giovedì 28 marzo 2019

Qatar, carcerieri e prigionieri dialogano sul futuro afghano


A Doha, nel dialogare fitto o centellinar parole, si ritrovano faccia a faccia anche soggetti finiti in ruoli contrapposti. Se non sono diretti carcerieri certi rappresentanti statunitensi conoscono a menadito le storie dei signori Mohammad Fazl, Abdul Haq Waziq, Mohammed Nabi, Mullah Khairkhwa e Mullah Noori. Tutti passati per Guantanamo da detenuti, in genere catturati con ‘extraordinary rendition’ e trasportati come pacchi: legati, bendati, fasciati, addirittura arrotolati dentro tappeti. Il gruppo venne rilasciato nel 2014, quando il presidente Obama vendette alla sua America il gran gesto del ritorno a casa del sergente Bergdahl. Questo soldato, rimasto prigioniero per anni della rete di Haqqani, venne scambiato coi cinque, talebani di gran calibro che ora siedono al tavolo della trattative assieme al mediatore Khalilzad, a generali  e agenti della Cia. Quest’ultimi ben conoscono gli umori dei capi talib, essi stessi responsabili militari oppure dell’Intelligence, gente che aveva resistito alla ‘cura’ praticata nel supercarcere cubano, che non tralasciava ogni sorta di tortura. Alcuni erano vicini a pezzi da Novanta di Qaeda e vennero perseguitati per questo.

Ma in geopolitica il passato ha un valore relativo, e la linea statunitense in Medioriente risulta da tempo pragmatica ben oltre il cinismo. I turbanti non sono da meno, così il confronto è paritario. Non sappiamo se gli ex detenuti di Guantanamo che da un mese s’alternano al tavolo delle trattative per l’Afghanistan siano lì per proposta dell’uno o dell’altro fronte. Azzardiamo l’ipotesi che i loro compari li abbiano proposti per l’antico prestigio e l’affinata conoscenza del modo di operare degli interlocutori. Mentre quest’ultimi, proprio grazie a simili presenze che valutano più disponibili dopo il ‘regalo della liberazione’, cercano di conseguire uno degli obiettivi considerati irrinunciabili: impedire che nel Paese si ricrei qualsiasi base jihadista modello Qaeda. Finora i taliban hanno messo sul piatto una contropartita adeguata che va oltre il proprio sdoganamento nelle future istituzioni di Kabul. Oltre a riprendersi il governo, non vogliono più vedere soldati Nato sul suolo afghano, tempo sei mesi. Pretesa non da poco, da loro considerata non trattabile e per sottolinearne l’assolutezza da due settimane qualche attentato hanno ripreso a farlo.

Khalilzad sta usando tutta la diplomazia appresa in anni di servizio per non far spezzare il filo dei colloqui che le due parti, con estrema volontà, tengono in piedi. Un miracolo, soprattutto per le molte e differenti anime talebane. In effetti si tratta d’un tavolo  molto più duraturo e aperto rispetto a quelli visti negli ultimi anni. E il mediatore afghano-statunitense, prendendo in esame la richiesta dei turbanti, evidenzia com’essa per andare in porto necessiti di tempi lunghi, non certo di sei mesi. Anche il fattore temporale, non solo l’entità delle reciproche richieste, può avere la sua importanza. Comunque a sostenere l’ipotesi dell’altrui comprensione giunge il generale Miller che vide la morte negli occhi un mese dopo aver assunto l’incarico di responsabile della missione ‘Resolute support’ nel settembre scorso. A ottobre 2018 un reparto guerrigliero entrava in azione a Kandahar, non attaccò lui, diresse l’attenzione sul capo  della sicurezza afghana Abdul Raziq, che venne eliminato con la sua scorta personale. Memore del ‘riguardo’ ora Miller tende la mano ai taliban, dicendogli di cooperare e combattere assieme contro l’Isis. Lo strano connubio è tutto da verificare. Molto dipenderà dalla soddisfazione che ciascuna parte riceverà dalle trattative in atto. Ma sui punti fermi, nessuno cede nulla.  

mercoledì 27 marzo 2019

Amministrative turche, Erdoğan sfida la Storia


In politica, un po’ come nello sport, conservare i successi rappresenta un passo difficile e per nulla scontato. Si possono usare mezzi leciti e illeciti, cambiare le regole e in questo, nell’ultimo ventennio, un personaggio come Recep Tayyip Erdoğan è un indiscusso campione. Ha subìto e contrattaccato, ha giocato sporco sul campo e nel terzo tempo in cui stabiliva accordi poi disattesi o mandati per aria. Pensiamo all’apertura al dialogo con la copiosa minoranza kurda e alla feroce repressione che ha riportato indietro le relazioni e la storia fra lo Stato turco e quell’etnìa di parecchi anni. Tutto nel giro d’un biennio. Campione del trasformismo e doppiogiochismo internazionale Erdoğan e rimasto a galla – come altri autocrati – grazie a operazioni geopolitiche che hanno pagato, sia quando favoriva la destabilizzazione siriana appoggiando in maniera occulta o palesemente i jihadisti che lì combattevano, sia avvicinandosi ai russi difensori di Asad, sia nel favorire il disegno di Angela Merkel nel tamponare la crisi migratoria della prima destabilizzante rotta balcanica verso l’Europa, accogliendo quasi due milioni di rifugiati nei campi predisposti dalla Mezzaluna Rossa .

Scandali personali e di clan familiare non sono, finora, riusciti a disarcionarlo. Né il tentativo di golpe diventato un’arma potentissima per scatenare uno dei maggiori repulisti che la cronaca contemporanea ricordi nei confronti di avversari politici: il movimento Hizmet dell’ex sodale Fethullah Gülen, azzerato con arresti e dimissioni nel settore militare, giuridico, dell’insegnamento accademico e dell’istruzione tout court, della pubblica amministrazione, dell’informazione. Quest’ultima in realtà veniva tacitata ben prima del 15 luglio 2016. La rottura sul fronte interno mostrava il volto tutt’altro che conciliante del sindaco diventato leader politico e poi premier e presidente e presidenzialista col sogno di diventare sultano, in anticipo rispetto al momento deflagrante nel Paese. Tutto nacque attorno alla protesta giovanile, spensierata, artistica e da libero pensiero senza catene del Gezi park, per finire in una riscrittura della Costituzione in funzione iper presidenzialista che sottomette la nazione al volere d’un uomo solo. Un uomo che controlla le forze armate, stabilisce budget e scelta dei magistrati, può sciogliere il Parlamento e indire elezioni senza motivi palesi, nomina personalmente: il capo dell’Intelligence, il Direttore degli Affari religiosi, quello della Banca Centrale, ambasciatori, governatori, rettori, top manager della pubblica amministrazione.

Per realizzare questo piano il fiuto politico del già presidente ha usato, in prima battuta, le azioni di chi pensava di disarcionarlo col vecchio sistema del colpo di mano che non ha funzionato. Perché quella metà e più del popolo che da anni a lui s’affida è scesa per via e l’ha difeso di fronte a carri e mitra. Puntando sul nazionalismo della stessa massa islamista che in due decenni ha reso il Partito della Giustizia e dello Sviluppo una potentissima macchina elettorale, in seconda battuta Erdoğan ha compiuto l’ennesimo scarto spiazzante e ha strizzato l’occhio ai fascisti del Mhp. Con un’alleanza fino a poco prima impensabile, ne ha garantito i seggi nel Meclis e da quei parlamentari ha ricevuto il consenso per ricavare la citata trasformazione costituzionale. Così l’Islam riformista con cui l’Akp si presentava al cospetto nazionale per rubare voti ai repubblicani è diventato più che conservatorismo, ha compattato i turchi attorno a nemici veri o presunti: golpisti, gülenisti, kurdi, giornalisti, libertari fino a scivolare ai residuati del sindacalismo o dell’attivismo marxista come se si vivesse ancora negli anni Settanta. Braccare nemici è sempre stato il fine dei ‘Lupi grigi’ di Bahçeli cui non è parso vero di dar manforte alla caccia al comunista identificato con l’esperimento politico che maggiormente aveva impensierito il sultano: il Partito Democratico dei Popoli.

Un progetto che in più occasioni ha superato l’altissima soglia del 10% per entrare in Parlamento e che s’è visto incarcerare una buona metà dei deputati eletti, compresi i co-presidenti del partito, con l’accusa di collusione col terrorismo o, peggio, di diretta partecipazione ad azioni di guerriglia. Un escamotage per far fuori il disegno di Demirtaş capace di aggirare la strada a senso unico della lotta armata espressa dall’ala irriducibile del fronte kurdo. Dunque il camaleontico presidente turco sembra aver vinto su più terreni una personalissima partita, che aveva sollevato dubbi anche nell’establishment di casa, infatti clamorosi sono stati i divorzi con menti del partito come l’ex presidente Gül e l’ex ministro degli Esteri Davutoğlu. Ora torna nell’aria un refrain già udito in altre fasi della movimentata cronaca politica anatolica. Il 31 marzo la nazione va alle urne per le amministrative. Nulla di trascendentale. Eppure per chi è in sella da tanto e vuole restarci ben oltre le celebrazioni del centenario della moderna Turchia (2023) ogni confronto diventa una prova estrema. E anche queste elezioni rappresentano una battaglia con ricadute sulla politica nazionale per un regime che dall’economia riceve da oltre un anno allarmanti singulti.

Già da mesi osservatori finanziari hanno fatto notare come l’estate di quest’anno diventa il limite massimo entro cui andranno a scadenza i 180 miliardi di dollari di debito estero ricevuti. Debito prevalentemente privato, dicono gli esperti, che tocca solo marginalmente lo Stato. Però quest’ultimo entra in ballo in merito alla tenuta dei conti e se la Banca Centrale ha tamponato la svalutazione della moneta nazionale, l’inflazione è crescente e mette in difficoltà i ceti popolari anche sui generi di prima necessità. A fine gennaio l’aumento dei prezzi ha superato il 30%. Temendo una ricaduta sul consenso il governo ha adottato misure populiste, quali l’aumento del salario minimo mensile portato a circa 400 dollari, sconti sulle utenze (luce, gas), diminuzione dell’iva per i ceti meno abbienti. Ma l’Akp teme che sull’urna batta anche lo scontento della piccola e media borghesia di cui da oltre un decennio s’è fatto rappresentante. Per questo nelle due mega città che costituiscono un quarto dell’elettorato cala due assi del regime: l’ex presidente del Parlamento Yıldırım, candidato a Istanbul e il vicepresidente del partito Özhaseki ad Ankara. Sperando che l’Anatolia profonda e tradizionalista non volti le spalle a un sistema che ha trovato nel liberalismo statalista un modello favorevole a mercato e clientele. Ovviamente questi passi-tampone per non cedere consenso contribuiscono all’aumento della spesa pubblica, ma in ogni luogo la politica, specie se populista, guarda al presente e non parla del domani.

Così il piano di ‘modernizzazione’ in una tradizione che riscopre l’orizzonte ottomano appare sotto gli occhi di tutti in uno dei luoghi simbolo della metropoli sul Bosforo. Piazza Taksim - prospiciente quel Gezi park che aveva conosciuto nel 2013 proteste, cortei di massa, lacrimogeni urticanti e sangue, oltre alle lacrime per i nove morti e gli oltre ottomila feriti - dopo aver visto smantellare quel Teatro Nazionale, immagine del laicismo di Atatürk, vede crescere l’ombra della cupola della nuova Moschea che il devotissimo presidente regala al popolo. Il luogo di culto è in costruzione e mostra per ora linee vuote che verranno riempite, eppure già sovrasta il monumento voluto da Mustafa Kemal, presso lo slargo che era anche capolinea del tranvai della poetica  Istiklal Caddesi. Tutto corre e cambia, però questo rinnovamento urbanistico è sovraccarico di simbolismo politico. E la smania di dettar legge sulla storia e sulla stessa fede è l’idea di rinominare la basilica giustinianea di Santa Sofia quale ‘moschea di Santa Sofia’, come fosse l’epoca di Mehmet II e della conquista della Bisanzio. Del resto anche Atatürk non era stato tenero con quel luogo, islamizzato per secoli, trasformandolo in museo. Luogo che il gioiello artistico di Isidoro di Mileto si prestava a essere, ma senza forzature propagandistiche. Allora come ora. Ma chi la storia vuole farla a propria immagine e somiglianza non teme confronti. Né terreni e neppure divini.

giovedì 21 marzo 2019

Misteri sauditi e lotte di palazzo contro i superpoteri di Mbs


Sullo sfondo c’è il delitto. Talmente imperfetto da diventare la pietra dello scandalo degli ultimi mesi di casa Saud. Delitto ordinato, ormai l’ammette anche la Cia, dal principino bin Salman, che il papà-re, salito sul trono già vecchio a 79 primavere, aveva innalzato a suo delfino due anni fa, usurpando al nipote Muhammad bin Nayef un ruolo già conferito. Un pateracchio che destabilizzava l’andamento ciclico della tradizionalista e autoritaria petromonarchia, controllata dagli anni Trenta dal clan Saud grazie ai buoni uffici del Regno Unito. Nella danza reale di Salman padre non si sa se sia contato il caratterino del principe, che non s’accontentava della carica di ministro della Guerra, assolta da subito (a discapito degli Houthi yemeniti) nell’esaltare l’aspetto militare. Dietro di questo vanno di pari passo una politica estera consona ai voleri del protettore d’Oltreoceano nei suoi due centri di potere - Casa Bianca e Pentagono - e il desiderio di potenza non solo economica che l’islamismo wahhabita rivendica. Da mesi il fantasma di Khashoggi s’aggira per la corte, e superato il complice silenzio iniziale, lo stesso Mbs ha seguìto la via d’una rivendicazione di ritorno (l’opinionista è stato ucciso perché il sistema non ammette critiche e opposizioni) e la presunta modernizzazione interna basata sul business dorato con qualsiasi partner mondiale, purché né ficcanaso né petulante attorno a diritti politici, sociali, civili.
L’Occidente, cresciuto nell’immorale logica del denaro che non puzza, fa finta di nulla e la vita prosegue. Eppure, forse, qualcosa sta accadendo. Proprio nella reggia di Riyadh. Certa stampa e osservatori attenti leggono fra le righe, cercano d’interpretare talune assenze del principino da un protocollo del casato estremamente ferreo. Ultimamente bin Salman ha mancato alcuni incontri internazionali, né ha atteso, come di solito accade fra l’apparato di corte e di sicurezza in aeroporto, il padre di ritorno da un viaggio estero d’una certa importanza (in Egitto). L’ambiente della sicurezza è finito nel marasma delle inchieste esterne e interne dopo l’uccisione di Khashoggi, con tanto di dimissioni forzate, cambio di responsabili eccetera, e anche in occasione del viaggio da Sisi la scorta reale ha subìto avvicendamenti. Si temeva per l’incolumità del sovrano, comunque da tempo dato per malato? Ufficialmente la corona non ha trattato la questione, ma diversi osservatori unendo questo caso con le assenze di Mbs suggeriscono l’ipotesi d’un suo ridimensionamento.
Resta ovviamente una congettura, perché le gerarchie interne erano state ristabilite proprio dalle reinvestiture del 2017 che designavano pretendenti in posti chiave o di comodo. Erano stati accontentati uomini strategici e potenti, alcuni sono caduti col ciclone Khashoggi. Il più noto è Saud al-Qahtani responsabile della cyber sicurezza, vicinissimo a Mbs, sacrificato dal principe e attualmente agli arresti domiciliari. Seppure l’avvicendamento che ha destato più clamore riguardava il ministero del Esteri dove la Casa Bianca aveva voluto la keffia amica e benevolente alla politica statunitense di Ader al-Jubeir. Il nuovo corso di Mbs aveva dovuto acconsentire all’investitura. Ma nel rimpasto post-Khashoggi piazzava nel dicastero l’esperto Ibrahim al-Assaf, un uomo-apparato già ministro delle finanze e prim’ancora alla guida della compagnìa petrolifera di Stato Aramco. Su cui vigilava bin Salman in persona. Ora c’è da capire se qualche consigliere stia dicendo al padre di fidarsi meno del figlio, addirittura estromettendolo a vantaggio di altri rami della famiglia reale. Un’ulteriore mossa su una contromossa già compiuta riguardo alla successione sarebbe un evento epocale. Con cui si scontrerebbe la struttura della trasformazione e del controllo inventata da Mbs, che non è certo solo la macchina di propaganda ‘Vision 2030’.

martedì 12 marzo 2019

Algeria, il clan Bouteflika ritira la candidatura e scippa le elezioni


Ogni Stato ha il suo esercito, ma in Algeria l’esercito è lo Stato” affermava in una recente intervista televisiva un ex membro dell’Intelligence locale, senza nascondere una realtà evidente. Né per quella nazione liberata dal giogo coloniale con le armi e ricondotta a una normalizzazione autoritaria con le armi del suo esercito, che già nel 1965, umiliava i combattenti della battaglia di Algeri. Opera dei Boumédiène e Bouteflika, passando per Bendjedid e soprattutto i presidenti-militari (Kafi e poi Zéroual) che ordinavano stragi notturne nelle case degli algerini, rapivano e uccidevano non solo i fondamentalisti del Gruppo Islamico Armato, ma qualsiasi cittadino, abitante di villaggio fosse sospettato di opposizione alla  legge marziale applicata per anni. Il ‘decennio nero’ della guerra civile resta lo spettro richiamato dalla linea del raggiro e della forza che ha tenuto in piedi per un quinquennio la sceneggiata del Bouteflika in carrozzina, maschera dietro cui agisce il nutrito clan che, in queste tre settimane di ribellione popolare, il mondo ha potuto conoscere.  
Il Bouteflika minore Said, il Capo di Stato maggiore delle Forze Armate Salah da tutti indicato come il pilastro del sistema, forte degli 800.000 militari in servizio, l’esercito più numeroso del continente. Il famigerato boss dell’Intelligence Tartag, mentre in queste ore che preparano il futuro il premier Ouyahia s’è messo in disparte a favore del suo ministro dell’Interno Bedoui.  La notizia del ritiro della candidatura del vecchio Bouteflika ha riportato la festa per via, ma deve fare i conti con la contropartita richiesta: la sospensione delle elezioni, che fa correre la mente a quel dicembre 1991 quando la consultazione vinta dal Fronte Islamico di Salvezza venne cancellata dal successivo colpo di stato militare. I manovratori del fantasma presidenziale parlano di sosta momentanea per riformulare la Costituzione, sottoporla e referendum e tornare alle urne. Passerebbe almeno un anno, forse più. Il tempo utile al clan di prendere le misure per tenere il passo con la rifiorita voglia di partecipazione della gente. Intanto Salah parlando nella locale Scuola militare, sonda l’umore di ufficiali e nuove leve e lancia messaggi trasversali.
Quando afferma che nessun partito algerino vuole un ritorno agli anni della paura, quasi ammonisce che uno stato protratto di agitazione e soprattutto non aderire al percorso che il gruppo di potere sta offrendo a un popolo insofferente, può diventare pericoloso. Il generale fa intendere che l’epoca buia, ben nota a chiunque abbia trent’anni, può ripresentarsi. E’ la minaccia del sistema, ora che non solo adolescenti e giovani, ma l’Algeria adulta e lavoratrice rimette la faccia nelle strade. Si teme che il ‘lavoro’ degli altri due padrini del clan di potere, finora utile a contenere le fila dei lavoratori con la centrale sindacale UGTA, e a orientare il Forum imprenditoriale, opera rispettivamente di monsieur Sidi-Said e monsieur Ali Haddad, abbia esaurito la funzione incantatrice e mediatrice. Non è detto che sia così, ma ci si prepara a ogni evenienza. Infatti il progetto di rimandare le consultazioni è subdolo come lo sono le parole di Salah: “l’esercito condivide le stesse aspirazioni del popolo”. E la piazza, finora decisa e gioiosa, potrebbe vedere scenari peggiori della breve primavera 2011.

lunedì 11 marzo 2019

Sisi city: sogni e bisogni, stupore e dominio


Gialla come la sabbia che ha attorno e sopra le fondamenta, la landlines della città senza nome, nuova capitale amministrativa d’Egitto che tutti iniziano a chiamare Sisi city, è una realtà visibilissima seppure da terminare nel 2022. Questa è la data in cui il Parlamento, i palazzi del presidente, 34 ministeri, le ambasciate straniere dovrebbero avviare le molteplici attività nelle nuove spettacolari sedi. Notizie particolari potrete trovarle nell’interessante reportage realizzato da Emanuele Midolo (Inside Egypt’s new capital in https://www.propertyweek.com/) mentre qui ricordiamo la politica dello stupore adottata da più d’un uomo forte per sostenere il proprio dominio. Certo è sempre stato così. Nella storia millenaria del genere umano e nelle latitudini più varie, le opere di pubblica utilità o semplicemente di piacere riflettono un senso di grandezza e potenza su governi, regimi o singoli dittatori che le propongono. Eppure esistono palesi differenze fra le medesime ‘opere epocali’. Restiamo in Egitto, che vanta prototipi ciclopici tuttora svettanti nell’area di Giza o di Luxor, e parliamo delle modernizzazioni contemporanee, ponendo due esempi.

Il primo può avvicinarsi a Sisi city, come città nuova sorta fra le polveri del deserto a una decina di chilometri dalla Cairo dei mamelucchi e  di Al Azhar, ed è quello dell’Heliopolis inventata nel 1905 dal barone belga Empain in rapporto col figlio del primo ministro Nubar Pasha. Quest’ultimo, metà egiziano e metà armeno, aveva attraversato la fase del trapasso dell’Impero Ottomano in terra d’Egitto nel ruolo di bey e servendo da ministro. Agli inizi del Novecento il barone egittologo giunse al Cairo con l’intento d’investire denaro della consorte nella realizzazione d’una linea ferroviaria per unire l’affascinante area archeologica di El Matareya (con la necropoli di Eliopoli datata 2000 anni prima di Cristo) e Port Said. Probabilmente la linea elettrificata fungeva da pretesto, visto che l’Oases Company insieme alle ferrovie s’occupava di sviluppo immobiliare, e tutt’attorno edificò Heliopolis, un sobborgo diventato presto “città del lusso”. Così una fetta di deserto venne urbanizzato in un paio d’anni, dotato di ville a schiera e terrazzate con uno stile proprio, condomini per il personale che lì lavorava e bungalow per la servitù. Un bel business coloniale con vantaggi per i politici locali sedotti da un affarismo privato che non rimpinguava le casse della nazione, neppure dopo gli anni Venti quando essa raggiunse l’indipendenza emancipandosi dal protettorato britannico.

La cittadella vantava un parco divertimenti, diventando zona residenziale di famiglie benestanti e di cittadini europei. Solo con l’avvento di Nasser il sito s’aprì ai ceti medi, pur sempre istruiti, e agli ufficiali dell’esercito. Col tempo la potente lobby militare trasferì in loco alcune sedi fra cui l’Accademia aeronautica, tantoché a Heliopolis stabilì la sua residenza il presidente-raìs Hosni Mubarak, che nell’aeronautica aveva mosso i primi passi come ufficiale per poi lanciarsi in politica. Negli anni tutta l’area è diventata il proseguimento della grande capitale che oggi supera i venti milioni di abitanti, restando comunque un quartiere-bene, abitato da ricche celebrità dello spettacolo e dello sport, da politici e uomini d’apparato. Il buen retiro dei vip come ne esistono in tutte le metropoli del globo. Un luogo da preservare dalle agitazioni sociali e politiche. Su questa falsa riga nasce e cresce Sisi city, che entra in sintonìa col mega affarismo mondiale di cui la Cina si fa interprete, attuando la profonda penetrazione nel continente dalle immense risorse.

Le imprese di Pechino sono ovunque e regina della nuova Cairo amministrativa è la China State Construction Energeering Corporation, colosso dei colossi quanto a pianificazione, progettazione e realizzazione d’ingegneria e design. Nata ai tempi di Mao Tse-tung, rivisitata secondo il pragmatismo di Deng e lanciata sul mercato globale dall’attuale dirigenza cinese, CSCEC vanta società controllate e quotate in varie Borse a cominciare da quella di Shanghai. La nuova sede della politica egiziana costa tre miliardi di dollari, si realizza grazie a un prestito cinese per un lasso temporale di dieci anni. Ma China State Construction Energeering Corporation guarda a ogni angolo africano, è impegnata in Algeria con la costruzione della grande Moschea e dell’aeroporto della capitale (due miliardi di dollari), ad Addis Abeba col grattacielo che ospiterà la Banca Commerciale d’Etiopia e lo Stadio Nazionale, quindi nello Stadio dei Martiri a Kinshasa e in Botswana. CSCEC incarna uno dei volti dell’imperialismo finanziario di Pechino che ovunque tesse la sua ‘via della seta’ e penetra, finora senza colpo ferire, nelle situazioni più complicate che giungono nel contraddittorio Pakistan (Parco tecnologico di Lahore, Jinnah Stadium di Islamabad), nel travagliato Afghanistan (giacimenti di rame di Mes Aynak) evitando di guardare dentro i buchi neri della geopolitica. Come del resto fan tutte le imprese mondiali.

L’altro esempio è la diga di Aswan, la cui prima realizzazione è quasi coeva a Heliopolis. Nel 1902, sotto il protettorato britannico, nei pressi dell’omonima città s’inaugurava una diga sul Nilo lunga 1900 metri, alta 54, che venne ulteriormente elevata e ampliata fra il 1907 e il 1912 e sotto la monarchia Fu’ad nel 1933. Si trattava di un’opera d’alta ingegneria di cui beneficiava la nazione afflitta da inondazioni, benefiche per la distribuzione del famoso limo in aree desertiche, ma anche distruttive verso raccolti e villaggi rurali. Con la diga il controllo e la regolazione delle acque del Nilo avrebbero fornito maggiori garanzie. Nel secondo dopoguerra anziché pensare a un terzo ritocco della diga si decise di costruirne una nuova sei chilometri a monte della precedente e l’attuazione dell’opera faraonica, è il caso di dirlo anche se a gestirla fu un politico in odore di socialismo e terzomondismo come il presidente Gamal Nasser, divenne un caso nella geopolitica nazionale. Perché attorno ai suoi finanziamenti gravitarono gli interessi del ritorno strategico-militare con cui si misuravano le potenze mondiali statunitense e sovietica nella fase della cosiddetta “Guerra fredda”.

La diga di Aswan doveva essere sostenuta dall’aiuto del Segretario di Stato John Duller, 70 milioni di dollari (56 americani, 14 britannici) più altri 200 milioni dalla Banca Internazionale della Costruzione e lo Sviluppo, un organismo delle Nazioni Unite  sorto con gli accordi di Bretton Wood, organismo sedicente senza fini di lucro, ma con interessi di orientamento politico non secondari. Non a caso la Banca e il Segretario di Stato Usa affievolirono i propri slanci quando il presidente Nasser mostrò esplicitamente di volersi rapportare al Cremlino per questioni di natura internazionale. Era il luglio 1956 e da quel momento il progetto della diga cambiò sfera d’influenza. Due anni più tardi il Segretario dell’Urss Nikita Kruscev esplicitava la volontà di Mosca di finanziare per un terzo l’opera ingegneristica. I restanti costi vennero sostenuti coi proventi dei dazi doganali di Suez,  cresciuti sensibilmente dopo che lo stesso Nasser aveva attuato la nazionalizzazione del canale. Nell’immenso lavoro della nuova diga durato un decennio e inaugurato nel luglio 1970, intervenne anche l’Unesco per salvaguardare l’imperdibile patrimonio archeologico di Abu Simbel, che venne riposizionato a monte, pezzo per pezzo, mentre alcuni templi furono donati a importanti musei del mondo.

I benefici dell’immensa diga (3600 metri di lunghezza, 980 di larghezza, 111 di altezza), quelli di sventare inondazioni evitando carestie che si riproponevano anche negli anni Settanta e Ottanta, furono sotto gli occhi di governanti e cittadini, oltre ai vantaggi  energetici: metà del fabbisogno del Paese per tutti gli anni Ottanta era soddisfatto dalla produzione idroelettrica. Certo, si riscontrarono anche diverse pecche: eccessiva sedimentazione a monte ed erosione a valle, accresciuta salinità nell’area del Delta, scomparsa di talune specie migratorie, rischi sanitari per aumento di malaria e diffusione di parassiti. Problemi spesso tralasciati dalle autorità competenti e dall’amministrazione politica, ma lo scopo di un’opera come questa era completamente rivolto alla vita della nazione, all’intera comunità egiziana in un’ottica oggettivamente interclassista. Nulla a che vedere con la città dei sogni del barone affarista che pensava ai benestanti e che ha conservato quell’impronta. Se la politica di ciascun presidente nei decenni che si sono seguiti ha cercato di trarre dalle grandi opere la maggiore visibilità per sé per ottenere lustro e uno sbalorditivo effetto propagandistico, il generale Sisi segue questa scia e l’amplifica. Vuole una città-apparato abitata dalla sua gente: sei milioni di funzionari e impiegati legati alle Istituzioni e alle strutture della forza che si separa dal Cairo popolare, guarda all’efficienza occidentale, lasciando al caos modellato sul suq di Khalili, l’esistenza plebea. Ovviamente non volta totalmente le spalle a quella gente cui, come ogni dittatore che guida i sudditi con lusinghe e paura, solletica il sogno di poter accedere nella city dell’apparato, ottenendo “un lavoro che conta”. Oppure continuando a sognarlo, arrangiando l’esistenza con l’ossequio al potere che chiede quando occorre, cioè sempre, obbedienza e rassegnazione. E spesso delazione. 

giovedì 7 marzo 2019

Kabul, smania di stragi e avvertimenti


A Dasht-e Barchi, area ovest di Kabul stamane sopraggiungeva un bel manipolo di uomini che contano, in gran parte signori della guerra (Mohaqiq, Salahuddin Rabbani), l’ex presidente Karzai, i vicepresidenti Abdullah e Qanooni, i candidati alle presidenziali Atmar e Pedram. Avrebbero preso parte alla commemorazione di Ali Mazari, leader dell’Hezb-e Wahdat e signore della guerra sul versante dell’etnìa hazara, ucciso 24 anni fa negli strascichi della guerra civile. Eliminato dai talebani prima della loro presa del potere. C’era quindi una concentrazione di personalità su cui l’Intelligence locale, quella addestrata dalla Cia, accendeva la luce rossa della situazione pericolosissima. E, a suo dire, aveva preso ogni precauzione perché il luogo della cerimonia, dov’erano raccolte centinaia di persone presso la moschea sciita della capitale afghana (presa di mira più volte da attentati), fosse filtrato a dovere e protetto. Faceva ben sperare la fase dei colloqui di pace - in corso prevalentemente a Doha fra la delegazione statunitense presieduta da Khalilzad e quella talebana ora guidata da Baradar, ma anche il tavolo di Mosca dove s’è accreditato il camaleonte Karzai - che nel mese di febbraio aveva preservato da agguati la città. Ancora ampia era l’eco di deflagrazioni e grida, di tanfo d’esplosivo e di morte ripetuta a cadenza settimanale, e finanche quotidiana, nella folle sfida stragista. Quella intessuta per oltre un anno dai talebani, oggi colloquianti, e dai transfughi che hanno dato vita all’Islamic State Khorasan Province, per dimostrare la potenza di fuoco di ciascuno.  Ma non è servito.

Kabul è esplosa ancora e conta quattro vittime e oltre novanta feriti. Tutti fra le gente che assisteva, non fra i vecchi intoccabili papaveri che al più, se non s’accordano, s’accoppano fra loro  come i capoclan malavitosi. Nel primo quinquennio dei Novanta avvenne così, seguirono quattro anni di sanguinosissima guerra civile con ottatantamila morti e forse più. Meno protetto dalla buona sorte e dallo status è Latif Pedram che ha riportato qualche ferita, però nulla di grave. Tutto il Gotha politico presente alla celebrazione ha condannato l’attacco giudicato “terroristico e antipatriottico” poiché colpisce i cittadini e la nazione in un momento delicato di transizione verso una possibile tregua militare. Si è unito alla condanna anche il presidente Ghani che non era presente alla cerimonia. Secondo alcuni osservatori per l’attrito apertosi il mese scorso con Mohaqiq che è stato rimosso dall’incarico governativo per aver appoggiato la candidatura alle future presidenziali dell’ex capo della Sicurezza Nazionale Atmar, una proposta alternativa a quella dell’attuale presidente. Che sta già vivendo malissimo l’emarginazione dai colloqui di Doha, richiesta dai talebani e accondiscesa da Washington. E’ probabile che per i mesi a venire gli Usa puntino su uomini e soluzioni diverse dal passato. La domanda su chi sia la mano che ha dato fuoco alle polveri offre almeno due ipotesi: quella dell’Ispk è la prima, la seconda guarda agli effetti che non sono stati devastanti e soprattutto non hanno toccato il palco dei potentati. Nel qual caso si tratterebbe d’un avvertimento, lanciato magari dai taliban. Una bomba che dice: certe rappresentanze spettano a noi, fatevi da parte oppure mettetevi in seconda fila. Senza dimenticare che nel grande gioco afghano dietro le apparenze locali ci sono i grandi attori globali. 

Selay Ghaffar (Hambastagi) “Solo con la laicità le donne potranno aspirare alla libertà”


Ghaffar come valuta Hambastagi il possibile accordo di pace fra statunitensi e talebani?

Lo consideriamo il solito gioco americano: pace senza giustizia… La verità è che Stati Uniti e Nato non vogliono pacificare il nostro Paese, puntano a cronicizzare la destabilizzazione per farne un terreno di scontro coi giganti russo e cinese. Ovviamente non ne restano fuori le potenze regionali: Pakistan, Iran, Arabia Saudita. L’Afghanistan resterà un campo di battaglia per prossimi conflitti, per distrarre la nostra gente dalla situazione disperata in cui versa. Magari distrarla dalle stesse elezioni presidenziali con cui gli Stati Uniti hanno governato sotto copertura sin dai tempi del primo mandato a Karzai. Il prossimo presidente afghano sarà l’ennesimo burattino nelle mani di Washington. E’ utile sottolineare che più degli anni passati ogni grande potenza mira a sostenere il proprio gruppo talebano, perciò gli Usa, temendo di perdere il controllo su questo scacchiere, insistono sugli accordi. Ai vari gruppi talebani sta bene perché gli viene riconosciuto una gestione  territoriale e magari istituzionale. Mentre gli americani resteranno in Afghanistan senza perdere la padronanza delle basi istallate, le affideranno ai Black Waters (una delle società di mercenari più gettonata si chiama Academia), gente senza regole d’ingaggio, priva di ogni scrupolo, soggetti violenti e brutali. Le nostre città, i nostri villaggi vedranno, a seconda delle aree, la presenza di miliziani coi turbanti oppure di mercenari. Questo è l’accordo di “pace”.

Dunque l’eventuale compromesso si giocherà sempre sulla pelle della popolazione?

Sarà addirittura peggio. La situazione peggiora giorno per giorno, soprattutto a danno delle donne. Criminali da anni promossi a statisti, i nomi sono sui giornali e siti di tutto il mondo: Abdullah, Atta, Dostum, Hekmatyar, Sayaf, Mohaqiq non sono mai stati condannati per nessuno dei crimini commessi, continuano a delinquere nei ruoli istituzionali e continueranno a farlo in futuro. Questa via si spalanca a talebani e all’Isis afghano. Fra l’altro solo tre, quattro gruppi taliban hanno aderito ai cosiddetti colloqui di pace. Il portavoce Stanekzai non è riconosciuto da altri capi che lo considerano una spia americana; anche lui è stato addestrato in America, come Khalizad, Ghani, Karzai. Purtroppo la popolazione soffrirà maggiormente, le donne per prime. Gli attacchi contro i civili non cesseranno.

Il fatto che l’attuale governo Ghani sia escluso dal tavolo, emargina gli attori del cosiddetto Afghanistan della transizione alla democrazia?

Sì, Ghani è stato escluso dai colloqui. Significa che non viene più riconosciuto, non ha controllo del territorio né autorità per essere una marionetta ideale. Hambastagi l’ha sempre sostenuto: ognuna delle grandi potenze ha i suoi uomini nel governo, e sul territorio afghano vuole avere il suo pezzo di potere. Karzai ultimamente s’è avvicinato alla Russia; Ghani è pro-Usa. Non si metteranno mai d’accordo su nulla. Anche Hekmatyar è stato escluso dai colloqui. Noi di Hamabastagi abbiamo indagato sui motivi: voleva troppo per sé, chiedeva denaro, potere, un esercito di uomini modernamente armati, troppo per un solo uomo, anche se col suo  trascorso. Ripeto: dev’essere chiaro che questi criminali non sono d’accordo su niente, si uniscono apparentemente, lo scopo è dividersi il potere. Hekmatyar correrà da solo alle presidenziali, non ha alleati. Mentre Ghani è screditato, ormai è bruciato.

Gli esclusi dal tavolo potrebbero diventare oppositori a un governo che ricade nel peggior oscurantismo?

Quel che potrebbero fare è un’opposizione-farsa. Un esempio: nel 2015 le parti erano Dostum e Ghani contro Atta-Mohaqiq. A un tratto Dostum sparì, volevano farlo fuori (forse anche fisicamente, ndr) e lui adducendo motivi di salute riparò in Turchia. In Turchia si son ritrovati altri ex signori della guerra per combinare una sorta di alleanza, poiché, come dicevo, questi gaglioffi si alleano solo per ragioni di dominio. Quando acquistano potere, ruoli e funzioni ricominciano a criticarsi e scontrarsi. E’ un gioco che abbiamo sotto gli occhi da decenni. La verità è che fra costoro non esistono accordi, c’è la tattica di minacciare la guerra, a volte farsela, per poi spartirsi il potere.

Gli attuali mediatori talebani sembrerebbero disposti ad aperture: sostengono (almeno a parole) istruzione anche al femminile, spazi per le donne nella rappresentanza istituzionale, parlano addirittura di diritti…

I diritti, l’istruzione, la questione di genere sono per loro insignificanti. Hanno commesso sempre terribili violenze contro le donne, non cambieranno idea. Dicono quello che i capi statunitensi vogliono che dicano. Sia chiaro: non esistono talebani moderati, il concetto è un’invenzione occidentale. Durante le trattative certi miliziani hanno continuato a commettere crimini contro le donne. Questi misogini continueranno a fare peggio, magari in altro modo, hanno diverse modalità per discriminare, possono farlo apertamente, in maniera celata, tramite il parlamento e le leggi. Per loro le donne sono animali, oggetti di poco valore. L’unica soluzione è la lotta. Le donne afghane dovranno conquistare la loro autonomia, i loro diritti. Dovranno organizzarsi in modo autonomo, non possono aspettarsi niente di positivo.

I talebani propongono una riscrittura della Costituzione, affermano che a formularla dovranno essere ulema, giuristi, studenti coranici. La Carta costituzionale può peggiorare?

Nelle mani di costoro ogni carta, anche la migliore, diventa carta straccia. Nessuna norma a favore dei diritti o a favore delle donne è mai stata applicata in Afghanistan, anche se apparentemente il governo firma la Costituzione o altre leggi dichiarate a favore delle donne.

Possibile che le minoranze laiche non riescano ad avere quella voce che la generazione di militanti cui lei appartiene ha reclamato, anche a rischio dell’incolumità?

Noi usiamo lo strumento della laicità per screditare l’utilizzo che in Afghanistan si fa della religione. La fede viene utilizzata per opprimere la popolazione. Usiamo la laicità per chiedere diritti, perché siamo consapevoli che solo con la laicità le donne potranno aspirare alla libertà. Questo ovviamente ci espone ad attacchi, ma ogni volta siamo più forti e convincenti.

La gioventù afghana continua a subire certi influssi di tradizione e religione?

Difficile dirlo, nessuno avrebbe mai il coraggio di dichiararsi non-musulmano in Afghanistan. Difficile saperlo con certezza… Certamente sempre più ragazzi criticano l’utilizzo che si fa della religione. I fondamentalisti lavorano moltissimo all’interno delle università, per condizionare le menti, influenzarle, omologarle. Per assurdo entrambe le parti, i fondamentalisti e quelli che aspirano a una società laica, aumentano di numero. Ma se dovessimo paragonare gli attuali studenti universitari di Kabul a quelli degli anni Settanta, non ci sarebbe confronto...


Insomma la società afghana è sempre bloccata da: guerra, occupazione straniera, warlords, tribalismo, fondamentalismo, mancanza di reali aiuti progressivi, economia reale, distribuzione di lavoro e ricchezza…

Sì, è così. Una società paralizzata e impedita nella crescita proprio da questi fattori che ci bloccano da quarant’anni.

Di recente lei è stata protagonista d’un filmato italiano che parla di attiviste d’opposizione. Chi in Afghanistan lotta per i diritti oltre all’informazione di quali strumenti necessiterebbe?

Nel nostro Paese ci servono le persone, senza people non siamo niente. Dall’estero abbiamo bisogno di appoggio politico, dite ai vostri governi di smettere di puntellare i signori della guerra e i fondamentalisti. Sostenete le vere forze progressiste che agiscono in Afghanistan per un bene comune.

martedì 5 marzo 2019

L’Algeria della speranza contro i troppi tradimenti



Giovani, e anche no. Le piazze di tutto il mondo sono prevalentemente giovanili, ancor più nel Maghreb dove le ragazze e i ragazzi sono tanti e disoccupati Ma le vie di Algeri, Orano, Sétif, Costantine e di altri centri minori in questi giorni si riempiono di più generazioni, che se superano i venticinque anni hanno fatto i conti con l’orrore. L’orrore della guerra civile dei Novanta, delle gole squarciate, dei corpi smembrati da esplosioni la cui mano è conosciuta o presunta, delle sparizioni private del ritorno e delle spoglie. E’ il terrore fratricida che ha spezzato un Paese che voleva voltar pagina e vedeva l’Islam politico inizialmente misurarsi coi numeri del consenso, impedito dalla “democrazia delle divise” che mai ha fatto i conti con la democrazia dell’alternanza. I testimoni del furore storico della Liberazione che s’erano misurati, a rischio della vita, coi parà del colonnello Mathieu (la ricostruzione filmica più fedele alla realtà) quelli che torturavano l’indomito spirito d’indipendenza popolare, si stanno estinguendo per limiti d’età. Sebbene a battaglia d’Algeri finita il tramonto delle speranze della nazione c’era già stato, con l’egualitarismo terzomondista di Ben Bella che cedeva il passo al militarismo del ‘clan di Oujda’. E il volto d’Algeria s’è sempre più distanziato dai suoi Ali La Pointe, immedesimandosi e subendo i Boumédiène e i Bouteflika.
Quest’ultimo, prima d’imbalsamarsi al potere, era stato per tutti gli anni Sessanta e Settanta vicino al gruppo vincente, come giovane ministro degli Esteri, per poi sparire fra gli Ottanta e i Novanta, un po’ perché emarginato dall’apparato che rimpiazzava Boumédiène, un po’ per via di scandali e affari loschi che aveva condotto grazie alla forza del dicastero. Ma quando Bouteflika prende direttamente il potere nella veste di presidente d’un Paese lacerato dal sangue e affamato nonostante le risorse del sottosuolo, rivende in patria e nella fitta rete di relazioni estere (soprattutto con gli ex colonialisti di Francia) il ruolo di pacificatore, mentre si gingilla coi lustrini di combattente e diplomatico. Così dal Duemila la sua vita s’impreziosisce di questi tre vanti, oltre alla funzione di amico dell’Eliseo. Se dall’inizio del Terzo Millennio la scomposizione di quello che era stato il Medio Oriente - creato dalle smanie imperiali dei signori Sykes e Picot e parzialmente delle trame perdenti guglielmine e zariste - ha visto cadere e passare vari raìs con cui Bouteflika aveva rapporti (Saddam Hussein, Asad padre, Gheddafi), la rabbia del cambiamento che nel 2011 scuoteva Egitto e Tunisia sfiorò appena la nazione guidata e il nativo Marocco. Più che l’anziano e futuro presidente-disabile (nel 2013 Bouteflika venne colpito da un ictus che l’ha privato di parole e probabilmente pensieri) a programmare per corsi ci pensa la triade di potere: il fratello Said, il generale Salah, il capo dell’Intelligence Mohamad Mediène.
Ma si tratta d’una pianificazione monca vista la mossa autolesionista del clan che, rilanciando una candidatura non più spendibile, si ritrova le piazze in subbuglio. L’attuale protesta algerina non è rivolta solo al famigerato quinto mandato per le presidenziali del 18 aprile, si riagitano le stesse questioni sollevate dalle primavere del 2011: dignità, lavoro, democrazia contro la corruzione politica di caste, in buona parte militari, che accaparrano risorse per arricchimenti personali, beneficiando minoranze di cortigiani a danno della restante popolazione. Quello che accade, ad esempio, in Marocco, in Egitto e accadeva in Siria prima della terapia della strage praticata da jihadisti e lealisti di Bashar Asad.  Oggi i  ventriloqui di Bouteflika chiedono una sua rielezione, promettendo riforme. Si tratta dell’ennesimo raggiro: in vent’anni niente è stato realizzato. Nei rapporti con l’Unione Europea, la più grande nazione africana pur contando la metà della popolazione d’Egitto ha una disoccupazione superiore il 30%, con picchi di oltre il 50% fra i giovani, molti dei quali sono costretti a micro lavori incapaci di garantirgli un futuro. Come da noi, certo. Ma con la differenza che anche i ragazzi d’Algeria alla stregua dei fratelli di Marocco, Tunisia, Libia, Egitto pensano che sull’altra sponda del Mediterraneo ci sia il paradiso. E in mancanza d’altro vogliono arrivarci. Esperti di flussi migratori, già valutano l’ipotesi di rotte verso la Sardegna e le Baleari tracciate da possibili trafficanti. Scenari improbabili? Può darsi, ma la disperazione si governa sempre con estrema difficoltà.
Meschinamente coerente col proprio passato la Francia di Macron non appare diversa da quella di De Gaulle, anche nei discorsi fatti dal presidente in una recente intervista rilasciata all’ultimo paggio servile profumatamente pagato dalla Rai che risponde al nome di Fabio Fazio. In quella melensa chiacchiera nulla è stato detto sui tumulti nell’ex colonia, in verità nulla è stato chiesto. Sarebbe risultato politicamente scorretto,  oltre che imbarazzante per un presidente già problematizzato dal contropotere giallo interno e dalle tuttora presenti malefatte in terra d’Africa, non certo riferite alla sola vicenda del ‘franco coloniale’. Ma la Francia, la Germania, l’Italia, il terzetto che fa da motore alla Ue nei percorsi finanziari e la rende partner affaristica con Algeri, non si fanno  minimamente sfiorare dal dubbio che aiutare i raìs sia un danno per il futuro di tutti. Ovviamente a pagarne direttamente e immediatamente le spese è la gente d’Algeria, quella che ora alza la voce e l’orgogliosa testa. Che per far restare su un binario pacifico la protesta, di fronte all’impunità di chi si cela dietro il totem pur ammaccato di Bouteflika, annuncia l’astensione. Finora l’opposizione rappresentata dal Front El Moustabal,  Labour Party, Islamic Movement Society annuncia il boicottaggio alle presidenziali. Il National and Democratic Rally è incerto, forse ci sarà. Di altri sapremo. Il dramma è che altrove, vedi l’Egitto autoritario di Sisi, due terzi del popolo non vota. Ma il generale golpista si crogiola nel 97% dei consensi, quelle percentuali preconfezionate che anche il vecchio Bouteflika ha vantato finora.

lunedì 4 marzo 2019

Doha, l'America che dialoga coi taliban


Giunge al settimo giorno e continua il summit di Doha fra statunitensi e talebani. Quest’ultimi hanno ormai surclassano i primi nei titoli della stampa internazionale. La volontà di patteggiare appare elevata e la discussione ribadisce due volontà assolute. I taliban chiedono il ritiro di tutte le truppe occupanti, gli statunitensi vogliono garanzie per eliminare dal territorio afghano qualsiasi presenza terroristica contro se stessi e gli alleati. Tutto chiaro. Ma ci sono alcune variabili non specificate nei resoconti dei reciproci portavoce. Il ritiro incondizionato di truppe Nato riguarda anche le basi aeree create durante i diciotto anni d’occupazione? E la richiesta americana di eliminare dal territorio afghano i pericoli per i soldati di Washington si riferisce a una presenza interna a quel Paese o ad avamposti limitrofi? Difficile credere che i talebani si mettano a fare i gendarmi pro Usa contro i fratelli dissidenti dell’Iskp o gli irriducibili pro Isis, che detestano per questioni di concorrenza, e una presenza statunitense anche ridotta di marines e avieri entrerebbe in contraddizione con la fermezza dichiarata dalla richiesta talebana.
E allora c’è da chiedersi se fra le pieghe della seriosità dei colloqui non si celino i classici trucchi di quella politica intransigente con deroghe per interessi di parte e d’apparato. Occorrerà vedere gli sviluppi per comprendere meglio. Intanto quel che sembra un gran desiderio di risolvere alcune questioni sta nella rappresentanza delle delegazioni. Finora l’Alto rappresentante per gli Usa Zalmay Khalizad ha accettato il veto posto dai turbanti a una qualsiasi presenza al tavolo di trattativa dell’attuale governo di Kabul; ciò significa che la Casa Bianca è costretta a rinnegare un quindicennio di sua politica per la trasformazione (pilotata) di quel Paese. Un progetto in effetti naufragato da tempo sul piano militare, politico, giuridico e amministrativo. I Karzai, i Ghani, gli Abdullah appaiono per quel che sono stati e sono: fantocci, ora abbandonati dagli stessi burattinai. L’investitura del leader talebano con cui l’America di Trump sta discutendo è indubbiamente di rango. Il mullah Abdul Ghani Baradar è stato cofondatore del movimento degli studenti coranici, vicinissimo al mullah Omar.
E’ lui che negli ultimi mesi ha trovato l’accordo con tutti i capi clan afghani, da quelli della Shura di Quetta solo parzialmente contenti della leadership di Akhunzada su cui preme l’Iran, ai ribelli di Haqqani carezzati dagli emiri del Golfo, tenendo per ora buoni anche i riottosi miliziani del Waziristan settentrionale. Baradar ha compiuto un miracolo. Un’azione resa comunque possibile dalla Cia, che nell’ottobre scorso ha ordinato all’Intelligence pakistana di liberare questo leader, catturato nel 2010 e tenuto a lungo in catene  nelle carceri speciali di Islamabad. Questa prigionia prolungata doveva servire al governo pakistano per privilegiare quei turbanti che si aprivano a una collaborazione, ma nei mesi scorsi sono entrati in scena direttamente i Servizi statunitensi che hanno imposto al premier Khan la liberazione dello storico leader affinché rappresentasse il movimento talebano a Doha. Baradar s’è immedesimato nel ruolo, spendendo la sua autorità per trovare una linea di condotta comune fra i miliziani dialoganti. Occorrerà vedere chi farà gli interessi di chi. Certamente non si profilano tutele per civili e donne afghane.