venerdì 31 ottobre 2014

Rapporto Onu, la forza dell’internazionale jihadista

Secondo un rapporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, i cui contenuti sono diffusi dalla testata britannica The Guardian, oltre 15.000 guerriglieri jihadisti sono in viaggio per dar manforte allo Stato Islamico in Siria e Iraq. Sono prevalentemente giovani provenienti da un’ottantina di Paesi, anche da alcuni che non hanno mai partecipato ad azioni di polizia internazionale contro il terrorismo islamico. Il ridimensionamento dei gruppi qaedisti, in qualche caso contrastati dagli stessi nuovi membri dell’Isis com’è accaduto  alla siriana Al-Nusra, non sminuisce il numero dei combattenti. La propaganda, cui l’ultima organizzazione fondamentalista riserva un’estrema importanza, ha una funzione di fidelizzazione, esibisce jihaidsti alle Maldive e video di supporter cileni e norvegesi. Già da mesi erano noti e attivi i miliziani provenienti da Francia e Gran Bretagna, direttamente relazionati con la consistente presenza dell’immigrazione araba, maghrebina, pakistana, radicate lì da decenni e ormai alla terza generazione. L’indebolimento di Qaeda non porta scompensi, anzi ha fatto aumentare le adesioni al jihad che attualmente ingrossa le file dell’Isis e incrementa le vocazioni per l’internazionale dell’Islam combattente.

Attualmente chi combatte fuori non sembrerebbe interessato a colpire entro le proprie  frontiere per non incrementare retate repressive, ma tali  obiettivi non sono esclusi e le nazioni di provenienza di questa gioventù jihadista si troveranno a fare i conti con chi rientra dai campi di battaglia siriano e iracheno. Nonostante i recenti contrasti e le scomuniche della casa madre, Al Qaeda e Isis perseguono il medesimo obiettivo seppure con tattiche e progressioni differenti, caratterizzate da enunciazioni e piani dei propri leader. Anche le dispute fra capi riflettono una sequenza di propaganda. L’Isis propone un abbraccio cosmopolita, usando gli strumenti tecnologici del web che hanno scalzato l’appeal dei superati proclami di Qaeda, con Zawahiri inquadrato a ‘camera fissa’ per circa un’ora. L’Isis usa twitter, ask.fm, kik, non è bloccata da rigidezze strutturali, lancia video sintetici e più agili, pure con contenuti agghiaccianti quando propone i messaggi di terrore con le lugubri esecuzioni in diretta. E utilizza il multilinguaggio dei social media rivolgendolo a un pubblico più giovane e più internazionale. Nelle zone controllate, a suo dire liberate, interloquisce direttamente con la popolazione.



Certo Abu Obida, uno dei mercanti di petrolio (merce che frutta un milione di dollari al giorno alle casse del Califfato) porta con sé il kalashnikov mentre saluta e “consiglia” i cittadini di Raqqa secondo i dettami dell’hisbah. Secondo una lettura salafita del Corano l’azione, che significa “responsabilità”, è un dovere per ogni musulmano. Gli uomini dell’Is vestono i panni dei suggeritori di ciò che è bene e di ciò che è male. Così Abu pattuglia le strade e con fare bonario dice come mercanteggiare, cosa mostrare e cosa no: certi manifesti troppo occidentali oppure le trasparenze della propria moglie. Non bisogna mai dimenticare d’essere islamici, sulla fede va costruito l’orgoglio e una diversità. Nell’indicare i comportamenti ai cittadini, questi uomini s’ammantano di un’autorità morale con cui mostrano potere, ma intrecciano rapporti. Totalmente subordinati dalla propria posizione di forza, che però ottengono l’attenzione e una sorta di convincimento. Pensieri e azioni che sedimentano nella testa della gente visto che l’imposizione s’accompagna al dialogo. Gli stessi consumatori di bevande alcoliche, alcolisti o meno, parlano della bontà della loro reclusione e punizione nel filmato nel network statunitense-canadese Vice News in cui i jihadisti appaiono in tutto il loro crudo realismo. Un soggetto politico dalle idee medioevali, ma dalle sinapsi moderne.

mercoledì 29 ottobre 2014

Kobanê, l’assedio e il surplace difensivo



Sembra che la battaglia di Kobanê travalichi il valore simbolico della difesa di un’enclave, che per l’autogestione della Rojava è già moltissimo. Rappresenta la chiusura d’uno spazio non facilmente difendibile in un’estesissima pianura sulla direttrice viaria verso occidente, che potrebbe portare le milizie islamiche ad ampliare il controllo lungo l’asse dei villaggi attorno ad Aleppo, la zona di Raqqah con la fertilissima valle dell’Eufrate, sino a raggiungere Mosul. Un’area estremamente vasta dove  da quest’estate sventola il nero vessillo dell’Isis. Del resto il motto del Califfato: “consolidamento ed espansione”, al di là dei desideri, esprime chiaramente il programma del nuovo Stato che ha stabilito una schiacciante supremazia nello schieramento jihadista, sopravanzando il gruppo siriano di Al-Nusra e cercando d’inglobarlo. Ben oltre le strategie di leadership che vedono Abu Bakr Al-Baghdadi salire nel ranking gerarchico fondamentalista (scatenando dietrologie sui suoi soggiorni detentivi nello statunitense Camp Bucca, capaci d’istruirlo e rafforzarlo più che contenerlo) c’è la sostanza offerta da professionisti delle armi e dagli armamenti stessi, provenienti dalle file del disgregato esercito iracheno e dalle strutture dell’Intelligence del partito Baa’th.

Più il flusso di forniture che i fondamentalisti continuano a ricevere, così da fomentare i sospetti che la stessa coalizione, che a tratti li bombarda dal cielo, nutra la loro presenza con armi di terra. In questo gioco delle parti, dove si recita a soggetto, la Turchia tenendo fede alle ultime dichiarazioni  del premier Davutoğlu ha permesso il passaggio sul confine di Habur d’un reparto di 150 guerriglieri peshmerga giunti dal Kurdistan iracheno a supporto dei combattenti del Pyd. Stesso passaggio, però, continua a essere proibito ai miliziani del Pkk, su cui il governo di Ankara continua a porre un ferreo veto. In tal modo la finalità di aiutare in un’efficace difesa la cittadina di Kobanê resta in bilico, anzi continua a essere subordinata ai meccanismo della politica nazionale (in tal caso turca) e internazionale di non sbilanciarsi eccessivamente a favore della comunità kurda e soprattutto del suo disegno futuribile della Rojava. Una regione autonoma e autogestita, prova vivente della reale possibilità di attuare quel processo di autodeterminazione federale tanto teorizzato dal leder Öcalan. Nel surplace della comunità internazionale, a Kobanȇ, occupata in una vasta zona orientale da 5000 e forse più miliziani dell’Is, circa duemila guerriglieri kurdi continuano a combattere. Registrano il decesso di 200 compagni, mentre le bandiere nere hanno ricoperto fino a 500 loro cadaveri, parecchi finiti sotto le bombe dei raid della Nato. Mentre prosegue la fuga dei civili.

martedì 28 ottobre 2014

Tunisia, un Islam politico che nutre la democrazia

In un intervento su The Guardian Soumaya Ghannoushi, figlia dell’anziano leader del partito islamico tunisino, espone entusiasticamente la via del “nutrimento della democrazia” compiuta da Ennadha. Lo fa il giorno delle elezioni, dunque prima di conoscere i risultati che non premiano quel partito, staccato in maniera netta dal raggruppamento conservatore laico Nidaa Tunis, vincitore col 38%, e riconosciuto come tale dalla fazione islamica. Forse a casa Ghannoushi non s’attendeva la consistente flessione, ma il ragionamento della figlia d’arte è comunque  incentrato sulla bontà dell’esperimento tunisino, soprattutto se raffrontato al panorama delle iniziali Primavere arabe che hanno visto Yemen e Bahrein scomparire sotto i primi fuochi della repressione, l’Egitto autore di molteplici vicende sino al tragico epilogo del colpo di Stato che ripristina antiche oppressioni, la Libia finire nel caos tribal-banditesco, la Siria trasformare l’iniziale contrasto e poi guerra civile in un laboratorio per la dissoluzione del Paese che con l’assalto jihadista infiamma l’intero Medio Oriente.
Punti fermi d’un processo migliorativo di alcune condizioni della nazione tunisina, partita dalla convivenza fra due blocchi (laico e religioso) che altrove produce solo polarizzazione e conflitti, è l’accettazione e il conseguente rispetto per le diversità, di cui l’Islam moderato di Ennadha è stato capace. Il cui passo fondamentale è la discussione e riscrittura della nuova Costituzione, in vigore dallo scorso gennaio, che preserva l’Islam ma rispetta la libertà di culto di altre fedi, garantisce parità fra i generi, assieme a diritti civili e democratici per la popolazione. Lo sguardo è rivolto all’Egitto, dove questo non è avvenuto per errori di settarismo del più invasivo Islam politico della Fratellanza Musulmana. Certamente i passi della leadership di Ennadha sono stati più accorti, specie quando, durante il suo governo, alcuni inquietanti episodi hanno condotto all’uccisione da parte di miliziani del jihadismo interno (Ansar Al-Sharia) dei leader dell’opposizione Brahmi e Belaid. Ma qui l’esercito che pure, come ricorda la Ghannoushi, veniva percepito dalla popolazione come difensore della nazione, non aveva invaso il terreno politico alla maniera delle Forze Armate egiziane.
Né aveva perpetrato stragi e colpi di mano com’è accaduto per mesi nelle città egiziane sino all’epilogo del golpe bianco, tintosi del sangue dei militanti islamici repressi e uccisi nell’agosto 2013. L’opposizione tunisina, che con l’uccisione di due suoi esponenti di spicco riscontrava un attacco ferale, pur chiedendo a gran voce le dimissioni del governo islamico, accettava nella successiva fase del governo di transizione di dialogare con gli avversari e cercare una strada compromissoria per la nuova Carta Costituzionale. Tutto ciò in Egitto non è accaduto per colpe reciproche dei due raggruppamenti. L’abbrivio fu dato dalla sponda laica. Ben due Assemblee Costituenti vennero avversate e disertate dai vari Moussa, El Baradei, Sabbahi e da intellettuali a loro prossimi, per tacere della vecchia guardia mubarakiana. Certo in quella sede la componente salafita sosteneva posizioni sicuramente inaccettabili per il mondo laico, ma nessuno si fermò a dialogare, misurare, patteggiare una Costituzione che amalgamasse due pezzi di nazione. I laici boicottarono quelle assisi e la Fratellanza ciecamente scelse d’andare avanti da sola.
Il risultato fu una Costituzione insoddisfacente per i laici, da cui nacquero contestazioni e scontri e battaglie di piazza, addirittura con l’uso delle armi da ambo le parti. Quel movimento di contestazione che lanciò la raccolta di firme contro Mursi, applaudendo al crescente ruolo politico d’un esercito mai uscito di scena, anche durante gli undici mesi del governo della Brotherhood, affiancava liberali, conservatori e feloul, i Tamarod, rivoluzionari di Tahrir da mesi finiti in galera come Fattah, e pure gli odiati salafiti che opportunisticamente spingevano per un ridimensionamento della popolarità della Confraternita. Quel che è accaduto in seguito è un ripristino di oppressione e terrore, giustificati da un caos voluto molto dalla lobby militare e dai Servizi. Nelle vicende degli ultimi tre anni fra l’Islam sedicente moderato di Tunisia ed Egitto indubbiamente il primo si dimostra più pragmatico e flessibile ad adattamenti che non sono solo tattici, con l’ovvia differenza che governare una nazione di undici milioni di abitanti non è la stessa cosa che guidarne una di novanta milioni.

Ed è proprio sul cambiamento reale, fatto sì di democrazia e diritti, ma di soluzione dei problemi come lavoro, distribuzione della ricchezza che la strada risulta lunga a Tunisi, al Cairo e ancor più nei villaggi che lambiscono il Sahara o l’Alto Egitto. Tuttora dalle coste nordafricane masse indigenti guardano il mare e fuggono, perché nessun governo sta risolvendo gravi problemi strutturali.