lunedì 30 ottobre 2017

Kurdistan nel limbo, Barzani rinuncia alla presidenza


Proseguirà - così ha scritto in una lettera inviata al Parlamento regionale - a rincorrere, assieme agli amati peshmerga, il diritto di ottenere una nazione kurda, ma per ora Masoud Barzani rinuncia a rivestire l’incarico di presidente del Krg che scade il 1° novembre. Una decisione controversa ma realistica, seguìta alla fase del successo del referendum da lui fortemente voluto e vinto il mese scorso con un consenso del 93%, cui è seguita la minacciosa reazione del governo iracheno. E la minaccia s’è concretizzata in quel movimento di truppe e carri armati giunti sin nel cuore di Kirkuk. Così capitale del petrolio, ripulita dall’Isis a opera dei guerriglieri kurdi, veniva occupata dalle truppe spedite da Baghdad che l’hanno riconquistata senza combattere. I peshmerga, per non cadere in un conflitto fratricida, si ritiravano anche in virtù delle grandi manovre diplomatiche compiute da potenze locali (Arabia Saudita, Turchia e pure Iran) schierate col governo di Abadi. Visto l’abbandono statunitense al suo piano di consolidare il ruolo autonomo della regione del Kurdistan tramite una ratifica dell’indipendenza, Barzani aveva fatto ripiegare le sue milizie. Le elezioni previste per l’inizio di novembre sono state posticipate di otto mesi e ora c’è bisogno di riempire il vuoto d’incarico e di potere.
La richiesta viene da Barzani in persona, l’ha girata al Parlamento del Kurdistan ben conoscendo le difficoltà che essa suscita, in una struttura rimasta bloccata per due anni. Lui, navigato e astuto politico, resta alla guida del Partito Democratico del Kurdistan, forza maggioritaria nei confronti dell’Unione patriottica (che il 3 Ottobre scorso ha perso il vecchio leader Talabani) e del Gorran, formazione d’ispirazione nazional-liberale che ha fortemente contestato il clanismo e la corruzione presenti nella politica kurdo-irachena. Si vocifera che nelle manovre di Barzani senior alberghi il piano di aprire la strada per incarichi superiori a suo nipote, Nechirvan, il cacciatore in doppiopetto, già investito del ruolo di premier del Krg. Il nome in kurdo ha questo significato, mentre la descrizione dell’eleganza riguarda la funzione dei contati diplomatici finora svolti, assai attivi per perorare la causa della regione autonoma. Tale nepotismo è proprio ciò che l’opposizione del Gorran vorrebbe evitare offrendo segnali di discontinuità alla gestione familistica della rappresentanza e del potere. Ma le ramificazioni tribali dei Barzani sembrano avere gioco facile nei territori di Duhok, Erbil, Sulaimaniya, Halabja, le aree del Krg che hanno offerto un riscontro anche nell’urna alle posizioni del Pdk. Ma è il corto circuito creato sulla scena geopolitica a caratterizzare una situazione che rischia di restare congelata per un periodo indefinito.   

giovedì 26 ottobre 2017

Afghanistan, i pendolari del Jihad


Non è escluso che negli ultimi sanguinosi attentati contro la comunità sciita afghana di Kabul (venti morti il 29 agosto e quarantadue lo scorso 20 ottobre) ci sia la mano dei pendolari del Jihad, quelli che abitualmente attraversano in alcuni punti stabiliti il confine afghano-pakistano, lungo la storica linea Durand. Un tragitto gestito dalla Shura di Quetta e ormai noto alle polizie dei due Paesi, ma da esse ignorato. Le citate stragi sono state rivendicate dall’Isis contro cui la componente ortodossa dei talib si è  apertamente pronunciata. Però in quell’autostrada del traffico di miliziani, armi, droga e commerci vari può essersi inserito anche qualche dissidente sconosciuto perché, a detta di osservatori geopolitici locali, gli attentati rivendicati dalla Stato Islamico sono compiuti da ex talebani che usano il brand del Califfato. Sia costoro (ad esempio il gruppo del Khorasan) sia i più numerosi combattenti talebani fanno di quel confine poroso il proprio territorio. Nessun apparato di sicurezza sembra interessato a fermarne attraversamenti, flussi, scambi, e creazione di basi per addestramento, incontri, riposo e riabilitazione dei feriti. E’ una zona senza controllo terrestre che corre per 2.400 chilometri, toccando un terzo delle province afghane. Chi ha studiato geograficamente l’area cita ben 235 punti di possibile attraversamento, uno ogni 10 chilometri. Quelli usati ufficialmente dai mercanti locali sono una ventina, due con check-point presidiati: la cosiddetta Porta di Torkham, nell’area di Nangarhar e quella di Wesh-Chaman a sud verso Kandahar. Lì c’è dogana con tanto di poliziotti sui due lati inviati da Kabul e Jalalabad; non incorruttibili, ma presenti.
Però chi vuole evitare controlli, anche per la semplice merce legale come frutta e verdura, non dunque per oppio e derivati, sceglie altri passaggi. Che poi sono gli stessi da decenni, forse da secoli. Gli ultimi a usarli erano stati i mujahhedin islamici opposti alle truppe sovietiche intervenute in appoggio al governo del Pdpa e trattate da occupanti. Sigillare tanti passaggi significa disporre in quei punti migliaia di soldati e rifornirli periodicamente, esponendoli a quegli attacchi che vengono portati anche in vigilatissime aree urbane, figurarsi in lande sperdute. Perciò i governi dei due Stati non hanno mai imboccato questa strada, restando però tagliati fuori da una presenza sul territorio e da un rapporto con le sue popolazioni. Prevalentemente d’etnia pashtun e in molte aree legate da relazioni tribali centenarie, non a caso il Pashtunistan è considerato da molti clan un’entità assai più credibile degli Stati nazionali afghano e pakistano. Quest’ultimi, lì dove sono presenti con check point e uomini, mostrano verso la ‘lunga linea dello sconfinamento’ un comportamento opposto: tendenzialmente repressivo da parte di Kabul, seppure con risultati di sconsolante incapacità fino a confessarsi riluttante ad affrontare il problema. Benevolente sul lato di Islamabad, i cui agenti sembrano offrire il benvenuto ai turbanti e non solo per la comune fede islamica. Cosicché i transiti proseguono indisturbati con manipoli armati mescolati alla gente che commercia oppure traffica illecitamente.
Essere lì è sicuramente strategico, perché i talib stabiliscono relazioni con la popolazione, l’aiutano nel commercio legale e nel contrabbando, la ‘proteggono’ in cambio di tangenti o favori. I transiti di Bahramcham, a 300 chilometri a sud di Lashkargah, e quello di Badini, in una zona più centrale del confine nel distretto di Zabul, sono da una quindicina d’anni passaggi controllati esclusivamente dai talebani. Nessuna Enduring Freedom o Isaf Mission è riuscita a bloccarne la movimentazione. Solo l’uso dei droni ha raccolto qualche risultato, colpendo il bersaglio prescelto. Nel maggio 2016 c’è stato uno strike significativo quando è stato centrato il pick-up su cui viaggiava il leader Akhtar Masour, neo eletto dopo il lungo periodo in cui la famiglia talebana aveva celato la morte del mullah Omar proprio per superare le divisioni interne. Mansour attraversava il confine come un qualsiasi commerciante, fra gli stessi mercanti della tribù Eshaqzai, e i vertici talib sospettano che la Cia l’abbia individuato grazie alla lucrosa soffiata di uno di loro. Quell’operazione venne definita da Obama “un passo verso la pacificazione del Paese”. Una delle mille boutade del ‘presidente We can’. Dopo neppure due settimane tutti i talebani d’Afghanistan (dalla Shura di Quetta alla rete di Haqqani) eleggevano Hibatullah Akhundzada, un chierico molto più intransigente del precedente capo, che ha accelerato il disegno offensivo interno. Perché, ben oltre i piani della Casa Bianca e i sogni del replicante Ghani, il progetto di pacificare l’Afghanistan con un accordo deve fare i conti col disegno talebano di riconquistare il potere con le armi. Un percorso lungo, al quale comunque credono.
A fronte d’una propria strategia sempre più aggressiva nel Paese dell’Hindu Kush i turbanti si trovano a dover contenere politicamente le fughe verso il Califfato dei dissidenti del Khorasan o i Teerek del Waziristan e altri ancora, più o meno coperti, che seminano bombe firmandosi Isis. I talebani ortodossi, che puntano a un proprio governo, utilizzano la frontiera coloniale Durand, ma pensano alla nazione afghana più che a rincorrere i fantasmi del Pashtunistan. Ultimamente ricevono minor trattamento di favore da parte pakistana, che per anni gli ha consentito di addestrare guerriglieri e riversarli oltreconfine. Una benevolenza non del tutto spassionata da parte di Islamabad, visto che nelle sue mire di potenza regionale persiste l’idea di tenere i vicini nel caos per poterne trarre i vantaggi della possibile disgregazione territoriale. Tuttora permane in territorio pakistano qualche centro di cura per guerriglieri feriti, ma lo stato maggiore talebano per non trovarsi in difficoltà ha cercato alternative creando strutture in Afghanistan. La più adeguata dal punto di vista sanitario è a Nawa, nel distretto di Ghazni. E sebbene permanga il rischio d’essere infiltrati e traditi, come nell’ipotesi fatta sull’eliminazione di Mansour, si è programmato di collocare certe basi di addestramento e casematte non più in aree isolate, che diventano bersaglio facile e sicuro, bensì fra la popolazione usata come scudo umano. Non è detto che si evitino con certezza i raid dell’aviazione Usa, anche per quel che rivelano le accresciute cifre 2016 su vittime e feriti fra i civili, ma la tendenza degli ultimi tempi ha preso questa direzione. In Afghanistan la guerra prosegue, come sempre sulla pelle degli abitanti. 

lunedì 23 ottobre 2017

La Valletta: migliaia in piazza contro la politica dell’omertà


Rispondendo agli allarmati quesiti della stampa internazionale, a ridosso dell’assassinio di Caruana Galizia, il premier maltese Muscat aveva promesso solennemente di far luce sull’efferato delitto. Quindi invitava i familiari ad aver fiducia nella giustizia. Sdegnata e ferma era giunta la risposta dei figli Mattew, Andrew e Paul. In un comunicato diffuso tramite i social media chiedevano le dimissioni del primo ministro e del suo staff, chiosando: “Chi per tanto tempo ha cercato il silenzio di nostra madre non può ora offrire giustizia”. E ancora: “Non siamo interessati a una giustizia senza cambiamenti. Il governo pensa solo a una cosa: la sua reputazione e ha bisogno di nascondere il buco dove son finite le istituzioni. Non è questo il nostro interesse, né era quello di nostra madre. Un governo e una polizia che hanno fallito nella difesa della vita di nostra madre, falliranno anche nell’indagare sulla sua morte”. Ieri una parte della società maltese ha ribadito il concetto manifestando in strada, come avevano già fatto venerdì scorso i colleghi di Daphne. Un corteo composto, ma determinatissimo s’è diretto sotto il quartier generale della polizia a La Valletta. Ha richiesto a gran voce e, poi leggendo un comunicato, le dimissioni dell’attuale capo della polizia, Lawrence Cutajar, e l’elezione di un nuovo rappresentante per dirigere le indagini assieme alla magistratura.

Fra la folla c’era anche la presidente maltese Marie-Louise Coleiro Preca, in carica dal 2014, anche lei, come il premier, aderente al partito laburista. In una dichiarazione aveva bollato l’omicidio della giornalista come un attacco codardo e osceno allo stesso Stato maltese. Ieri ha fatto richiamo a forza, coraggio e solidarietà popolari per rintuzzare un disegno che punta a impaurire le persone e a destabilizzare i rapporti civili. In realtà una parte della società locale è destabilizzata proprio dalla sequela di affari oscuri e criminali su cui Caruana Galizia indagava; su tali questioni le Istituzioni che vogliono difendere la propria credibilità e la solidità della storica nazione devono attuare quel cambiamento di rotta auspicato dai figli della giornalista. Il cui assassinio, come nella peggiore tradizione terroristica e mafiosa, rappresenta la risposta malavitosa a chi richiama legalità e rispetto delle leggi. Considerazioni fatte ieri anche dal segretario generale di Reporter senza frontiere Christophe Deloire che concordava con l’intervento d’un collega di Daphne, James Debono. Quest’ultimo, oltre a piangere la scomparsa d’una cronista d’indagine considerata una grave perdita per il Paese, ne rammentava anche il grande cuore: “Abbiamo bisogno di riflettere. Abbiamo bisogno di risposte politiche perché la questione morale strangola Malta”. Lo dice esplicitamente chi sa che una parte di quella società è avida e pensa solo agli affari.

E’ il risaputo comune: il piccolo Stato è assediato da traffici illeciti, corruzione, lavaggio di denaro sporco di tanta criminalità globale. Tutto è reso possibile dalla compiacenza che scivola nella collusione di alcuni uomini della politica presenti nelle Istituzioni, della polizia e finanche della magistratura. Una vera piovra mafiosa, con legami internazionali più vari. Per ora le piste potrebbero seguire gli affari legati alle tangenti versate dalla famiglia del presidente azero Aliyev sul conto della Pilatus Bank, aperto a nome della moglie del premier maltese, o la questione del contrabbando del petrolio libico che, tramite petroliere russe, giunge proprio in Italia. E ancora la miriade di società (ne sono state calcolate oltre cinquantamila) che per evadere il fisco nel proprio Paese s’iscrivono alla Camera di commercio dell’isola mediterranea, che ha funzione di paradiso fiscale dietro l'angolo, con buona pace del presidente Juncker e di tutta la prosopopea di rigore e regolamenti trasparenti del Parlamento di Bruxelles che ha voluto Malta, e non solo, nella grande famiglia. In un’Unione Europea per ora ben poco attenta alla vicenda, come del resto diverse sue nazioni cardine, a muoversi è proprio il Belpaese che con Rosi Bindi porta oggi la Commissione antimafia a discorrere con rappresentanti e magistrati della nazione assediata da criminali e dai metodi criminali che hanno tacitato la giornalista scomoda. Magari salta fuori anche una pista italiana.

mercoledì 18 ottobre 2017

Malta, crocevia dell’illegalità col marchio Ue


Non una, ma due, tre forse più di dieci le piste che il fiuto d’inchiesta e il senso di servizio, motori centrali del lavoro di Daphne Caruana Galizia, possono motivare il disegno assassino di chi l’ha tacitata per sempre. Fra gli inviati delle testate che seguono in loco le indagini di polizia, Intelligence e magistratura circola la pista dei narcos: boss maltesi con tanto di fan sui social network che minacciavano la giornalista. Ma accanto al recente timore con cui la coraggiosa cronista e blogger aveva denunciato la minaccia di morte, c’è quella sua disperata considerazione sul panorama politico, socio-economico e finanziario incancreniti dall’illegalità che aveva occupato il micro Stato col classico apparato criminale delle mafie. Amministratori pubblici, imprenditori privati, faccendieri, prestanome - interni ed esterni - interconnessi col partito di maggioranza e con quello d’opposizione, intenti a realizzare affari generali e personali per ricavarne vantaggi. Non è un caso che La Valletta vanti un Pil superiore al 4% annuo conseguito nell’ultimo decennio grazie al gioco della fiscalità compiacente messo in atto dal bipolarismo consociativo di laburisti
e partito nazionalista. Col compiacimento di Bruxelles.

Le elezioni anticipate dello scorso giugno, che il premier Muscat aveva indetto per scrollarsi di dosso la rogna dei Panama Papers, lo riportavano alla guida di una nazione che l’Unione Europea si tiene in casa insieme ai suoi misfatti, sicuramente per servirsene da porto franco. Quello che un ministro socialdemocratico della Westfalia, definiva neanche tanto metaforicamente, la “Panama d’Europa”, suscitando il risentimento di Keit Schembri, il capo staff e sodale del riconfermato primo ministro laburista. Ma sul fronte dell’opposizione nazionalista, un politico di primo piano come Adrian Delia è chiacchierato proprio per prossimità con un padrino di quel narcotraffico che dalle sponde africane del Mediterraneo s’occupa d’ogni merce, ponendo accanto alla droga, profughi e armi. Dunque cos’è diventata Malta? Un paradiso fiscale con un’enorme quantità di società off-shore, un luogo amico per i tanti evasori (l’Italia ne vanta un congruo numero fregiati da pedigree e blasone familiare, aveva raccontato L’Espresso). Un porto franco di lucrose attività criminali che necessitano di riciclaggio, referente Ue e facilitatore nei rapporti coi potenti del mondo riguardo ai business dell’energia (la vicenda della Tap ne è un esempio). Grazie a queste operazioni, ne traeva vantaggio il “benessere” della nazione e i conti correnti, ovviamente occultati altrove, di alcuni politici di primissimo piano.

Da qui il tesoretto guadagnato da Joseph Muscat (lui continua a negare, ma storicamente tanti ladri di Stato l’hanno fatto) tramite la compagnìa Egrant intestata alla consorte Michelle, sul cui conto erano transitati i dollari del presidente azero Alijev felice del suo affarone del metanodotto verso l’Europa. Per parte sua era felice anche il ministro dell’energia e del turismo Konrad Mizzi, quarantenne rampante sempre di sponda laburista che porta un cognome storico nell’isola grazie al fondatore del partito nazionalista Fortunato (1844-1905) e del figlio Enrico, premier seppure per un periodo brevissimo nel 1950. Anche Konrad Mizzi, così rivelano le “carte di Panama”, aveva una società intestata, per quanto collocata in Nuova Zelanda, che comunque forniva i servizi finanziari a La Valletta. Nella correlazione degli affari, dove le famiglie che s’alternano al comando condizionano la vita nell’isola, la questione dei Panama Papers rappresenta il meccanismo più losco e più grosso dove Daphne Caruana Galicia aveva ficcato il naso. Non solo perché quei file parlano degli inconfessabili appetiti di Putin e Cameron, Sharif e Poroshenko, passando per gli immarcescibili Mubarak, ma perché nel mappamondo dei paradisi fiscali c’è una buona fetta dell’attuale economia mondiale e di ciò che la geopolitica si trascina con guerre e stragi. Oltre all’oltraggio estremo di chi ne parla.
___________________________________________________________
Trasferimenti di ricchezze

1.Isole Vergini  2. Panama 3. Bahamas 4. Seychelles 5. Samoa-Niue

Intermediari

Europa: 1. Svizzera 2. Isola Jersey 3. Lussemburgo 4. Regno Unito

Medio Oriente: Emirati Arabi Uniti

Asia: 1. Hong Kong 2. Cina

Americhe: Panama

Proprietari ricchezze nascoste

Europa: 1. Russia 2. Svizzera. 3. Regno Unito 4. Principato di Monaco e Italia

Medio Oriente: 1. Emirati Arabi Uniti 2. Israele

Asia: 1. Cina 2. Hong Kong

America

1.Stati Uniti 2. Brasile e Argentina 3. Perù 4. Uruguay

(fonte: Süddeutsche Zeitung) 
____________________________________________________________
 

martedì 17 ottobre 2017

Malta, l’isola del tesoro uccide la cronista


Ci sono truffatori ovunque si guarda. La situazione è disperata” scriveva Daphne Caruana Galizia di ciò che vedeva in un’isola piccina ed esotica, seppur per storia e lingua legata al continente. Quell’isola, Malta, nei mesi scorsi era definita da un’inchiesta de L’Espresso, l’isola del tesoro’, non per richiami letterari bensì per intrighi politico-finanziari che ne oscurano l’orizzonte. Sugli intrecci fra politica e criminalità, che in troppi casi si legano indissolubilmente, indagava e scriveva Daphne con la caparbietà della cronista, l’intuito dell’investigatrice, il coraggio della commentatrice civile. Era l’immagine della giornalista che interpreta il mestiere come servizio, non come vetrina autoreferenziale. Era. Perché Daphne, cinquantatre anni, è stata fatta saltare in aria sulla sua auto, sicuramente da una delle mani cui intralciava gli intrallazzi. Intrallazzi enormi, se si è scomodato qualcuno capace di far brillare l’auto come si fa in Medioriente o fra le cosche della mafia siciliana. Roba da terrorismo, Servizi e criminalità globale. Di nemici la giornalista maltese ne aveva un’infinità. Lei vedeva, fiutava, ricercava e scriveva. L’aveva fatto per Sunday Times of Malta e per il Malta Indipendent, ora lo faceva su Running Commentary un blog veloce come il titolo, tagliente come il suo argomentare puntuto. 
Ora il premier laburista Muscat, uno dei bersagli fissi di Caruana Galizia perché implicato in mille vicende a dir poco ombrose che ne cadenzano il percorso politico, afferma che non avrà pace “finché giustizia non sarà fatta”. Dichiarazione che somiglia a quelle che nel Belpaese si ascoltavano dopo gravissimi fatti di sangue per bocca di uomini di governo. Di motivi per far brillare, com’è accaduto, l’automobile della cronista nella campagna presso Bidnija, ce n’erano diversi. Il più grosso, che ha portato copiosi capitali sui conti panamensi di Michelle Muscat, una sorta di Leila Trabelsi Ben Ali o di Anna Moncini Craxi, proveniva dalla figlia del chiacchieratissimo ed eterno presidente dell’Azerbaijan Aliyev. Pari a un milione di dollari. La divulgazione di notizie e le inchieste giornalistiche che vedevano Daphne in prima fila avevano prodotto qualche fastidio a Muscat, così durante il periodo di conduzione del semestre europeo si dimise o, per opportunità, venne costretto a farlo. I regali, più o meno occulti, provenienti dall’Azerbaijan coinvolgono diversi soggetti attorno all’affare più grosso che il Paese del Caspio s’appresta a fare con l’Unione Europea: la Trans Adriatic Pipeline.
Quel gasdotto, dopo aver attraversato tutta l’Anatolia, porta il gas azero per circa 900 km sul suolo greco, albanese, il Mar Adriatico e, per un tratto di otto chilometri, italiano. Oltre a trovare un sostegno nello Stato turco, che ne trae vantaggi di dazio e rifornimenti di metano a bassissimo costo, Aliyev ha cercato di attirare i partner europei interessati direttamente o indirettamente. Ambasciatore d’affari per conto della British Petroleum che realizzerà le condotte sul territorio greco, albanese e italiano è l’ex premier laburista Tony Blair, di casa a Malta e nella stessa casa del primo ministro maltese. Nelle ricerche giornalistiche di Daphne il cerchio non si chiudeva solo su quest’evidente incrocio d’interessi. C’erano altri canali, alcuni noti e denunciati dalla passione civile della giornalista, altri su cui lavorava con l’ausilio del figlio Matthew, impegnato nell’International consortium of investigative journalism. Alcune tracce pubblicate, altre da sviluppare. Perché nonostante la passionalità e l’irruenza caratteriale Caruana Galizia, oltre ad affermarne con coscienza la deontologia, sapeva benissimo come comportarsi secondo le normative giornalistiche. Muscat gli aveva rifilato una querela, seguendo il costume più utilizzato da chi vuole tagliare le gambe alle  inchieste. Quindici giorni fa la cronista rivelava d’aver ricevuto minacce. Ieri è giunta puntuale la morte.

lunedì 16 ottobre 2017

Kurdistan, le milizie di Baghdad avanzano su Kirkuk


Puntano su Kirkuk e, come promesso, lo fanno con l’artiglieria. L’esercito di Baghdad ha lanciato stanotte la maggiore offensiva degli ultimi tempi verso la città del petrolio controllata dai kurdi. Secondo un annuncio del governo lo sta facendo “cooperando col popolo kurdo e coi peshmerga”, dunque non contro di essi. La realtà sembra dire altro. Diverse agenzie e l’emittente Al Jazeera informano che i militari e polizia iracheni, assieme alla milizia sciita al-Shaabi, sono in piena area petrolifera, a pochi chilometri a sud dal capoluogo della provincia. Anche un dispaccio militare recapitato alla stampa locale e internazionale annuncia che l’avanzata è in corso e proseguirà. Mentre circolano voci della presenza di numerosi feriti, più tragicamente fonti kurde raccontano di abitazioni civili colpite e di numerose vittime. L’agenzia Reuters, che ha raccolto sul luogo la dichiarazione d’un comandante iracheno, indica in una base aerea a est di Kirkuk - denominata K1 - il primo obiettivo che si prefigge il piano del premier al-Abadi. Fino a due giorni or sono così lui rispondeva a un portavoce dell’amministrazione di Erbil che l’accusava di voler usar la forza come pressione politica “L’idea dell’attacco a Kirkuk era una falsa notizia“. La risposta muscolare attua le minacce scaturite dopo il referendum del 25 settembre scorso, un voto dal valore consultivo ma proiettato verso l’indipendenza della regione del Kurdistan. Questa consultazione, voluta da Masoud Barzani e vinta col 93% dei consensi, trovava discorde la Casa Bianca, diventata nell’ultimo anno il grande sponsor politico oltre che l’armiere dei guerriglieri kurdo-iracheni.

Però l’occupazione peshmerga di Kirkuk e dei suoi giacimenti di idrocarburi, che offrono a chi ne sfrutta e controlla l’estrazione ritorni economici non indifferenti (8 miliardi annui, con l’estrazione di oltre mezzo milione di barili al giorno), è considerata dal governo di Baghdad e dalle componenti alleate un insostenibile smacco. Tanto che al-Abadi ha cercato un alibi per giustificare l’avanzata delle sue truppe: a suo dire Najmaldin Karim, governatore della provincia di Kirkuk, avrebbe aperto i confini a un certo numero guerriglieri del Pkk. Da qui l’attuazione dell’offensiva alla quale, per ora le forze kurde oppongono una resistenza tattica. Secondo alcune testimonianze attuano una ritirata verso il centro città, sconveniente sul fronte militare e su quello delle risorse, non menzionato da parte kurda. Insomma, secondo Baghdad le manovre con tanto di granate, feriti e, pare, vittime non vengono considerate uno scontro. Entrambi i contendenti usano forniture belliche americane: i tank Abrams sono appannaggio degli iracheni, mentre l’equipaggiamento corazzato di terra kurdo si serve degli Humvee, seppure questi blindati siano in dotazione anche delle truppe di al-Abadi. Stesse armi, stesso fornitore e teoricamente protettore, medesimi ‘consiglieri’ strategici e anche d’Intelligence, di fatto l’amministrazione decisionista Trump usa la medesima ambiguità e doppiezza dell’attendista Obama. Però nel quadro regionale e di quella che sarà la sorte della nazione irachena pesano anche i giudizi russi e iraniani, impegnati sul fronte siriano contro ciò che resta dell’Isis. Di quest’ultimo nemico parla Washington quando richiama Barzani e al-Abadi per evitare conflitti armati. Mentre agli occhi delle potenze regionali turca e iraniana c'è un nemico che continua a restar tale: l’etnìa kurda riottosa e ribelle. Perciò i terreni di scontro, come i fronti delle alleanze, risultano sempre aggrovigliati.

sabato 14 ottobre 2017

Fatah-Hamas, l’eterno incontro senza vie d’uscita


L’ennesimo tentativo di avvicinamento e collaborazione fra le due maggiori fazioni palestinesi (Fatah e Hamas), in atto da mesi e ufficializzato nelle ultime settimane, viene esaminato con interesse e anche con le debite precauzioni da analisti e dagli stessi militanti. Ricomporre uno scisma politico, con tanto di scia di sangue protrattasi per alcuni mesi fra il 2006 e 2007, non è semplice ma è possibile. Seppure alcuni leader sempre presenti, direttamente o indirettamente, possano intralciare più che favorire un processo per il quale alcune componenti (Fdlp) tifano, mentre altre non se ne curano (i nuclei del Jihad islamico e salafiti presenti soprattutto nella Striscia di Gaza). Interessati, invece, certi attori regionali, soprattutto quelli vicini: i governi israeliano ed egiziano. Vediamo qualche scenario. Posto che le reciproche leadership - la vecchia guardia di Fatah legata ad Abu Mazen e la non più giovane leadership islamista di cui Haniyeh è ora l’esponente principe - guadagnano in prestigio internazionale se si presentano unite, gli osservatori più critici sostengono che il tentativo in corso sia un’operazione di realpolitik che coinvolge l’ipotesi di amministrare i reciproci territori. E li preserva da scalate di gruppi comunque presenti, i citati fondamentalisti, minoritari ma attrattivi per i più giovani. Questi gruppi lavorano sulle contraddizioni sociali esistenti, su fenomeni di corruzione che caratterizza da decenni la gestione dell’Autorità Nazionale Palestinese, oltre che su irrisolte questioni politiche.

Per far vivere i milioni di palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia il realismo amministrativo ha bisogno di risorse economiche. Quelle esistenti provengono in gran parte dalla Comunità internazionale, Stati Uniti in testa, e sono gestite dall’Anp. L’avvicinamento fra i due partiti palestinesi dovrà prevedere accordi sul delicato tema. Si vocifera che una delle concessione chieste ad Hamas è porre le proprie milizie armate (25-30.000 uomini) sotto la direzione della polizia dell’Anp. Essa, com’è noto, collabora con Israele, in tanti casi prendendone ordini o subendone smacchi di cui sono vittime i cittadini. La vicenda accaduta nel marzo scorso a Basil al-Araj non è che la punta dell’iceberg di una pseudo-sicurezza creata a misura della repressione d’Israele. Al-Araj era stato arrestato dalla polizia palestinese con l’accusa d’essere vicino agli islamisti, rilasciato dopo alcuni mesi aveva trovato rifugio presso parenti. Nella casa dello zio a Bethlehem è stato raggiunto in piena notte da un reparto dell’esercito israeliano che l’ha assassinato. La vicenda ha avuto una certa eco perché il giovane era noto, e ha fatto dire a un esponente del movimento palestinese non violento come Mustafa Barghouti che quella morte era “un atto di uccisione illegale”. Di situazioni simili è costellata la vita quotidiana nei Territori Occupati e tale “normalità” è una delle molteplici ‘spade di Damocle’ disseminate negli Accordi di Oslo che la dirigenza di Fatah sottoscrisse con l’uomo simbolo, Yasser Arafat, padre d’una patria resa irreale dagli stessi presupposti dei patti.

Da parte sua Haniyeh ha di recente considerato irrinunciabile “l’arma della resistenza”, ma diplomaticamente fa intendere che vorrebbe concordare con Fatah quando e come usarla. Se, per convenienza, fosse costretto ad abbandonarla il movimento che fu dello sheikh Yasin e di Rantisi si giocherebbe la considerazione internazionale di cui ancora gode. Fra le due componenti c’è dissenso attorno al fantasma dell’Olp, che Hamas vorrebbe rivitalizzare e riformare e che, al contrario Fatah ha sotterrato da tempo rimpiazzandolo con l’apparato di potere dell’Anp. A tal proposito un potentato che s’è fatto tanti nemici fra gli islamisti e anche fra i suoi ex, mister Mohammed Dahlan responsabile della sicurezza di Fatah con amicizie divise fra la Cia e il Mossad, da anni auto esiliato negli Emirati Arabi con cospicui conti bancari, potrebbe rispuntare fuori in questa fase di trattative. C’è chi sostiene che abbia ancora mire su Gaza da cui fu cacciato appunto un decennio addietro. E’ un uomo forte e divisivo, potrebbe svolgere una funzione di guastatore e ottemperare, volutamente o meno, al desiderio israeliano più diffuso: tenere divisi i due fronti. Questo appare l’orientamento di Tel Aviv operando su entrambi: col compromesso a suo vantaggio nella West Bank e con la forza nella Striscia. Un proseguimento di quel che accade da un decennio. Creativo e pretenzioso, invece, il progetto del Cairo che col presidente golpista al Sisi, si candida a governare il tentativo di riconciliazione.

L’Egitto propone di formare un Consiglio di sicurezza per Gaza diviso fra i due partiti palestinesi e disegna per sé il ruolo di supervisore dell’organismo, cosa che entrambe le fazioni potrebbero non gradire considerandola sminuente. Inoltre significherebbe finire sotto il controllo oltre che dello Shabak, anche dei Mukhabarat. Certo, le forze di al Sisi s’interessano soprattutto alla presenza dei fondamentalisti armati che possono infiltrarsi nel Sinai e aprire varchi all’Isis, com’è già accaduto, ma proprio perché spiccatamente mirata la proposta potrebbe non trovare sponda. L’apertura del valico di Rafah per il rifornimento delle merci rappresenta la contropartita offerta come atto utile e di buona volontà verso i gazousi schiacciati dal blocco d’ogni rifornimento, dalla distruzione della rete dei tunnel e dal progetto del muro sotterraneo. Ora che Hamas ha preso formalmente le distanze dalla famiglia della Fratellanza Musulmana c’è qualche possibilità di rapporto con la politica del Cairo, ma nulla è scontato perché l’ingresso a Gaza dell’Autorità palestinese può diventare fortemente limitante per il partito islamico. Per quanto traspare che l’apparato dell’Anp non sia per nulla allettato dal coinvolgersi nelle mille emergenze della Striscia. Sulla riconciliazione pesa pure il fantasma della rappresentanza. Il mandato di Abu Mazen è scaduto sin dal 2009, il suo potere è illegale, però gli attacchi periodici lanciati da Israele sui due milioni che vivono ammassati nei 45 km quadrati della Striscia hanno fatto in modo che non si pensasse al voto. Così fra congelamento e disgelo della politica interna e delle ingerenze esterne, tutto resta irrisolto. Mentre le nuove generazioni palestinesi stanno perdendo, accanto a ogni opportunità di vita, anche il filo degli avvenimenti e brancolano in un limbo, peggio dei loro padri.


martedì 10 ottobre 2017

Washington-Ankara: la guerra dei visti


Scontro diplomatico a suon di visti fra Stati Uniti e Turchia, con un uno-due che da domenica (anche se solo ieri le agenzie hanno diffuso la notizia) vede bloccati i permessi d’ingresso fra i due Paesi per turismo, necessità sanitarie, commercio, lavoro e studio. L’Anadolu sostiene che ha iniziato Washington e ne è seguita la risposta di Ankara, nonostante nelle ore precedenti il segretario di Stato Tillerson e il ministro degli Esteri Çavuşoğlu avessero colloquiato al telefono apparentemente senza tensioni. Il fuoco ardeva sotto la cenere. La stampa statunitense rivela ciò che può essere stato il motivo scatenante, stamane confermato anche dal quotidiano istanbuliota Hurriyet: la scorsa settimana un impiegato turco (Metin Topuz) in servizio presso il Consolato americano di Istanbul era stato arrestato perché messo in relazione con un magistrato dimissionario (Zekerya Öz) e quattro agenti indagati nel 2013 per corruzione. Costoro farebbero parte della rete gülenista, l’organizzazione finita da oltre un anno nelle spire dell’inchiesta sul tentato golpe, mentre su Topuz cala il sospetto di spionaggio. Peraltro si teme che anche la moglie e il figlio dell’impiegato siano stati bloccati nella provincia di Amasya, sul Mar Nero. Attualmente le diplomazie stanno trattando e provano a stemperare i toni. Da Kiev, dov’è in visita, è intervenuto lo stesso presidente turco Erdoğan, affermando che questi contrasti rendono tutti molto tristi. Anche da parte americana si manifesta un simile stato d’animo, però finora è assente qualsiasi gesto pacificatore.

Ben oltre le questioni sentimentali sono l’economia e la sicurezza a interessare alle due parti, vicine e alleate più di quanto possa sembrare. Per il dissidio in corso, nel pomeriggio di ieri, la lira turca ha registrato una flessione in molte borse mondiali, col picco di caduta a meno 4% sui mercati asiatici. A seguito dell’anomala situazione anche i rispettivi apparati militari legati dai patti Nato chiedono lumi ai propri governi. I due sanguigni presidenti hanno parecchie grane e non avrebbero motivo per crearne di nuove, alla nazione e a se stessi. In realtà fra gli alleati turchi e americani alcune divergenze trasformatesi in disaccordo esistono da settimane e mesi. Attorno al sostegno offerto da Casa Bianca e Pentagono ai combattenti kurdi in Siria; riguardo al reiterato rifiuto di estradare l’imam Fethullah Gülen (residente in Pennsylvania) che viene additato da Erdoğan come il grande burattinaio del tentato golpe del 15 luglio 2016. E ancora rispetto al cambio di rotta operato negli ultimi mesi dalla Turchia che, sempre nella crisi siriana, sta accettando il punto di vista russo sul probabile futuro del regime di Asad. Quest’ultima tensione diplomatica, inoltre, riapre le diatribe attorno alle svolte autoritarie in corso in Anatolia, alla detenzione di decine di cittadini stranieri accusati di terrorismo, fra costoro ci sono alcuni americani. Altra benzina sul fuoco la versa stamane il premier turco Yıldırım, sostenendo che il suo Paese non necessita del permesso statunitense per trattenere sospettati.

venerdì 6 ottobre 2017

Incontro Salman-Putin, geo-diplomazia strategica


Con enfasi la stampa saudita lancia notizie e immagini dell’incontro tenutosi a Mosca fra un’ampia delegazione guidata da re Salman e lo staff del presidente russo Putin, presenti i rispettivi ministri degli Esteri Al-Jubeir e Lavrov. Il tutto per “cementare” le relazioni fra i due Paesi, che in realtà in questi anni attorno a questioni mediorientali come la guerra civile siriana sono stato tutt’altro che benevoli. Eppure la linea della modernità del binomio Salman-Salman bin (sovrano ed erede al trono) segue logiche rinnovate rispetto alla statica tradizione della petromonarchia, o almeno così mostra riguardo a tattiche d’alleanza strategica. Ne segue questo discorso a tutto campo con Putin, che proprio in Medio Oriente sta giocando le sue carte geopolitiche più azzeccate. Dagli accordi scaturisce un piano d’investimenti militari da un miliardo di dollari, una briciola rispetto ai 110 miliardi concordati con Trump in occasione della famosa “danza delle spade” del maggio scorso. Eppure l’apertura alla Russia ha un gran peso. Sia perché segue altri patti coi russi, relativi a piattaforme missilistiche da collocare nella penisola arabica, ma soprattutto per il valore politico che si trascina dietro. Gli accordi prevedono anche sostegni economici e tecnologici per trasporti, telecomunicazioni, tecnologia energetica e agricoltura.
E ancora prossime sinergie che coinvolgono le aziende d’eccellenza delle due nazioni: Sibur e Saudi Aramco e vanno dalla progettazione di espansione del settore petrochimico all’incremento dell’industrializzazione di aree arretrate della penisola arabica, con lo sguardo sicuramente rivolto agli alleati più stretti dei Saud. Poiché le petromonarchie sono, in gran parte, partner economici e geostrategici statunitensi, la mossa dei Salman fa scalpore e mostra come in questi anni la dirigenza russa riesce a tessere tele diplomatiche a lei decisamente redditizie. Ovviamente nella partita delle firme rientrano le armi, consistente nella fornitura di missili difensivi S400, una delle piattaforme missilistiche più avanzate presenti sul prolifico mercato bellico internazionale. E’ una tecnologia che i ricercatori russi hanno messo a punto dal 2007 e che continua a migliorare, basata su missili balistici a lungo-medio e corto raggio (dai 400 ai 40km per neutralizzare attacchi aerei). In un’ottica di potenziamento del proprio arsenale, l’acquisizione di questi prototipi non può che accrescere la capacità militare di Ryad. Coordinare e far coesistere la presenza di “consiglieri” russi con quelli statunitensi di stanza nella penisola arabica e nelle basi Nato si presenta come tappa diplomatica ulteriormente complessa per i Saud.
Per tacere delle alleanze e dei veti incrociati, che avranno ripercussioni a Teheran e Ankara. Certo, tutto può rientrare in quella che appare chiaramente come una nuova fase di “armamento dissuasivo” a livello globale che, se non raggiunge i toni della passata Guerra Fredda, cerca di emularli con condizionamenti di vario genere. Seppure differenze rispetto a un tempo traspaiono da alleanze duttili e flessibili che, in taluni scenari ma solo in quelli, superano l’appartenenza a blocchi precostituiti. Dal punto di vista della politica strategico-militare il blocco fortificato ed espanso è quello Nato, con l’ampliamento verso est del territorio di controllo e di creazione di nuove basi sin dal 2006-07. Nelle aree di crisi mediorientale i focolai sono accesi e contesi e la quadratura di accordi come questo firmato al Cremlino dovrà fare i conti con interessi contrapposti. Parlando di sicurezza i Salman si sono pronunciati a favore della conservazione dell’unità della Siria, sostenuta da Putin, e sulla sorte di Asad si è addirittura sorvolato. Ma hanno pesantemente accusato l’Iran di lavorare per lo squilibrio dell’area (il riferimento allo Yemen è stato diretto) e non è detto che non si troveranno ad appoggiare la mossa trumpiana di smembramento dell’accordo sul nucleare siglato da Obama. Se così dovesse essere le qualità sportive della diplomazia di Putin dovranno dar fondo a chissà quali salti-giro poiché né Khamenei e neppure Rohani si dicono disposti a far marcia indietro.

mercoledì 4 ottobre 2017

Combattenti e martiri afghani: una denuncia di Human Rights Watch


Human Rights Watch lancia per bocca della sua responsabile dell’area mediorientale un’esplicita richiesta alla Repubblica Islamica dell’Iran affinché cessi il reclutamento di giovanissimi immigrati afghani che finiscono sul fronte siriano. E lì muoiono in combattimento, com’è di recente accaduto a otto di loro. Martiri certo, ma d’una guerra scelta per modo di dire. Un report pubblicato sul sito dell’Ong evidenzia due contraddizioni: si tratta di ragazzi-soldato spesso d’età inferiore ai diciotto anni dichiarati. Lo scopo è essere inseriti nei reparti della divisione Fatemiyoun, la milizia degli hazara sciiti, già attiva all’epoca della guerra antisovietica e dal 2014 impegnata a sostegno del governo di Damasco, sotto la supervisione delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Attualmente la divisione conta 14.000 combattenti. Per entrarvi i giovani si aumentano l’età (le ultime vittime avevano fra i 14 e 15 anni) e i reclutatori non indagano, l’unico loro interesse è avere miliziani al fronte. L’altra contraddizione si riferisce alla presunta “vocazione” alla battaglia, scaturita dalla possibilità di guadagnarsi un’accoglienza definitiva sul territorio iraniano. Purché si resti in vita…

HRW ne fa una questione, diciamo deontologica, sostenendo che accordi internazionali impediscono il reclutamento di militi adolescenti. E rilancia sostenendo che proprio in base ai princìpi proclamati l’Iran dovrebbe tutelare i minori, di qualunque etnìa. Le ultime statistiche in circolazione calcolano 2,5 milioni gli immigrati e rifugiati afghani in Iran, la scelta di andare a combattere offre ai giovani e ai loro familiari la possibilità di essere stabilizzati nel Paese. Ovviamente si tratta dell’altra faccia della medaglia mostrata da due terribili realtà: guerra e migrazione. E quest’ultima, nel caso afghano, è direttamente correlata con la condizione di conflitto permanente che affligge la nazione da circa quarant’anni. HRW, che coi suoi addetti s’è recata nei cimiteri dei martiri, il Behesht-e-Zahra di Teheran, e in un altro in provincia di Isfahan, mostra immagini delle tombe che testimoniano come le vittime siano diciassettenni e quindicenni. Tutti sono indicati come martiri dei ‘luoghi santi’ ma sono caduti in combattimento in Siria. Anche rispetto ai dati presenti sulle lapidi e nei colloqui avuti coi familiari di due di loro, HRW sostiene ci sia discrasia: la morte li avrebbe colti quando non erano maggiorenni.

Parecchi giovani miliziani della divisione hazara temono un possibile rientro nel proprio Paese, dove verrebbero reclutati dall’esercito governativo o dai talebani. Per questo fuggono, scegliendo il male che gli sembra minore. Ciò che due anni or sono era apparso come un atto inclusivo, oltre che umanitario, da parte della Guida Suprema Khamenei che sentenziava: “Nessun giovane afghano, anche senza documenti, dovrebbe essere lasciato fuori dalle scuole” risulta di fatto superato da leggi che offrono il permesso di soggiorno a chi s’arruola nella divisione Fatemiyoun, accettandone l’agenda militare. La loro scuola, dunque, è il campo di battaglia. Citando l’Optional Protocol delle Nazioni Unite per i diritti dei bambini, Human Rights Watch rammenta che sfruttare l’impegno bellico dei minori, ma anche reclutarli rappresenta un crimine di guerra. E ne ha per tutti, anche per le sigle che lottano per libertà e autonomia come le Unità di Difesa del Popolo del Rojava, scoperta a utilizzare combattenti al di sotto dei 18 anni. L’organizzazione non governativa apre una visuale che va oltre quelle che gli eserciti ufficiali chiamano “regole d’ingaggio”, ma per certe cause taluni princìpi stentano a trovare comprensione e accettazione.

martedì 3 ottobre 2017

Ankara-Teheran: pressione militare sul Kurdistan


Prova d’intesa e di forza in queste ore fra i vertici militari e le truppe di Ankara e Teheran. Mentre i generali Akar e Baqari, rispettivamente capi delle Forze Armate dei due Paesi s’incontravano nella capitale iraniana, a neppure 200 metri dal confine della regione autonoma del Kurdistan iniziavano esercitazioni di “difesa” che impegnavano militari e reparti corazzati con tank e carri. Far sentire la pressione militare alla popolazione che, pochi giorni fa, ha espresso a larga maggioranza il desiderio d’indipendenza dall’Iraq è una delle strategie adottate dalle nazioni che si gemellano in quest’operazione di politica interna più che internazionale. Sul fronte regionale esse sostengono l’assoluta necessità di non disgregare l’Iraq, la cui integrità territoriale e politica verrebbe messa a repentaglio dal referendum kurdo. Di fatto Erdoğan e Rohani pensano soprattutto alla propria saldezza territoriale e politica contro cui possono agire i kurdi di casa propria. Da qui il progetto di stabilire sul tema un agire comune, almeno finché sarà possibile. Turchi e iraniani non rispondono all’idilliaco quadretto dipinto dal generale Akar durante l’incontro politico-militare, sono qualcosa di diverso da “Paesi che amichevolmente hanno condiviso per secoli valori comuni”.
Certo, nel disegno di supremazia regionale che li vede coinvolti assieme ad altre nazioni, cercano di evitare contrasti diretti, ma, ad esempio, nel conflitto siriano si sono ritrovati su fronti opposti. Tutt’al più uniti nel combattere l’Isis e il suo terrorismo stragista che ha colpito entro i confini di entrambi gli Stati. L’ulteriore comune denominatore è lo scontro con l’etnìa kurda, più acceso nella parte orientale dell’Anatolia, ma non meno preoccupante per il Paese degli ayatollah. Lì, dopo articolate vicende avvenute fra gli anni Settanta e Ottanta, la struttura del Partito democratico del Kurdistan-Iran ha subìto frazionamenti, perdite di leader a seguito di attentati per ritrovarsi con due micronuclei (Pdki e Kdpi) dall’andamento incerto, altalenante e ambiguo, ma mai tacitato. La storia dei tentativi di emancipazione kurda è costellata di accordi e sostegni anche imbarazzanti. Come quelli ricevuti dal Kdpi all’epoca di Saddam Hussein in funzione antikhomeinista, a cui si sono aggiunti più recentemente gli aiuti americani, e pure israeliani, col fine di supportare l’opposizione al governo di Teheran. Lo scontro ha conosciuto reciproche fasi cruente e i reparti dell’Intelligence iraniana hanno attuato omicidi mirati di attivisti kurdi.
L’intricato sviluppo sembrava più attinente alle missioni segrete che al conflitto politico, seppure armato. Attualmente ciò che può unire gli interessi turchi e iraniani nel contrastare la presenza organizzata dei kurdi nelle sue forme e istanze più varie si chiama Pkk. Il partito di Öcalan dall’epoca dell’arresto del suo leader ha sviluppato una pratica di scambio e di simbiosi con altre realtà kurde, in Siria e in Iran stesso, da cui ricava egemonia nell’orientamento politico, pur rispettando autonomie gestionali come accade nel Rojava. Da simili rapporti scaturisce anche un reclutamento che risulta vitale nelle fasi in cui lo scontro, oggi risalito a livelli altissimi, conta morti, feriti, arrestati. Ora i potenti avversari - gli Stati nazionali turco e iraniano - uniscono le forze. Lo fanno per la prima volta dal periodo della Rivoluzione Islamica del 1979, a dimostrazione della delicatezza della fase attraversata dal Medio Oriente, in lotta fra la conservazione di modelli (imperialisti e para-rivoluzionari) in alcuni casi fuori dal tempo, e l’involuzione rappresentata dal fondamentalismo islamico del Daesh. In tale contrapposizione ciò che può rimanere schiacciato è il desiderio di emancipazione dei kurdi. Nelle forme più varie, dal Kurdistan al Rojava.