mercoledì 27 novembre 2013

Afghanistan, torna di moda la lapidazione



Sulla vita delle donne, sottoposta alle pietre d’una nuova lapidazione per adulterio, Hamid Karzai lavora per una successione nel segno dell’oscurantismo. E’ di queste ore la notizia che il ministero della Giustizia afghano prende in esame una bozza di riforma del codice penale che prevede la reitroduzione della lapidazione (come nel quadriennio talebano) allargando la condanna capitale anche all’uomo reo. Il direttore dell’ufficio legislativo ha già difeso la proposta trovandola, a suo dire, consona ai dettami della Shari’a. Le associazioni umanitarie sono insorte lanciando un appello alle massime cariche afghane per fermare la misura criminale. Peccato che molte di queste autorità (i vicepresidenti della Repubblica Islamica Khalili e Fahim sono noti signori della guerra vicini alle posizioni fondamentaliste più intransigenti), mentre Hamid Karzai sta da tempo preparando un ricambio politico avvicinando i settori più retrivi delle etnìe afghane. Una recente operazione l’ha visto protagonista del patto col presidente statunitense Obama, denominato “Bilateral security agreement”, che è stato irritualmente sottoposto al vaglio della Loya Jirga.
Ogni sponda diventa buona per gli interessi personali del presidente uscente, in barba al suo presunto ruolo democratico di cui parla esclusivamente la propaganda occidentale. Una delle manipolazioni più dolorose per le donne delle 34 province afghane è proprio la patente di reale rappresentatività dei bisogni della popolazione, offerta a diverse figure femminili introdotte in Parlamento sull’onda della “democratizzazione”. Sul tema la denuncia di Rawa è tranciante. Le deputate: Amina Afzali, Hassan Bano Ghazanfar, Massouda Jalal, Shukria Barakzai, Noorzia Atmar, Fouzia Kofi e altre colleghe presenti nella Wolesi Jirga “sono legate ai brutali signori della guerra” e si fanno portavoce di istanze reazionarie e antifemminili subdolamente sostenute nelle sedi istituzionali. Oltre all’abominio della punizione per lapidazione, è in corso una meticolosa disarticolazione dei diritti femminili presenti nella Carta Costituzionale. Anche la buona legge che difende l’incolumità femminile, esistente ma mai applicata, potrebbe sparire definitivamente.
In occasione della settimana contro la violenza sulle donne la nostra Camera dei Deputati ospita un convegno dal titolo “Afghanistan 2014, anno di svolta: bilancio e prospettive per le donne afghane” (giovedì 28 novembre, Palazzo di Montecitorio, ore 14:30-18:30). In quest’assise, dov’è attesa anche il ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, sarà presente una delle contestatissime parlamentari afghane citate: Shukria Barakzai, di cui le attiviste di Rawa offrono le seguenti informazioni. Nel 2005 Barakzai e il marito Abdul Ghafar Daw provarono l’ingresso in politica. Lei riuscì nell’intento, lui non venne eletto. Il consorte si piazzò brillantemente nell’affarismo nazionale, entrando nel Gotha dirigente della Kabul Bank che ha controllato per anni gran parte del traffico finanziario interno col benestare della comunità internazionale. L’istituto di credito, però, risultava la cassa di riferimento della mafia locale e nel 2010 venne travolto da un crack finanziario con la perdita di centinaia di milioni di dollari. Daw ne fu coinvolto insieme ad altri dirigenti, uno è il  fratello di Karzai e l’inchiesta raggiunse lo stesso vice presidente della Repubblica Fahim. Fra gli affari personali, procurati a Daw dalle coperture politiche di famiglia, nel 2006 c’era stata una sorta di monopolio del rifornimento di carburante per dieci aeroporti afghani.

martedì 26 novembre 2013

Afghanistan, cosa si cela dietro l’Accordo bilaterale sulla sicurezza



Recentemente la senatrice afghana Belquis Roshan ha innalzato un cartello di protesta nell’assemblea della Loya Jirga e per questo è stata espulsa dalla sala. Il cartello faceva riferimento al patto appena firmato da Karzai e Obama denominato “Bilateral security agreement” (Bsa), che secondo la parlamentare dell’opposizione “svende ulteriormente l’Afghanistan”. Cosa sia il Bsa è presto detto. Un accordo che garantisce agli Stati Uniti di conservare e ampliare basi militari sul territorio afghano. Alcune sono centrali note (Bagram a est, Shindand a ovest, Kandahar nel sud) più altre di nuova costruzione. Queste strutture non si occupano affatto della sicurezza afghana: lì non s’addestrano truppe locali né ci si prepara a combattere i talebani. Sono e saranno basi logistiche dove una parte dei reparti americani che rimarranno, nonostante il ritiro previsto per il 2014 (si calcolano 10-12.000 unità), organizzano possibili operazioni offensive condotte con caccia pilotati e droni senza aviatore. Contro chi? Tutti e nessuno, intanto  è garantita la presenza. 
Agli “alleati” statunitensi preme conservare nel cuore dell’Asia un controllo militare d’un territorio strategico per gli equilibri mondiali. Rispetto ai presidi sul Golfo Arabico, quelli afghani riescono a tutelare la strategia yankee verso le potenze russa, cinese e pure indiana. Su tali acquartieramenti l’Afghanistan non potrà far pesare nessuna sovranità, perciò la senatrice Roshan non è rimasta seduta passivamente sullo scranno, obbediente e prostrata come la maggioranza dei parlamentari presenti all’Assemblea degli anziani. S’è prodotta nella clamorosa protesta, sottolineando l’ennesima saldo offerto a Washington. L’azione assume un valore non solo simbolico, punta a smascherare la furbesca manovra del presidente Karzai che per far ratificare l’accordo firmato ha riunito la Loya Jirga, un’assemblea che non ha il potere legislativo dei due rami del Parlamento. Essa non raccoglie solo i deputati ma figure tribali e claniste del panorama etnico nazionale. La Loya Jirga è, comunque, funzionale al sistema delle tradizioni e l’intento di Karzai è ottenere il benestare della grossa comunità pashtun, alla quale appartiene e alla quale sono legati anche vari signori della guerra.

Il passo può servire nella trattativa coi talebani, da cui il presidente si è ultimamente sfilato. I talib hanno sempre chiesto un totale ritiro della presenza armata straniera dal territorio afghano. Stessa cosa pensano e vogliono warlord che si chiamano Hekmatyar e Sayyaf, molto vicini alle posizioni fondamentaliste dei turbanti. Hamid Karzai sul tema della sicurezza nazionale si sta giocando un bel pezzo della campagna elettorale del fratello Qayum. Che gli fa da prestanome per un ruolo che lui non può ricoprire con un terzo mandato, ma che cerca di garantirsi dietro le quinte, barattando con gli amati e odiati amici statunitensi. Karzai agirebbe per interposta persona, appartenente ovviamente al clan familiare, uno dei più potenti del Paese, ma nient’affatto l’unico. In queste settimane vecchie boss locali misurano, smontano e ricompongono alleanze in funzione di quella che sarà la nazione di domani. E oltre a un Abdullah, ex ministro degli Esteri, già candidato alla presidenza nel 2009 che denunciò i brogli dell’uscente Capo di Stato e che medita vendetta, ci sono vicepresidenti finora in affari con Karzai (Fahim) pronti a voltargli le spalle. Oltre a nuovi volti di cui parleremo.

domenica 24 novembre 2013

Nucleare iraniano, dal ghigno al sorriso


Né Asse del Male né Grande Satana, almeno per sei mesi. I presupposti ideologici, geopolitici con gravissime ricadute economiche (soprattutto per il popolo iraniano) si fermano per questo lasso di tempo, necessario a verificare se l’accordo firmato stanotte a Ginevra fra i tre grandi del mondo (Stati Uniti, Russia, Cina) più le tre maggiori nazioni europee (Gran Bretagna, Francia, Germania) con l’Iran potrà reggere in un prossimo futuro. Il passo è breve ma ha un significato storico per gli attori, un tempo contendenti e oggi dialoganti, rimasti ostili per decenni. E’ sicuramente il nuovo corso iraniano del presidente Rohani a mostrare il volto più disponibile, grazie al credito interno ricevuto col successo alle presidenziali di giugno. Convogliando su di sé i voti giovanili altrimenti rivolti all’astensione, e riuscendo a spostare gli orientamenti della Guida Suprema verso ipotesi riformiste, in barba all’asprezza fondamentalista dell’uscente capo di stato Ahmadinejad e del potente partito combattente che ne sostiene gli epigoni. L’odierno risultato della coppia Rohani-Zarif acquista maggior valore perché non solo il decennio del dopoguerra iracheno, quello del conflitto contro le pretese espansioniste di Saddam durato dal 1980 all’88 ma la rinnovata aggressività statunitense in Medio Oriente con l’Enduring e Iraqi Freedom, avevano rafforzato la reazione combattentistica dei pasdaran e dei loro supporter, laici e clericali.
Le crescenti e dure sanzioni occidentali facevano il resto, rinfocolando sì il malcontento popolare per le carenze di merci e i salari rimasti bassissimi, ma stimolando l’orgoglio nazionale, elevatissimo fra gli iraniani, contro l’ipotesi di aggressione militare al Paese. Idea che Israele, e i suoi supporter presenti in casa Neocon in quella Demo, non hanno mai riposto, che viene però bollata quale pura follìa da esperti di strategia militare e da molti politologi. L’Iran è troppo popoloso e dotato di raffinate risorse umane sul fronte tecnico-scientifico per ritrovarselo come avversario, le ricadute su un’area già infiammata risulterebbero devastanti per gli stessi aggressori. Comunque la partita delle velleità nucleari iraniane non è per nulla in discesa. L’Occidente non vuole concedere né le regalìe fatte ad altre realtà mediorientali e dotate da tempo dell’arma atomica (Israele e Pakistan), né vuole concedere quello che altre nazioni  (Argentina, Brasile, Giappone, Germania, Sudafrica) hanno ottenuto: l’uso dell’arricchimento nucleare per solo uso civile. La Repubblica Islamica, per ora, non ha gli abitanti di qualcuna di queste nazioni ma la sua espansione demografica già la conduce alla necessità di diversificare la produzione energetica, sebbene goda di riserve petrolifere e di gas metano fra le maggiori del mondo. L’intento, anche durante l’amministrazione del presidente basij, cementava l’intera popolazione, perché gli iraniani, assieme ai propri politici d’ogni tendenza, pensano che il diritto alla tecnologia nucleare sia un diritto inalienabile.
Come in ogni trattativa ciascuna delle parti ha guadagnato e ceduto qualcosa. Da un punto di vista tecnico lo stop all’arricchimento superiore al 5% dell’uranio, il blocco della centrale di acqua pesante di Arak, il fermo all’istallazione e all’avvìo di centrali di nuova generazione sono risultati tangibili dei 5+1. Mentre la diplomazia di Teheran, sbloccando gli oltre 4 miliardi di dollari congelati per quasi un triennio nelle banche  asiatiche, potrà far giungere alle famiglie iraniane certa merce che scarseggiava addirittura sul versante alimentare. Politicamente tutti possono vantarsi. D’aver rotto l’incomunicabilità d’una diplomazia delle parti contendenti incistata da decenni di contrapposizioni. Di poter mostrare un pragmatismo costruttivo che va ben oltre le buone intenzioni, cosa che vale per l’establishment di Teheran e Washington e per lo stesso ruolo giocato da altri colossi mondiali. Innanzitutto la Russia, già capace di far rientrare un’azione di guerra Nato quasi decisa contro Asad, e parte attiva nell’apertura verso il nuovo corso dirigente degli ayatollah. E la Cina medesima, che nella gara alla supremazia economica mondiale avallando le sanzioni occidentali poteva garantirsi e restare la grande acquirente degli idrocarburi iraniani, conservando per sé quote favorevoli di approvvigionamento energetico. Prevale, dunque, la buona volontà. Per sei mesi.