
Un giorno del
secolo scorso allo storico di chiara fama Marc Bloch uno dei figli chiese a cosa
servisse la Storia. “A comprendere il presente” rispondeva
sinteticamente il padre, concentrando in due parole l’essenza scientifica del
suo metodo nella materia. In pieno Novecento il loro presente era burrascoso,
reso tale soprattutto da guerre fomentate da imperi economici e da un uso
estremizzato delle ideologie. Attualmente il nostro presente non è da meno, fra
l’altro con ideologie liquefatte ma più acuminate dalle capacità distruttive d’una
soffocante tecnocrazia. Il metodo affinato da Bloch e seguìto da altri storici
francesi (Braudel, Duby, Le Goff) che si concentrarono sulle epoche lontane del
Medio Evo, arricchiva lo studio delle fonti incardinate su biografie e dati
politici con elementi sociologici ed economici, comparando ulteriori
testimonianze (archeologia, arte, filosofia, antropologia) per avere un ampio spettro su cui
innescare un’indagine interdisciplinare. Per cogliere, dunque, l’attuale
ridisegno forzoso d’un delicatissimo punto d’unione o di frattura del mondo
antico e contemporaneo, il cosiddetto Medio Oriente, si può risalire allo
squasso prodotto dal primo conflitto mondiale, al quale, contraddizione
paradossale, l’uomo Bloch aderì addirittura con l’entusiasmo del volontario. Nella
Grande Guerra, si dissolsero imperi sedimentati nei secoli, come l’Ottomano e
lo zarista, e imperi più recenti: l’Austro-ungarico e il prussiano-germanico,
mentre quello Britannico ancora presente a Asia, era destinato a passare la
mano alla sua versione contemporanea d’Oltreoceano. Mentre lo scontro ammucchiava
vittime in trincea ed era tutt’altro che definito nella sua vittoria finale, un
cadavere certo, l’impero del Sultano, veniva sezionato e spartito fra due
potenze dell’Intesa che coi rispettivi diplomatici - il francese Georges Picot
e il britannico Mark Sykes - definivano sulle mappe l’entità di nuovi Stati,
tracciandone i confini col righello. Nascevano
Libano e Siria, Giordania e Iraq, su cui veniva stabilita la rispettiva
giurisdizione dei propri governi. Per tacere della Palestina, destinata a
un’amministrazione internazionale mai attuata poiché subentrarono prima la
“Dichiarazione Balfour”
(1917) e, a seguito della Shoah, la nascita dello Stato d’Israele (1948). La consequenzialità
degli avvenimenti storici è una delle chiavi per la comprensione di quel
presente citato da Bloch al figliolo. Così nel Medio Oriente riplasmato dai
vincitori delle due Guerre Mondiali del ‘Secolo Breve’ s’inseriscono le
variabili che turbano e caratterizzano la Storia recente dell’area e i
conflitti che appaiono perenni, come quello del popolo palestinese.

Per non condensare vicende inesorabilmente intrecciate e
concause di crisi anche recenti, fissiamo una data attorno a un concetto
definito in inglese, anzi in americano, Rogue State. Nel geo politichese
dell’ultimo sessantennio “Stato canaglia”. Termine e pensiero lanciati dall’ex
attore hollywoodiano diventato 40° presidente statunitense, Ronald Regan. Era
il 1980 e l’epiteto veniva rivolto alla Libia e al suo presidente Gheddafi,
sostenitore d’un certo terrorismo islamico contro gli Stati Uniti. Fu quindi il
democratico Clinton, 42° inquilino dello Studio Ovale, a stilare nel 1993 una
sorta di lista nera che aggiungeva alla Libia, Cuba, Corea del Nord, Iraq e
Iran. Tutti ‘Stati canaglia’. Perché? Numerosi analisti sottolineavano come gli
Usa dalla caduta del Muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica,
avvenimenti che avrebbero dovuto allentare la tensione globale della Guerra
Fredda strisciante, spinsero invece sull’acceleratore elaborando nuove
strategie d’intervento politico e militare. Ben oltre l’Alleanza Atlantica
e quel senso d’Impero moderno che i critici della politica estera americana
hanno sempre contestato a Casa Bianca e Pentagono, e che secondo rilanciati
princìpi da “legge del più forte” il filosofo Derrida bollava come abuso di
potere sull’altrui sovranità. Gli Stati definiti canaglia in modo non meno
canagliesco dal potere di Washington intralcerebbero, praticamente o
teoricamente, quegli interessi americani per i quali dall’amministrazione
Clinton s’è deciso l’intervento unilaterale della Nato in barba al Diritto
Internazionale, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e alla sua Carta. Concentriamoci
su uno di questi ‘reietti’, l’Iran. Per la cronaca diventata storia, era stato
proprio il duro Regan a interrompere il ‘braccio di ferro’ che accentuava la
crisi fra la linea statunitense e quella iraniana attorno al sequestro di
cinquantadue fra funzionari e agenti della Cia bloccati nell’ambasciata
americana di Teheran. L’azione fu attuata da studenti universitari che occuparono
quella sede nove mesi dopo la ‘Rivoluzione Islamica’ e il rientro in patria di
Khomeini. Chiedevano, inascoltati, di scambiare i sequestrati con lo Shah. Nel
gennaio 1981 Regan subentrò al predecessore Carter che per quello ‘smacco’
perdette le elezioni. Nonostante la liberazione finale di tutti gli ostaggi
attraverso la mediazione dell’Algeria (sei persone erano subito riparate presso
l’ambasciata canadese, altre tredici vennero rilasciate nei giorni seguenti
perché afroamericane, mentre le restanti restarono per 444 giorni in balìa dei rivoluzionari)
quella fu un’onta mai sanata nell’ego superomistico della politica estera
americana, che costò all’intera nazione persiana, non solo al governo degli
ayatollah, la collocazione nella lista statale di proscrizione con tanto di
embarghi prolungati sino ai nostri giorni. In realtà tutto s’era già incrinato con
la Rivoluzione del 1° febbraio 1979 e la cacciata dello Shah, il sovrano
d’acciaio, uno dei gendarmi di quel Medio Oriente a trazione imperialista
occidentale, disegnato sessant’anni prima sui tavoli della diplomazia europea.

La sua è diventata l’effige del monarca-fantoccio,
autoritario e repressore tramite gli scherani della polizia segreta (Savak).
Il suo regno ha garantito l’economia
della spoliazione praticata dalle Sette Sorelle
e precedentemente ostacolata dal premier Mossadeq che s’adoperò per la
nazionalizzazione dell’industria petrolifera. Una mossa che nel 1953 costava al
Primo ministro il disarcionamento tramite un golpe militare organizzato da MI6
e Cia, a favore dei propri affari e d’un controllo geopolitico
internazionale e interno con l’investitura offerta a un sanguinario quale si
dimostrò Reza Pahlavi. Ecco che, per dirla con Bloch, le vicende d’un recente
passato chiariscono un pezzo del presente di quel Paese. I cui desideri di
supremazia regionale si palesavano ben prima della salita al potere del clero
sciita con Khomeini. Proprio la dinastia Pahlavi, subentrata negli anni Venti
del Novecento agli eredi Qajar, aveva avuto con la regìa di Reza padre l’ambizione
di modernizzare l’Iran. Il sovrano prendeva a modello la riforma kemalista di Atatürk compiuta in Anatolia, con
tanto di sviluppo d’infrastrutture e industria pesante, dell’apparato
burocratico e amministrativo, cercando d’indebolire il controllo del clero su
istruzione e giustizia. Quel clero gerarchizzato, con gli ayatollah-ol ozma
e marja-e taqlid (i grandi ayatollah e coloro che erano ‘fonte di
imitazione’ per i fedeli) ma orientato al quietismo, cioè a un interesse
per la spiritualità che rinuncia all’impegno politico, mutava orientamento
verso la metà degli anni Sessanta, sotto le teorie anticolonialiste di Shariati
e la spinta ideologico-organizzativa di Khomeini. Quest’ultimo, complottando
contro lo Shah, era finito in esilio. Sull’Iran capofila regionale puntava nel
medesimo periodo la visione americana in
Medio Oriente, soprattutto davanti al risvegliarsi d’un islamismo organizzato in
campo sunnita con la Fratellanza Musulmana, comunque contrastata dal
laicismo dei militari egiziani e dei loro presidenti (Nasser, Sadat). Ma gli
stessi regimi forti, “socialisteggianti” e inseriti nella sfera d’influenza
sovietica dell’epoca, i Ba’thisti di Siria e Iraq, costituivano pur
sempre un baluardo a qualsiasi ipotesi di Islam politico. La Persia dello Shah
veniva carezzata dai più abili manovratori dell’occhio americano rivolto all’esterno,
Henry Kissinger su tutti, quale regime da promuovere a potenza locale.
Un’opzione più rassicurante rispetto a emiri e sceicchi delle meno popolose
petromonarchie. Mentre la Turchia militarizzata dai colpi di mano delle Forze
Armate (di cui la Cia tanto sapeva e tramava) risultava la punta di
diamante della Nato verso in Levante russo e non solo. Il grande alleato
israeliano, orgoglioso della sua potenza (già all’epoca atomica) mostrata nei
‘Sei giorni sei’ di guerra e conquiste (5-10 giugno 1967) era di casa a
Teheran, specie coi propri agenti del Mossad, in quelle circostanze in
funzione istruttiva verso i colleghi della Savak, e non distruttiva come
ora coi Pasdaran. Per oltre un ventennio dalla collocazione di Reza
figlio sul ‘Trono del Pavone’ i rapporti politici, militari, economici fra i
governi di Teheran e Tel Aviv furono cordiali e proficui. Con la cacciata dello
Shah iniziava una sorta di ‘pace fredda’, sebbene nel corso degli otto anni di
conflitto Iran-Iraq Israele supportò gli ayatollah con aiuti militari e
d’Intelligence contro Saddam Hussein, considerato un nemico regionale comune.
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Paradosso della Storia, era stato il premio Nobel
per la pace Rabin, Primo ministro d’Israele fra il 1992 e il 1995, a rompere le
relazioni fra i due Stati, con l’intento di condurre il suo Paese su una posizione
di dominio nell’area mediorientale, ben oltre le occupazioni illegali di
Gerusalemme, delle alture siriane del Golan e la crescente infiltrazione in
Cisgiordania di coloni provenienti, come la sua famiglia, dall’est europeo. L’aumento
delle violenze di Israeli Defence Forces contro la popolazione
palestinese, lo scoppio della prima Intifada, venivano giudicate
dall’intero mondo islamico un punto di non ritorno. La nazione sciita non era
da meno e in base al sostegno a quelle comunità presenti in un Libano, che
aveva già subìto aggressive invasioni israeliane (nel 1978 e 1982), avviava il
supporto economico e militare alle milizie di Hezbollah e Hamas, cui
col tempo si sono aggiunti Jihad islamica palestinese, Ansar Allah in
Yemen, più alcuni gruppi iracheni che operano sul proprio territorio (Kataib
Hezbollah, Asaib Ahl al-Haq, Badr e altri minori). Erano i prodromi di
quello che verrà definito l’Asse della Resistenza.
Il motivo di questa scelta della leadership iraniana era duplice: superare l’asfissìa
politica e l’isolamento nelle relazioni internazionali ed economiche del Paese
riscontrate dopo il logorante conflitto con l’Iraq e creare una ‘profondità
strategica’, una ‘difesa avanzata’ del suo territorio nella vasta e intricata
regione, dal momento che i rapporti con Stati Uniti e Israele diventavano
sempre più incandescenti. Agli iniziali conflitti verbali il crescendo è deflagrato
in tempi recenti. L’irrisolta questione palestinese, che coinvolge il mondo
arabo, riceveva il sostegno dell’Iran rivoluzionario del Ruhollah e del suo
prescelto nell’incarico di Guida Suprema, Khamenei, ma gli animi si sono
ulteriormente infuocati durante la presidenza dell’ex basij Mohammad Ahmadinejad
(2005-2013). Frequenti le invettive per “la distruzione dell’entità sionista”
e meticoloso il suo fervore, assieme alla componente più radicale del ‘partito
dei Pasdaran’, nell’inseguire il disegno del nucleare civile e militare. Un
piano che tuttora fa fibrillare diplomazie e cancellierati globali, intenzionati
a interdire a ogni costo tale tecnologia alla nazione iraniana. Non tanto e non
solo l’armamento atomico, di cui l’Aiea in queste ore ribadisce non ci
siano prove per così allarmanti proclami, ma lo stesso impiego civile di un’energia
ampiamente diffusa in varie latitudini. Discorrere sui processi di produzione
sull’irrisolto della fusione e le sue scorie che possono sedimentare per
millenni e il vantaggioso utilizzo della fissione, rappresentano questioni
scientifiche della comunità ricercatrice internazionale, non è questo il punto.
Quello che i governi occidentali, all’unisono con Stati Uniti e Israele, non
vogliono concedere agli ingegneri nucleari iraniani è l’arricchimento
dell’uranio anche per scopi civili. Perciò da anni il Mossad li ammazza,
prima ancora di liquidare i capi dei Pasdaran. Mentre adesso, davanti al
fantasma o alla congettura del possibile prossimo ordigno atomico iraniano, gli
F16 dell’Heyl Ha'Avir sganciano missili sui
reattori di Natanz, Fordow, Arak. Eppure è stato un altro fronte, agghiacciante
e sempre parzialmente ricordato, quello siriano col suo mezzo milione di caduti
e quindici milioni fra profughi, rifugiati, spostati di luoghi e di testa, a
precedere questo smontaggio di pezzi di Medio Oriente. E’ nella Siria degli
Asad, figlia di quei gruppi laici e sedicenti socialisti che comprendeva anche
Egitto, Tunisia, Iraq, e che dovevano tenere testa alle monarchie sparse fra
Maghreb e Mashreq (Marocco, Giordania e il blocco dei Paesi del Golfo) per il
controllo della regione, che s’è giocato il più recente rilancio d’una
supremazia.

Finora non c’è un vincitore né un dominio unico. Si
sa chi ha perso, i vecchi clan familiari spodestati dalla piazza o dai
confitti, e chi si propone come capofila. La Turchia in primo luogo, che usa
bastone e carota, ma anche quell’intelligenza e furbizia diplomatiche che il
borioso Occidente ha smarrito da tempo. Per tacere dei primatisti suprematisti
d’America, deliranti attorno all’ultimo improbabile ma reale presidente. Eppure,
per oltre un ventennio la Casa Bianca ha ospitato uomini e politiche
nient’affatto rassicuranti per ponderatezza e misura. L’Enduring Freedom
in Afghanistan, la guerra in Iraq, vera manna dal cielo per la Jihad globale,
erano partorite dai consiglieri del poco istrionico George W. Bush, figlio di
cotanto padre che in occasione del lancio delle ostilità col Desert Storm
di più d’un decennio precedente (era il 17 gennaio 1991) sentenziava alla
nazione e al mondo: “Siamo davanti a una risposta che orienterà il futuro
per i prossimi cento anni”. Ora che il mondo attende le decisioni
dell’ondivago Trump, se coadiuvare Israele nel bombardamento di siti militari e
condomìni civili a Teheran e dintorni, e lo fa nello Studio Ovale al cospetto d’un
manipolo di calciatori impegnati nel primo Mondiale per Club (sic), c’è poco da
stupirsi. Non tanto del baraccone mainstream mediatico, ma del Barnum
geopolitico che dall’insulto dello “Stato canaglia” è passato al bullismo
dell’aggressione all’altrui sovranità, fino alla criminalità militare tuttora
improfumata di presunta democrazia. Il cacciatore di bambini Netanyahu resta un
Erode, sia se riceverà il supporto dei bombardieri B2 di Us Air Force per lanciare la
superbomba GBU-57 (quattordici tonnellate complessive, due e mezzo d’esplosivo
dedicato alla morte) per disgregare le centrifughe di Fordow seppellite a 100
metri di profondità, sia se proseguirà di propria sponte il progetto
d’impadronirsi del Medio Oriente radendone al suolo un buon tratto. L’alternativa
a una supremazia regionale incentrata sui conciliaboli diplomatici di Erdoğan o
sui conflitti eterni lanciati dal primo fra gli israeliani è il ‘favoloso mondo
di bin Salman’. Una società pacificata dalla ricchezza di pochi e aperta ai soli
beati del globo. Un ambiente immacolato dagli eventi mercantili non da guerre. Queste
MbS le ha provate contro i ribelli Houthi che attaccavano il governo yemenita
di Hadi, poi riparato a Ryahd e difeso dai sauditi, ne è uscito con le ossa
rotte. Pur dotato dei sofisticati armamenti elettronici della costosissima
aviazione griffata Lockheed-Martin non è riuscito a piegare i miliziani
di Ansar Allah (sciiti zaiditi di stirpe hashemita) che hanno resistito alle
tempeste di fuoco del 2015 e nuovamente dal 2016 al 2018. Loro se ne stanno
pimpanti lungo le coste di Aden, colpendo i cargo che trasportano merce a
Israele, pur quando questi non sventolano la bandiera con la stella di David. A
dimostrazione d’un servizio d’Intelligence, magari minimo ma efficace. Tutto in
sostegno dei martoriati fratelli palestinesi e dimostrando d’essere l’ultimo
anello vitale d’un Asse della Resistenza altrove profondamente piegato da
Israele. Se verrà il loro turno, si vedrà. Attualmente i generali di Tsahal
hanno ben altri obiettivi nel mirino. Stretta fra i conflitti, l’Arabia Saudita
dell’irrequieto e ambizioso principe-sovrano è l’attore geopolitico che con la
‘Visione 2030’ pensa a una regione messa in pace coi petrodollari da
reinvestire. I due termini s’affratellano, gli affari scivolano tranquilli
senza i marosi delle guerre. Purtroppo il Medio Oriente è diventato sinonimo di
conflitti e chi da essi ricava profitti, con qualsiasi merce non solo armi o
con le conseguenti speculazioni finanziarie, seppure non guarda a ostilità
imperiture, le fomenta periodicamente. La Storia del ‘Secolo Breve’ è stata
questa. Quella del Millennio che lo segue ha tutta la fisionomia per imitarlo e
superarlo.
18 giugno 2025