giovedì 7 marzo 2019

Kabul, smania di stragi e avvertimenti


A Dasht-e Barchi, area ovest di Kabul stamane sopraggiungeva un bel manipolo di uomini che contano, in gran parte signori della guerra (Mohaqiq, Salahuddin Rabbani), l’ex presidente Karzai, i vicepresidenti Abdullah e Qanooni, i candidati alle presidenziali Atmar e Pedram. Avrebbero preso parte alla commemorazione di Ali Mazari, leader dell’Hezb-e Wahdat e signore della guerra sul versante dell’etnìa hazara, ucciso 24 anni fa negli strascichi della guerra civile. Eliminato dai talebani prima della loro presa del potere. C’era quindi una concentrazione di personalità su cui l’Intelligence locale, quella addestrata dalla Cia, accendeva la luce rossa della situazione pericolosissima. E, a suo dire, aveva preso ogni precauzione perché il luogo della cerimonia, dov’erano raccolte centinaia di persone presso la moschea sciita della capitale afghana (presa di mira più volte da attentati), fosse filtrato a dovere e protetto. Faceva ben sperare la fase dei colloqui di pace - in corso prevalentemente a Doha fra la delegazione statunitense presieduta da Khalilzad e quella talebana ora guidata da Baradar, ma anche il tavolo di Mosca dove s’è accreditato il camaleonte Karzai - che nel mese di febbraio aveva preservato da agguati la città. Ancora ampia era l’eco di deflagrazioni e grida, di tanfo d’esplosivo e di morte ripetuta a cadenza settimanale, e finanche quotidiana, nella folle sfida stragista. Quella intessuta per oltre un anno dai talebani, oggi colloquianti, e dai transfughi che hanno dato vita all’Islamic State Khorasan Province, per dimostrare la potenza di fuoco di ciascuno.  Ma non è servito.

Kabul è esplosa ancora e conta quattro vittime e oltre novanta feriti. Tutti fra le gente che assisteva, non fra i vecchi intoccabili papaveri che al più, se non s’accordano, s’accoppano fra loro  come i capoclan malavitosi. Nel primo quinquennio dei Novanta avvenne così, seguirono quattro anni di sanguinosissima guerra civile con ottatantamila morti e forse più. Meno protetto dalla buona sorte e dallo status è Latif Pedram che ha riportato qualche ferita, però nulla di grave. Tutto il Gotha politico presente alla celebrazione ha condannato l’attacco giudicato “terroristico e antipatriottico” poiché colpisce i cittadini e la nazione in un momento delicato di transizione verso una possibile tregua militare. Si è unito alla condanna anche il presidente Ghani che non era presente alla cerimonia. Secondo alcuni osservatori per l’attrito apertosi il mese scorso con Mohaqiq che è stato rimosso dall’incarico governativo per aver appoggiato la candidatura alle future presidenziali dell’ex capo della Sicurezza Nazionale Atmar, una proposta alternativa a quella dell’attuale presidente. Che sta già vivendo malissimo l’emarginazione dai colloqui di Doha, richiesta dai talebani e accondiscesa da Washington. E’ probabile che per i mesi a venire gli Usa puntino su uomini e soluzioni diverse dal passato. La domanda su chi sia la mano che ha dato fuoco alle polveri offre almeno due ipotesi: quella dell’Ispk è la prima, la seconda guarda agli effetti che non sono stati devastanti e soprattutto non hanno toccato il palco dei potentati. Nel qual caso si tratterebbe d’un avvertimento, lanciato magari dai taliban. Una bomba che dice: certe rappresentanze spettano a noi, fatevi da parte oppure mettetevi in seconda fila. Senza dimenticare che nel grande gioco afghano dietro le apparenze locali ci sono i grandi attori globali. 

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