lunedì 16 ottobre 2017

Kurdistan, le milizie di Baghdad avanzano su Kirkuk


Puntano su Kirkuk e, come promesso, lo fanno con l’artiglieria. L’esercito di Baghdad ha lanciato stanotte la maggiore offensiva degli ultimi tempi verso la città del petrolio controllata dai kurdi. Secondo un annuncio del governo lo sta facendo “cooperando col popolo kurdo e coi peshmerga”, dunque non contro di essi. La realtà sembra dire altro. Diverse agenzie e l’emittente Al Jazeera informano che i militari e polizia iracheni, assieme alla milizia sciita al-Shaabi, sono in piena area petrolifera, a pochi chilometri a sud dal capoluogo della provincia. Anche un dispaccio militare recapitato alla stampa locale e internazionale annuncia che l’avanzata è in corso e proseguirà. Mentre circolano voci della presenza di numerosi feriti, più tragicamente fonti kurde raccontano di abitazioni civili colpite e di numerose vittime. L’agenzia Reuters, che ha raccolto sul luogo la dichiarazione d’un comandante iracheno, indica in una base aerea a est di Kirkuk - denominata K1 - il primo obiettivo che si prefigge il piano del premier al-Abadi. Fino a due giorni or sono così lui rispondeva a un portavoce dell’amministrazione di Erbil che l’accusava di voler usar la forza come pressione politica “L’idea dell’attacco a Kirkuk era una falsa notizia“. La risposta muscolare attua le minacce scaturite dopo il referendum del 25 settembre scorso, un voto dal valore consultivo ma proiettato verso l’indipendenza della regione del Kurdistan. Questa consultazione, voluta da Masoud Barzani e vinta col 93% dei consensi, trovava discorde la Casa Bianca, diventata nell’ultimo anno il grande sponsor politico oltre che l’armiere dei guerriglieri kurdo-iracheni.

Però l’occupazione peshmerga di Kirkuk e dei suoi giacimenti di idrocarburi, che offrono a chi ne sfrutta e controlla l’estrazione ritorni economici non indifferenti (8 miliardi annui, con l’estrazione di oltre mezzo milione di barili al giorno), è considerata dal governo di Baghdad e dalle componenti alleate un insostenibile smacco. Tanto che al-Abadi ha cercato un alibi per giustificare l’avanzata delle sue truppe: a suo dire Najmaldin Karim, governatore della provincia di Kirkuk, avrebbe aperto i confini a un certo numero guerriglieri del Pkk. Da qui l’attuazione dell’offensiva alla quale, per ora le forze kurde oppongono una resistenza tattica. Secondo alcune testimonianze attuano una ritirata verso il centro città, sconveniente sul fronte militare e su quello delle risorse, non menzionato da parte kurda. Insomma, secondo Baghdad le manovre con tanto di granate, feriti e, pare, vittime non vengono considerate uno scontro. Entrambi i contendenti usano forniture belliche americane: i tank Abrams sono appannaggio degli iracheni, mentre l’equipaggiamento corazzato di terra kurdo si serve degli Humvee, seppure questi blindati siano in dotazione anche delle truppe di al-Abadi. Stesse armi, stesso fornitore e teoricamente protettore, medesimi ‘consiglieri’ strategici e anche d’Intelligence, di fatto l’amministrazione decisionista Trump usa la medesima ambiguità e doppiezza dell’attendista Obama. Però nel quadro regionale e di quella che sarà la sorte della nazione irachena pesano anche i giudizi russi e iraniani, impegnati sul fronte siriano contro ciò che resta dell’Isis. Di quest’ultimo nemico parla Washington quando richiama Barzani e al-Abadi per evitare conflitti armati. Mentre agli occhi delle potenze regionali turca e iraniana c'è un nemico che continua a restar tale: l’etnìa kurda riottosa e ribelle. Perciò i terreni di scontro, come i fronti delle alleanze, risultano sempre aggrovigliati.

Nessun commento:

Posta un commento