’è fatto attendere il dissenso dei Taliban al piano d’unità nazionale con cui il segretario di Stato americano Kerry pensa di placare i dissapori presidenziali fra Abdullah e Ghani. Gli attentati sull’intero territorio proseguono e dopo il ferimento, nella controllatissima Kabul, di due collaboratori del leader uscente Karzai, giunge l’ennesima esplosione. Stavolta in grande stile, un botto che spezza 89 vite a Paktika, sul confine pakistano. Si tratta d’una località a ridosso dell’amministrazione federale delle aree tribali (Fata) dove agisce la componente della rete di Haqqani. L’attentato ha falciato donne e uomini nella frequentata zona del mercato in pieno periodo di Ramadan, quando di giorno si fa la spesa per i pasti serali. Lo stillicidio nei confronti dei civili prosegue su tutti versanti, la gente muore per le bombe sganciate dai droni dell’Isaf a caccia d’insorgenti e per il terrore seminato da quest’ultimi verso chi veste la divisa dell’Afghan National Army. I decessi causati dai mai dismessi Ied, i piccoli ordigni artigianali disseminati sul terreno, sono nuovamente aumentati, addirittura del 13% con oltre 200 incidenti che hanno provocato 150 vittime e circa 500 feriti. Invece le auto-bomba, come quella esplosa a Paktika, possono avere matrici varie. Alcune innescate da Intelligence votate a deteriorare quel che ancora c’è di deteriorabile nella quotidianità, seminando paura fra la popolazione e puntando ad allontanarla dalla vita collettiva.

Il rapporto semestrale dell’Unama sulle vittime civili nel martoriato Paese, ufficializzato in questi giorni, mostra un sensibile incremento di quelle scomparse che il burocratese delle relazioni Nato definisce “danni collaterali”. Tali “danni” - la morte di civili - sono cresciuti nell’ultimo triennio tornando ai livelli del 2011: si contano 1564 morti (erano 1575 nel 2011). I feriti con menomazioni spesso permanenti, come sa bene Emergency e chi s’è occupato di protesi di protesi di gambe e braccia (cfr. A. Cairo “Mosaico Afghano”, Einaudi) sono schizzati a 3289. Sotto è riportata una tabella dal 2009, anno della controffensiva occidentale contro i talebani. Da parte loro quest’ultimi hanno rivendicato 147 attacchi nei quali sono perite 234 persone e ne sono rimaste ferite 319. Una porzione di queste vittime sono finite nel mirino dei turbanti per caso, perché passavano davanti a un obiettivo preso di mira, oppure sono diventate esse stesso un obiettivo nella repressione che può scattare per una mancata collaborazione o per rapporti con strutture occidentali. D’ogni genere, comprese quelle dell’assistenza ai bisognosi. Come rivelavano alle militanti di Rawa alcune donne dei villaggi della provincia di Parwan nei quali la Onlus italiana “Insieme si può” faceva giungere le capre del suo progetto: una capra per una vedova. Quegli animali consentono alle donne rimaste senza marito o figlio o fratello, impossibilitate a uscire dal villaggio, di avviare un percorso di autosostentamento grazie a tutto ciò che l’animale può fornire nella semplice vita rurale. 


domenica 13 luglio 2014

Afghanistan, due presidenti al prezzo di uno


Raddoppia un Karzai e chiamalo governo d’unità nazionale che poi sarebbero Abdullah più Ghani - i due contendenti alla presidenza che si contestano per brogli - più i pashtun divisi fra i due fronti e tajiki e uzbeki e signori della guerra e degli affari. Riuniti tutti appassionatamente. E’ questa la quadratura del cerchio imposta dal segretario di stato americano Kerry per salvare da ulteriori complicazioni il giochino elettorale che doveva proseguire la comparsata democratica d’un Afghanistan a misura occidentale. Così è stato, perché gli Usa minacciavano di tagliare i finanziamenti a ciascuno dei soggetti che in gran parte vive di denari esteri (oltre 15 miliardi di dollari annui e nei momenti di punta addirittura 30), un obolo cui gli afghani del potere e del crimine non possono rinunciare. Budget affiancato a quello della produzione e del traffico d’oppio, un commercio, è bene ricordarlo, cui l’Occidente spacciatore e consumatore risulta interessatissimo. Poiché a loro volta gli Stati Uniti non mollano una presenza nel Paese, ora metamorfosizzata militarmente nell’occhio strategico delle basi aeree, e s’interessano di sfruttamento del sottosuolo e delle possibili pipeline verso le ex Repubbliche sovietiche caucasiche dell’energia, lusingate dagli altri giganti Russia e Cina, tutto doveva restare immutabile. E così è stato.

Secondo il traghettatore Kerry, che ha tenuto sul tema una conferenza stampa alla presenza dei pacificati candidati, molte cose restano da fare. Compresa la revisione degli otto milioni di schede (nelle scorse settimane ne venivano dichiarate sette) oggetto della contestazione di entrambi gli schieramenti che adesso certamente si placheranno. E’ previsto un trasporto delle urne a Kabul mediante un reparto elicotteristico Usa, e a seguito del riconteggio entro il 2 agosto verrà nominato un presidente. Ma lo sconfitto, o il non vincitore, sarà felice egualmente perché avrà piazzato se stesso e i suoi in posti che contano denari e uso degli stessi, non certo per opere pubbliche e per risollevare la quotidianità del 70% di afghani poveri, elettori e non. Ma così va la vita in quella latitudine e nel segno della conciliazione già è apparso il teatrino del bon ton. Abdullah ha lodato Ghani per lo sforzo di comprensione del grave momento (sic) attraversato dal Paese. L’uomo della Banca Mondiale gli ha restituito l’apprezzamento definendolo un patriota, aggettivo che fa gongolare il dottore compiaciuto nel farsi fotografare sotto le immagini di Massoud, come a voler riesumare il disegno politico dell’Alleanza del Nord degli anni Novanta. Mentre la Casa Bianca viene tranquillizzata dalla certezza che l’uno o l’altro presidente siglerà l’accordo sul Bilateral Security Agreement col quale l’Us Army procrastinerà al 2024 la sua presenza sul territorio.

Meno contenti di tali sviluppi sono i vicini di casa pakistani che dalla divisione interetnica, religiosa e politica degli afghani possono sempre trarre vantaggi per egemonie celate o esplicite. Vale per il governo di Islamabad e per l’amministrazione delle cosiddette Fata, le aree tribali che rientrano nella federazione pakistana e dove più alta è la presenza delle componenti talebane, sempre votate a un rilancio d’un proprio intento egemonico perlomeno delle province del sud-est afghano (Kunar, Nahgarhar, Paktika, Khost).