lunedì 30 gennaio 2017

L’Amerika che non dimentica lo schiaffo iraniano

Lo spirito razzista presente negli Stati Uniti è stato celato dietro pronunciamenti democratici e pretese di diritti umani”. “Menzionare l’Iran fra le nazioni che introducono azioni terroriste ha il sapore di uno scherzo” ha affermato il portavoce del parlamento iraniano Ali Larijani.  Una reazione tutto sommato diplomatica alla sortita del presidente Donald Trump che, incurante dell’intera popolazione americana, del Congresso, delle tendenze presenti nel suo stesso partito, ha firmato quel decreto che vieta per tre mesi l’ingresso nel Paese ai musulmani di sette nazioni: Iran, Iraq, Siria, Libia, Yemen, Sudan, Somalia. Mentre monta la protesta degli americani anti Trump dall’Iran, con cui la politica statunitense aveva negli ultimi mesi trovato una distensione grazie all’azzeramento delle sanzioni economiche, giungono commenti  vari. Sibillino quello del ministro degli Esteri Javad Zarif “Un magnifico regalo agli estremisti” che possono essere individuati nei jihadisti sparsi per il mondo, e pure nella componente conservatrice interna. Quella teologica di certi ayatollah e quella laica del partito dei Pasdaran che riprenderebbero il braccio di ferro con l’Occidente ora che s’approssimano la campagna elettorale e la battaglia contro i riformisti  (le presidenziali sono previste per il 18 maggio). La rimozione delle sanzioni sta avendo un effetto rigenerante per l’economia iraniana, con 10 miliardi di dollari di progetti legati all’energia che sono stati stipulati con varie compagnìe estere.
Se quelle di sponda russa e cinese non saranno coinvolte in nuovi scossoni geopolitici, i marchi giapponesi, sud coreani, turchi e poi tedeschi, inglesi, belgi, danesi, olandesi, spagnoli potrebbero vedersi piovere addosso la mannaia di ennesimi embarghi cui allinearsi in virtù della vicinanza strategico-militare con Washington che riporterebbe ai recenti anni dello scontro sul nucleare o quelli remoti della crisi con la fatwa khomeinista. Sul tema interviene proprio il ministro iraniano dell’Energia Hamid Chitchian, che ha sollevato la questione alla vigilia dei dieci giorni di festeggiamenti per l’anniversario della Rivoluzione iraniana in programma dal 1° al 10 febbraio. Ha ricordato come per alcuni progetti energetici nel marzo prossimo è attesa la definizione di contratti per 2 miliardi di euro con alcune compagnìe europee, mentre nei dieci giorni della memoria khomeinista ben 5.000 piani per l’energia, in gran parte riguardanti il settore elettrico anche con energie rinnovabili, dovranno trovare attuazione. Alcuni investimenti riguardano nazioni contigue come l’Iraq, altri lo stesso territorio interno e offrirebbero libertà d’iniziativa ad aziende private della più varia provenienza. Anche per questo l’attuale dirigenza di Teheran vicina al presidente Rohani non ha alcun interesse a rompere il clima di collaborazione miracolosamente ripristinato e spenderebbe a suo favore nelle urne il fiume di denaro che i contratti possono introdurre nelle casse statali o nelle bonyad di clerici e Guardiani della Rivoluzione, visto che diverse aziende interne afferisco a tali proprietà.

Ma per mister Trump ideologia ed energia hanno una rima che conduce a quell’interesse americano carezzato anche prima del suo arrivo. L’esempio delle concessioni governative alle volontà della lobby dei propri petrolieri è lampante. Trump non c’era, Obama subiva questi voleri e la produzione statunitense negli ultimi anni ha raggiunto vette mondiali contro qualunque accordo sull’estrazione, in faccia a qualsiasi buon rapporto con le amiche petromonarchie; e pure contro qualsiasi logica di guadagno, visto gli altissimi costi della scellerata tecnica della 'frantumazione idraulica' oltre che la pessima qualità degli idrocarburi estratti bisognosi di un'altrettanto costosa lavorazione. Però così l’America è diventata autosufficiente, anzi è in testa alla produzione mondiale, compete coi colossi di gas e petrolio. L’Iran è fra questi, e com’era già accaduto, creare fratture ed embarghi economici è un gioco perverso che non provoca ripercussioni sul colosso d’Oltreoceano, ma fra iraniani e partner commerciali europei. Che il business personale e le propensioni politiche del neo presidente americano abbiano la meglio sulla stessa ideologia sarebbe dimostrato dall’esclusione dai divieti d’ingresso in territorio Usa di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Libano, Egitto. Taluni analisti sostengono che non sarebbe questo il motivo: altre inaffidabili nazioni islamiche (il Pakistan su tutte) non rientrano nella lista nera. Si mira a colpire nazioni dai governi deboli o inesistenti (Siria, Iraq, Libia, Somalia) e quelle con cui amerikani che non dimenticano hanno conti in sospeso, sommando la lesa maestà del passato con gli attuali riequilibri strategici e di mercato.

giovedì 26 gennaio 2017

Turchia, le acrobazie erdoğaniane fra Putin e Trump

In attesa della conferma referendiaria di aprile, che può renderlo padrone assoluto delle Istituzioni turche, il presidente Erdoğan tiene viva l’attività diplomatica con l’occhio sempre rivolto alla geopolitica. In questi giorni è volato in Africa (Tanzania, Mozambico, Madagascar) per scucire più che per tessere tele relazionali. L’intento è rivolto contro l’odiato network dei cosiddetti fethullaçi, che in diversi Paesi africani, anche in base al credo islamico e al conseguente impegno sociale e umanitario, hanno creato da tempo scuole e servizi. Erdoğan lo sa perché da premier, e alleato dell’imam alloggiato in Pennsylvania, aveva sostenuto le iniziative che gli producevano popolarità interna e internazionale. Ora cerca di svilire questi accordi, accusando l’organismo Hizmet d’essere uno dei volti dell’organizzazione terrorista responsabile del tentato golpe in patria nell’estate scorsa. Screditare Gülen, tagliarne i gangli vitali dei ritorni economici miliardari prodotti da quell’attività è diventata una missione che il leader turco insegue da tre anni e che, dopo il putsch fallito, s’è trasformata in ossessione. Una parte del business fethullaçi è presente proprio negli Stati Uniti, si parla di più di 250 scuole, utilizzate dalla comunità islamica. Il presidente turco aveva lanciato la doppia richiesta di estradare il capo e chiudere quegli istituti, come aveva fatto sul territorio anatolico. Obama non l’ha ascoltato.
Attualmente pensa di riprovarci con l’amministrazione Trump con cui potrebbe giocare la partita geopolitica del ‘dare per avere’. Però l’intento può risultare debole su più fronti. Le tendenze, per ora isolazioniste, manifestate dal neo presidente Usa non dovrebbero produrre alcuna gelosia sul piano strategico internazionale, il presidente tycoon potrebbe disinteressarsi alle effusioni in corso fra Ankara e Mosca. Già l’Obama-due aveva tenuto un basso profilo sullo scacchiere mediorientale, sommando ambiguità a una contraddittoria non presa di posizione, anche di fronte ai pericoli palesi espressi dallo Stato Islamico, Trump può seguirne la tendenza alla faccia del “First America” e dell’immagine decisionista. Da mesi si discute dell’occupazione putiniana dello spazio diplomatico lasciato vacante dagli Stati Uniti su scenari di guerra (Siria, Iraq) e d’irrisolte tensioni (questione israelo-palestinese), eppure l’avvicinamento tattico fra Turchia e Russia può non interessare granché il nuovo capo della Casa Bianca (Pentagono permettendo). Anche il ruolo strategico-militare della Nato viene ridimensionato, lo starne dentro o fuori di Ankara non deflagrerebbe come una minaccia. Siamo comunque nel terreno delle congetture. I tentativi erdoğaniani di strappare Gülen dal dorato ritiro americano e portarlo come trofeo a un processo in casa, che produrrebbe consensi stratosferici al presidente, non dovrebbe essere semplice.

A meno che proprio lui non dovesse spingere su un acceleratore  pericoloso: l’islamismofobia che circola nello staff Trump. Ne ricorda qualche esempio un editorialista del quotidiano liberal Hürriyet: sia il responsabile della Sicurezza Michael Flynn, sia il direttore della Cia Pompeo vedono nell’Islam un demone assoluto da combattere, il primo trasformando l’irrazionalità in disegno razionale e praticabile, il secondo cercando capri espiatori, meglio se organizzati come nazione con cui si hanno conti in sospeso: l’Iran. E non sono i soli. Il nuovo Segretario di Stato Rex Tillerson è conosciuto come un anti musulmano di vecchia data, che parla di colpire il Daesh e Qaeda, ed Hezbollah e la Fratellanza Musulmana, senza distinguo né soluzione di continuità. Con questi uomini e la campagna d’intenti manifestata dall’ousider diventato primo cittadino d’America l’intento potrebbe risultare un ottimo argomento per sfrattare l’imam dal suo rifugio. Ma ovviamente non finirebbe lì. S’innescherebbe non solo un processo che riguarda un pezzo della comunità statunitense, ne verrebbe coinvolto lo stesso progetto islamista del presidente turco. Così il piano d’estradizione di colui che Erdoğan presenta come il maleficio del Paese difficilmente potrà avverarsi. Seppure col ciclone Trump l’impensabile può diventare reale e il presidente-sultano sia un politico cui piacciono i grandi rischi. 

martedì 24 gennaio 2017

Egitto: omicidi e falsità di regime da Said a Regeni

Nel voler fare dell’omicidio Regeni l’ennesimo dramma ‘irrisolvibile’ ecco che indizi e prove spuntano e ricadono con una periodicità finalizzata a rimandare a infinite rivelazioni successive. Una trama perfetta in cui la tensione sale e scema senza giungere al cuore del mistero, che mistero poi non è, perché la vicenda rientra a pieno nella casistica globale degli omicidi di Stato. Bastava aver seguito quel che accade in Egitto da anni, e dopo la speranza di Thawra in occasione della scadenza del 25 gennaio. Nell’ultima messa in scena di queste ore la regia cairota decide di mostrare un altro tassello. Non parliamo della regia televisiva che manda in onda un filmato del ricercatore ripreso dal sindacalista-spione a servizio dell’Intelligence di Sisi tramite una microtelecamera nascosta. Il presunto scoop è solo uno strumento usato dalla cabina di regia del regime medesimo, dai suoi uomini di punta come il ministro dell’Interno Ghaffar da cui l’Agenzia di Sicurezza prende ordini. Con quelle immagini e quel colloquio rubati costoro vorrebbero rilanciare la tesi di un Regeni che, consapevolmente o meno, si fa tramite di raccolta d’informazioni che l’Università di Cambridge passerebbe all’Intelligence britannica. Un filone da spy story, gettato lì, come altre congetture (il decesso per incidente, l’intreccio di relazioni gay, il presunto rapimento da parte di una gang con tentativo d’estorsione e tragica fine) che gli apparati polizieschi hanno prodotto nelle settimane successive al ritrovamento del cadavere.
Se n’è scritto a lungo, si sono lanciate anche ipotesi a seguito di passaggi incongruenti: perché fare trovare il corpo seviziato del giovane e non farlo sparire nel nulla com’è drammaticamente accaduto per decine di attivisti scomparsi? C’è chi vuole screditare il governo? Chi gli rema contro? Potrebbe essere un’ipotesi, ma manca di conferme. Al contrario il regime dice altro e lo ribadisce da tempo. Attraverso un sistema di terrore diffuso, di delazione e di omertà l’attuale generale-presidente, la lobby militare da cui proviene, gli organi repressivi di cui si serve, i gruppi politici ed economici che lo sostengono hanno istaurato nel Paese dal luglio 2013 un odioso clima persecutorio lanciato contro gli oppositori. Quelli di sponda islamista, iniziati a massacrare per via (con la mattanza della moschea di Rabaa del 14 agosto 2013), e a seguire omicidi di attivisti laici, lavoratori e sindacalisti, cui norme sedicenti di sicurezza diventate legge marziale di fatto, impediscono di riunirsi in piazza. Sfidandole il 25 gennaio di due anni fa Shaimaa al-Sabbagh, un’insegnante, scesa in strada a manifestare insieme a dei colleghi, trovò la morte. Dell’assassinio nessuno rispose. Tutto è rimasto vagante, come i proiettili che le hanno fermato la vita. Questa vittima, una donna, una professionista, non uno scalmanato ragazzotto di Tahrir, serve a Sisi per tracciare il confine fra quel che è lecito (l’obbedienza e l’asservimento) e ciò che al potere risulta insopportabile (la contestazione). E naturalmente chi vuole narrare tutto ciò.
Il messaggio serve da monito, come le migliaia di arresti e sparizioni, le bocche cucite all’informazione, lo strazio del ricercatore trattato come un agente provocatore. Tutto condito col consenso dei concittadini, anche dei più sensibili a questioni sociali come gli iscritti a taluni sindacati inquinati da collaboratori della polizia, resi perversamente complici attraverso l’arma del ricatto oppure spinti nuovamente nel ghetto del silenzio, della paura, dell’impossibilità di cambiare, all’opposto delle speranze innescate il 25 gennaio di sei anni fa. Doveva accadere lo scempio di Giulio Regeni, che studiando il Paese scopriva i gangli d’una mai morta corruzione, per osservare da vicino la violenza istituzionalizzata che gli oppositori denunciavano dai tempi di Murarak, epoca in cui la polizia faceva di Khaled Said un’angosciante maschera di morte anche più sinistra dello studioso friulano. La costante della violenza non ha conosciuto soste in Egitto, praticata da ogni apparato: i baltagheyah, picchiatori prezzolati che assaltavano le tende degli accampati a Tahrir durante il governo provvisorio del Consiglio Supremo delle Forze Armate, o quelli che bruciavano le sedi della Fratellanza Musulmana nei mesi della contestazione alla presidenza Morsi, sia la polizia che stuprava Samira Ibrahim oppure spogliava e picchiava per via le dimostranti. Col regime di Sisi, introdotto dallo sciagurato sostegno offerto ai militari dai liberali di ElBaradei e dalla “sinistra” di Sabbahi, i mukhabarat, gli agenti segreti hanno mutato nome (National Security Agency) non la sostanza e i metodi, rimasti quelli di sempre.

Visto che in quel Paese quasi nulla si può muovere sono la politica e la società civile internazionali a dover lanciare segnali e opporsi alle sevizie d’un popolo. I vertici del nostro Stato, il ministro degli Esteri Gentiloni diventato premier, che dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni prometteva fermezza e giustizia, non profferisce parola. Segue le scelte del suo predecessore che all’ipotesi di rotture diplomatiche con un regime di torturatori, ha pensato alle casse delle nostre imprese (una è l’Eni) dirigendo lo sguardo altrove. Verità e giustizia per Giulio Regeni, ma quando e grazie a chi?

lunedì 23 gennaio 2017

Turchia, ad aprile il referendum pro Erdoğan

Le mani dei deputati dell’Akp, strette a pugno o aperte, stavolta sono levate al cielo in segno di vittoria perché il pacchetto di emendamenti che trasforma il sistema parlamentare della Repubblica turca in sistema presidenziale è stato approvato con una maggioranza di 339 voti. E loro festeggiano e pregustano il consenso che il voto popolare potrà offrire attraverso il referendum confermativo in programma il 2 o 9 aprile prossimo. Il partito di maggioranza, che ha preannunciato d’iniziare la campagna per l’approvazione della riforma dal prossimo 7 febbraio, cerca in un’urna che è sicuro di dominare quel consenso di popolo che abbia la valenza politica d’un abbraccio delle masse alla sua linea in un momento in cui il Paese è piegato e stordito dalle stragi interne. Il via libera referendario alle nuove norme - considerate dall’opposizione una controriforma scagliata contro la laicità dello Stato, il potere parlamentare, il valore di rappresentanza del pluralismo - offrirebbe quella legittimità democratica che Erdoğan ha sempre rivendicato alla riforma e alla sua linea politica. La personale scalata al potere è frutto di sostegno e consenso e, sebbene ci sia una parte della nazione che gli si oppone, un buon pezzo della gente turca non l’abbandona. E’ accaduto anche nelle ore di paura del tentato golpe di luglio: in tanti si sono precipitati in strada mettendo a repentaglio la vita per difendere il Presidente e la Patria. Così il personalismo egocentrico dell’ex premier e sempre leader dello schieramento islamista ha ricevuto ulteriore slancio. Nonostante la fase plumbea vissuta dalla nazione dal punto di vista della sicurezza messa a repentaglio dall’interno e dall’esterno, ha utilizzato a suo favore quest’identificazione giocando una partita estrema.
I tanti nemici (contestatori, oppositori, jihadisti) sono presentati come terroristi o traditori con l’unico scopo d’indebolire e piegare la Turchia, un sistema-paese forte d’un progetto che dopo il rifiorire economico prevede un grande rilancio internazionale, se non nel sogno ottomano perlomeno nella volontà egemonica regionale. Una linea che ha trovato estimatori anche fra i kemalisti: elettori repubblicani che nel 2015 l’hanno votato e deputati nazionalisti, che hanno fatto giungere l’appoggio nel momento topico del confronto nel Meclis. Senza la pattuglia di Baçheli il pur consistente corpaccione parlamentare dell’Akp non avrebbe superato i 330 voti che ora portano alla verifica referendaria. Niente sarà più come prima: i decreti del super presidente potranno prendere il posto di varie leggi parlamentari, addirittura figure di “vicepresidente” potranno essere nominate al di fuori del Parlamento, i cui doveri sono modificati. Ad esempio i deputati avranno facoltà solo di sorveglianza sui ministri e sui loro gabinetti, non conserveranno l’autorità di assegnare ai gabinetti formulazione di decreti con effetto di legge. Il super presidente oltre a rilasciare decreti, sciogliere il Parlamento, indire elezioni, dichiarare lo Stato d’emergenza (per ragioni di sicurezza questa condizione è in vigore dallo scorso luglio), avrà un peso non indifferente sul Consiglio Supremo dei Giudici e Procuratori. Il cui numero viene ridotto da 22 a 13 membri: quattro più un giudice ministero e un sottosegretario, nominati dal Capo di Stato, saranno membri permanenti. Le restanti sette nomine verranno effettuate dal Parlamento, dove il partito di maggioranza (l’Akp del presidente) fa pesare un non indifferente controllo. Insomma la democrazia resta molto sulla carta, enon proprio su quella Costituzionale.

venerdì 20 gennaio 2017

Egitto: accuse di terrorismo a una stella del pallone

Per ora non finisce in galera come l’ex presidente Morsi, ma l’accusa per l’ex campione del calcio egiziano Mohamed Aboutrika è la stessa rivolta a qualsiasi aderente alla Fratellanza Musulmana: terrorismo. E’ quanto stabilisce la legge in vigore dal 2015 che ha fatto sentenziare migliaia di anni di galera contro i militanti di vertice e di piccolo cabotaggio del gruppo islamista. Aboutrika, dall’alto della sua ricchezza (era il secondo calciatore più pagato del Paese dopo Salah, che sta guidando l’attacco della Roma), sarebbe accusato di aver finanziato l’attività della Confraternita. Come tanti cittadini e personaggi pubblici, si spese a favore della candidatura alla presidenza di Mohamed Morsi nella campagna elettorale del giugno 2012 (quando l’esponente della Fratellanza si misurò con Shafiq e vinse) però, nega di aver mai finanziato il gruppo. Il trentottenne trequartista, ritiratosi dallo sport nel 2013, resta al centro dell’attenzione dei media in virtù di un’invidiabile carriera con cui ha vinto otto scudetti col club Al-Ahly, ha ottenuto in quattro occasioni la palma del miglior giocatore africano, segnando il gol che nel 2006 fece conquistare alla nazionale la Coppa d’Africa. Ora, finito nella ‘lista dei terroristi’, si ritrova nell’impossibilità di muoversi dal Paese.

Avrà il passaporto congelato per tre anni, lasso temporale di questa misura restrittiva, una sorta di limbo che costituisce una punizione minore, visto che altre aggravanti conducono i presunti terroristi direttamente nel braccio denominato ‘Scorpione’ della prigione cairota di massima sicurezza di Tora. L’ex presidente Morsi e la giuda spirituale della Brotherhood Badie, tanto per citare due nomi noti, sommano la presenza nella lista e anche in prigione. L’indice rivolto contro Aboutrika si collega agli ultimi arresti - nove - di adepti della Fratellanza additati come capi dalle forze di sicurezza che li hanno arrestati. Un’operazione piazzata a ridosso del fatidico 25 gennaio, data ormai significativa per l’Egitto che osò ribellarsi al regime dei militari e di Mubarak e che in seguito ha trovato conferma peggiore nella presidenza Sisi. E’ lui la massima autorità  che ostacola la verità sull’omicidio di Giulio Regeni e di centinaia di persone finite allo stesso modo e mai ritrovate. Ora il regime sarebbe in fibrillazione per possibili nuove manifestazioni, seppure d’entità ridotta, in ricordo del ‘giorno della collera’; come già prospettato un anno fa quando il ricercatore friulano scandagliava gli umori di lavoratori, prima di cadere nella rete intessuta da informatori e repressori.