giovedì 21 maggio 2015

Palmira, l’aurora contro ogni buio

Non ce la fa Palmira a preservarsi dai conquistatori jihadisti, dopo che per giorni il fronte era arrivato fra le sue vestigia, coi seguaci di Al Baghdadi e l’esercito di Asad a combattersi ai bordi dell’area archeologica. Tramite la cittadina-museo i fondamentalisti dello Stato Islamico s’impossessano anche dell’importate via di comunicazione meridionale verso Damasco. La capitale dista circa 200 chilometri. La morsa sulla zona monumentale di Palmira è stata attuata da entrambi i contendenti, i soldati siriani in ritirata hanno continuato a lanciare missili sulle milizie nere e sulle preziose pietre millenarie.

Chi ha avuto la gioia di riempirsi gli occhi coi ‘vapori dell’aurora dalle dita rosate’ che le gemme di Palmira donano da millenni, può solo lacrimare. La rimpiangono pacifici carovanieri, beduini, mercanti sino agli odierni turisti presenti anche durante il primo deflagrare del conflitto civile-tribale-religioso-politico e maledettamente geopolitico che insanguina da quattro anni quel che resta della Repubblica Araba di Siria. Chiamata così da settant’anni, ma che era stata colonia francese, territorio ottomano, arabo, greco-romano, seleucide, babilonese e prim’ancora egiziano. Su tutto: Palmira, l’oasi, l’estatica visione. 


Per il mondo dell’arte ammaliato dalle sue colonne che pari a steli sbocciano ovunque fra la polvere rossastra, l’assedio alla Storia è più doloroso d’ogni presunta blasfemìa di cui blaterano gli uomini dagli stendardi neri. Contro cui servirebbe una nuova Zenobia, donna forte,  amante della vita e delle culture plurali. L’esatto contrario dei sistemi chiusi attorno a fedi esasperate e ossessioni del proprio dio, troppo spesso carpito e usato per il potere. Smarrita nei secoli la sua raffinata osmosi di culture Palmira rischia di perdere i pregiati massi. Già si parla di statue rimosse da salvare e all’inverso da distruggere o trafugare.

giovedì 14 maggio 2015

Terrore talebano a Kabul

L’annunciata campagna di primavera dei talebani prosegue e diffondere una scia di sangue anche sui civili. Dopo gli assalti ai mezzi pubblici dei Tehrek-e Talib ieri a Karachi, nella serata anche il ramo afghano dei turbanti ha sferrato un attacco del terrore. Colpita da un commando una festa nella guesthouse Park Palace di Kabul dove doveva esibirsi la cantante classica Altaf Houssain. Hanno perso la vita in quattordici, fra cui nove stranieri, quattro indiani, un americano e un italiano. Per il nostro connazionale la notizia è confermata dalla Farnesina, è Sandro Abati, un cooperante di 48 anni che aveva iniziato a curare affari di un'azienda d'investimenti, fidanzato con una kazaka rimasta anche lei vittima. In precedenza la Cnn indiana aveva parlato di due italiani morti su un totale di nove stranieri e precisa che non si tratterebbe d’un commando di tre uomini, come inizialmente diffuso, bensì d’un unico attentatore kamikaze. Del resto la rivendicazione giunta da un portavoce dei talebani locali fa anche il nome dell’attentatore “Muhammad Idrees, della provincia di Logar, dotato di armi da fuoco e cintura esplosiva che ha colpito un’importante riunione che vedeva la presenza di occidentali e diversi statunitensi”.

Nella fase di passaggio che dallo scorso gennaio vede le forze armate afghane occuparsi in esclusiva della sicurezza del territorio, compresi gli obiettivi sensibili della capitale, la debolezza di quest’ultime e l’inconsistenza dei piani di servizio messi in atto dal ministero dell’interno risultano palesi. Già quando questi controlli, in prossimità delle ambasciate occidentali nella “città proibita”, erano affidati a militari locali coadiuvati da truppe Nato gli attentati non erano mancati, ora l’insicurezza è ampiamente aumentata. L’amministrazione Ghani, molto attenta  all’immagine e alle relazioni diplomatiche col mondo, ratifica la linea dei grandi numeri che negli ultimi due anni ha fatto toccare la cifra record dei 350.000 uomini in divisa, mancando però di sostanza. Deve fare i conti con la volontà americana di lasciare un congruo numero di proprie truppe (alle previste 13.000 unità se ne potranno aggiungere 6-8.000) ma non a occuparsi di ordine pubblico e vigilanza che ricadono su reparti locali  impreparati e scarsamente motivati e su ufficiali ancor meno convinti e in vari casi corrotti.

Del resto lo stesso presidente oscilla fra la lotta all’insorgenza e la ricerca di dialogo con alcuni leader della famiglia talebana, in uno spregiudicato dribbling di ammiccamento e contrasto. I talebani, dal canto loro, sembrano voler sfruttare su ogni terreno l’inconsistenza dell’attuale establishment che strizza l’occhio e coinvolge taluni antichi signori della guerra (Dostum) e mantiene buoni rapporti con altri (Sayyaf, Hekmatyar) mascherando il sostanziale spirito conservatore con un volto modernista,  che gli Stati Uniti hanno sempre suggerito come look accattivante per i gusti occidentali. Nello scacchiere del grande Medio Oriente, agitato da crisi ribadite e nuovi fuochi, la centralità afghana e l’interesse per il business del suo sottosuolo coinvolge altre potenze in competizione affaristica col blocco occidentale. Per questo le 34 province dell’Hindu Kush restano in permanente allarme. La partita coi Taliban che si diceva chiusa nel 2001, in realtà non è mai terminata, la loro rigenerazione è correlata all’occupazione straniera, oltre che ai nuovi disegni del fondamentalismo mondiale. 

mercoledì 13 maggio 2015

Stato Islamico, chi muore e chi fa morire


I terribili Terik-e-Taleban tornano alla strage, rivolta in quest’occasione a una minoranza religiosa sciita: gli ismaeliti. Con la tattica del commando mobile, sette tiratori in moto hanno intercettato a Karachi un bus che trasportava il gruppo, non è certo se in viaggio di fede. I guerriglieri li hanno tempestati di raffiche di mitra uccidendone 47 fra donne e uomini;  Stavolta nessun minore è fra le vittime. Già per altri sanguinosi massacri (quello nella scuola dei figli di militari a Peshawar ha lasciato un cupo segnale per la crudeltà con cui ragazzi e bambini sono stati colpiti) tale componente intransigente dei taliban pakistani è considerata da molti analisti come una formazione che lacera le proprie radici interne e cerca crediti e alleanze fra l’internazionale del fondamentalismo. Il duetto è con lo Stato Islamico che negli ultimi tempi col ferimento, e forse il decesso, di Al-Baghdadi e nelle ultime ore con l’esecuzione, tramite un missile, del suo vice Al-Afri (Abdul Rahman Mustafa al-Qardashi), potrebbe risultare decapitata della propria leadership e direzione.

 
Quest’ultima notizia va presa con beneficio d’inventario. E’ vero che da stamane la tv irachena l’ha diffusa più volte, ma il raid aereo che ha colpito la moschea al-Shuhada - a una cinquantina di chilometri da Mosul - e di cui sono diffuse le immagini, ovviamente non chiarisce quanti e chi fossero gli uomini in preghiera. Il Pentagono, che ha diretto e fatto eseguire l’operazione dai suoi caccia, non fornisce note sui presenti che giungono, invece, dall’Intelligence statunitense. I suoi agenti avevano riferito di un’importante incontro nel luogo di culto al quale, oltre ad Al-Afri, avrebbero partecipato diversi esponenti dell’Isis e lo stesso mullah Meisar, emiro di quella provincia. Dopo le dilaganti offensive dei passati mesi estivi e autunnali lo Stato Islamico sta attraversando un periodo di difficoltà legato anche agli attacchi aerei, sia quelli a largo spettro che gli interventi mirati. Ciò nonostante il fronte delle alleanze jihadiste s’amplia e s’espande in molti Paesi. I TTP paiono porsi in prima fila per risollevare spirito e piani dei “fratelli del Daesh”.

martedì 12 maggio 2015

Saud-Usa, una passione smorzata

Voltano le spalle agli obiettivi dei fotografi gli emiri delle petromonarchie, ma le girano principalmente a Obama, un presidente considerato ormai ben poco amico. Di fatto nel giro d’incontri avviato ieri alla Casa Bianca il re dei re della dinastìa Saud, Salman, non s’è presentato. Impegnato in affari interni che hanno un sapore internazionale, perché, come dichiarano svariate agenzie, il sovrano dell’Arabia sta pianificando le prossime strategie d’attacco ai ribelli Houti, nello Yemen. Uno sviluppo dell’ulteriore crisi che infiamma il Medioriente ma in una latitudine ben vicina  alla penisola arabica. Quel che non piace a re Salman - e agli amici-alleati di Emirati Arabi Uniti, Oman e Bahrein - è la politica della mano tesa che il primo cittadino statunitense ha avviato con l’omologo Rohani. L’Iran è il grande competitore nella regione ai disegni che la dinastia di Riyad persegue da decenni, e la monarchia è a suo agio nei panni del controllore del mondo arabo e delle riserve energetiche.

Un binomio d’intenti che ha condiviso con la politica estera americana nell’area, dove ciascuno ricavava vantaggi e compenetrava l’altrui interesse. Non importa se in fatto di diritti umani e fondamentalismo diffuso la nazione saudita incarna quanto di più estremo e destabilizzante il mondo conosca. Eppure da qualche tempo il mutuo soccorso fra Washington e Riyad appare incrinato, e i forfeit di queste ore lo dimostrano. Responsabili le differenti visioni sull’alito delle ‘Primavere’ represse nel sangue o comunque bypassate in ogni nazione mediorientale e gli ‘stop and go’ di Obama in fatto di azioni di apertamente militari. Da lui  non sono benviste le operazioni della Confederazione del Golfo in terra yemenita, e se aviatori americani e sauditi cooperano per combattere lo Stato Islamico, Riyad continua a richiedere maggiori azioni di forza contro Asad che, invece, lasciano Obama riluttante.


Fino a qualche tempo fa ogni presidente statunitense guardava oltre le questioni sociopolitiche del grande Stato del Golfo perché tutto era misurato col metro dei barili di petrolio; che continuano a rappresentare un fattore determinante ma ora non indispensabile. Almeno per le nuove prospettive energetiche americane. Esse non riguardano esclusivamente la frontiera estrattiva dello shale gas, che mostra gli States in cima a qualsiasi campagna grazie alle nuove riserve di scisti bituminosi scoperti in alcuni Stati confederali (Nord Dakota) e in Alaska, seppure in barba alle contraddittorie conseguenze e ai pericoli che il metodo impone al geosistema. Già da un paio d’anni esperti di settore come l’International Energy Agency sottolineano le potenzialità americane legate alla citata di estrazione, fra un quinquennio gli Usa potrebbero contendere la leadership alla stessa Arabia Saudita che non sarebbe più una nazione chiave, ma un competitore. Il mercato fa fluttuare simpatie e odi, vedremo se le diplomazie in smoking e djellabah continueranno a frequentarsi. 

lunedì 4 maggio 2015

Ghani-taliban, incontri qatarini

Sembra lontano, lontanissimo quel 2009 quando i colloqui fra talebani afghani e uomini della Cia avvenivano nei territori “neutrali” delle aree tribali oppure nella pakistana Quetta, dove il mullah Omar trovava rifugio prima che l’offensiva della locale Intelligence lo sloggiasse anche da lì. Quegli incontri erano segretati o comunque discretissimi, per non far trapelare il doppiogiochismo praticato a fasi alterne da statunitensi (coadiuvati dai britannici) e uomini del governo Karzai, anche in concorrenza fra loro. Mentre le diplomazie avvicinavano i nemici, i militari dell’una e altra parte si sparavano addosso. Messi da parte gli appuntamenti criptici ora tutto avviene alla luce del sole. Del Golfo. Nell’ufficio talebano in Qatar, che dal 2013 rappresenta una realtà e in questi giorni ospita le fazioni. Domenica scorsa l’iniziativa ha avuto un ennesimo rilancio, sotto la conduzione del presidente Ghani che definisce i dialoghi “discussione scientifica”, mentre i taliban l’etichettano come “conferenza di ricerca”. A far da ambasciatore di bendisposti diplomatici delle due parti - rivela un informato cronista del New York Times - è Nazar Mohammad Mutmaeen, uno scrittore che all’epoca del governo talebano a Kabul ha vestito i panni di funzionario. E nonostante il passato è tornato da qualche tempo a vivere nella capitale.


Nelle trattative è presente una novità: la delegazione governativa conta anche tre donne, che per la prima volta si presentano al cospetto del fondamentalismo talebano con quel ruolo attivo, cancellato anche dai divieti imposti nel quinquennio del loro governo oscurantista (1996-2001). Non è dato sapere se lo scandaglio fra le parti prevedrà di toccare anche tematiche afferenti alla condizione femminile. Il tema è delicatissimo poiché in Afghanistan sulla pelle delle donne il potere e i comportamenti maschili rovesciano ataviche scelleratezze. Come mostrano i casi degli orrendi reiterati omicidi femminili, per i quali non bastano le possibili punizioni di legge. Su tale terreno talebani e fondamentalisti seduti nel Parlamento e presenti accanto a Ghani e Abdullah non differiscono affatto. Sicuramente si parlerà di diminuzione delle ostilità. Ma come conciliare il piano antiterroristico statunitense con l’offensiva di primavera annunciata dai turbanti neri e già avviata con azioni nella provincia di Kunduz, è tutto da scoprire. Note provenienti dalla Nato rivelano che dall’inizio dell’anno su 128 attacchi aerei prodotti dall’Air Force statunitense, 52 si sono concentrati nel marzo scorso. Significativo esempio di come Washington non stia affievolendo affatto il proprio impegno militare.

L’Egitto del non voto

C’è un pezzo di politica egiziana, quella non finita nelle prigioni ordinarie e degli scomparsi, che inizia a interrogarsi su quale quotidianità si prospetti al proprio Paese. Lo fa con circa due anni di ritardo dal golpe bianco dell’esercito, prendendo spunto dalla propria condizione di mancato parlamentare. Mancato perché quell’Istituzione stenta a ricomparire nelle dinamiche politiche interne, definibili in vari modi tranne che democratiche. Per chi non ricordasse: il Parlamento del Cairo venne sciolto a fine giugno del 2012, subito dopo l’elezione a presidente dell’islamista Mursi. Ma non fu lui o il suo partito a cancellare l’Assemblea del Popolo, bensì l’ancora attivo Consiglio Supremo delle Forze Armate che continuava a essere il convitato di pietra della scena politica interna. Con quel taglio si voleva impedire al governo della Fratellanza Musulmana, che aveva fatto il pieno di consensi alle consultazioni del 2011-2012, di trovare nell’organo rappresentativo del Paese un sostegno alla propria azione politica. Dopo la legittimazione elettorale dell’anno scorso Al-Sisi aveva promesso di giungere nei mesi successivi alla scadenza consultiva per riformare il Parlamento. Ma anche le programmate scadenze del marzo scorso e del presente mese di maggio sono venute meno.

Nel commentare la cancellazione il generale-presidente afferma che la consultazione eventualmente avverrà dopo il mese santo del Ramadan, che si concluderà a metà luglio. Il periodo rilanciato è ottobre, seppure a crederci sono rimasti in pochi. I due motivi di rinvio sono finora stati: la sicurezza interna mesa in pericolo dalla sequela di attentati e l’ulteriore ritocco alle percentuali di rappresentanza, la cui ultima versione sfornata dalla preposta Commissione di studio prevede: 596 deputati,  448 eletti come indipendenti (seppure appoggiati direttamente o meno a liste di partito), 120 espressione di partiti e 28 nominati dal Capo di Stato. Anche analisti rimasti per mesi silenziosi o in surplace di fronte alla linea repressiva incarnata da Sisi e colleghi militari, cominciano a dubitare sulle intenzioni realmente democratiche del presidente. Temono che l’emergenza sicurezza diventi l’alibi per tenere congelata la scena. Anche la sequela d’incidenti e catastrofi interne ricordano una tattica in voga ai tempi di Mubarak. Ultimamente sono stati colpiti tralicci elettrici nel governatorato di Beheira, quindi un episodio simile s’è ripetuto a piloni del Cairo Media Center. E ancora: milioni di danni per un deragliamento della metropolitana della capitale e il crollo di un ponte a Mansoura, nel Delta del Nilo. Fino all’affondamento d’un carico di 500 tonnellate di fosfato nel grande fiume presso la città di Qena.


Casualità, sfortuna, negligenze nei controlli e nell’organizzazione del lavoro? Può darsi, ma in molti rammentano come questo genere di “emergenze” create ad arte, consentivano a presidenti autocrati alla Mubarak, e predecessori, a concentrare l’attenzione sulle stesse, evitando differenti impegni. Un modo di governare, dunque, tenendo la popolazione con l’acqua alla gola e nell’incertezza del presente. Così la questione dei diritti umani violati, sollevati non solo da Amnesty International ma nelle ultime settimane anche da commentatori locali, passa in seconda e terza linea, schiacciata da cronache più o meno catastrofiche. Oppure la condizione dei beduini del Sinai, arrestati in massa e in alcune circostanze passati per le armi durante repressioni antiterroristiche, pagano il pegno alla sicurezza nazionale messa in forse dalla presenza jihadista. Ridanno fiato a un malcontento anche quei socialisti che avevano offerto copertura di sinistra alla cosiddetta “rivoluzione della seconda primavera” (del 30 giugno 2013) con cui milioni di cittadini manifestarono contro Mursi, chiedendone la rimozione. Invece i nasseriani sono sempre al fianco dell’uomo forte, che “ha fatto un brillante lavoro, migliorando le relazioni con gli Usa, difendendo la nazione dal terrorismo e puntando allo sviluppo economico“. Proprio così. Affermazioni da campagna elettorale, che però non c’è.