sabato 25 luglio 2020

India, ancora un giornalista ucciso


Ennesimo giornalista ucciso nell’Uttar Pradesh. Solito copione: un colpo d’arma da fuoco in testa alla maniera mafiosa. In questo caso il trentacinquenne Vikram Joshi, che rientrava in casa sulla sua moto, è stato fermato da un manipolo di persone che l’ha brevemente malmenato, quindi finito con una revolverata. S’indaga se si possa trattare di violenza diretta genericamente sulla categoria, che nel popoloso Stato settentrionale indiano ha fatto molte vittime, o se il reporter fosse nel mirino per motivi diretti al suo lavoro. Alcuni colleghi hanno sottolineato che nei giorni precedenti aveva trattato un caso di cronaca nel quale erano coinvolti uomini accusati di molestie. Diversi giornalisti hanno inscenato proteste per la totale impunità di azioni criminali che si ripetono senza alcun intervento dell’amministrazione politica. Questa è già al centro di svariate polemiche per la conduzione faziosa operata da Yogi Adityanath, un estremista hindu vicino al premier Modi che dal 2017 guida quello Stato. L’uomo è un monaco e capo sacerdote del tempio di Gorakhpur, già ventiseienne era nel Parlamento ed ha avuto un rapporto di amore-odio col Bharatiya Janata Party. In più di un’occasione ha cercato d’imporre, specie nell’area orientale dell’Uttar Pradesh controllata dalla sua corrente, candidati diversi da quelli scelti centralmente. Fra attacchi ai candidati ufficiali e conseguenti compromessi la tattica ha avuto buon gioco, tanto da consentirgli di acquisire spazi e poteri sempre maggiori. E’ un dei più pervicaci sostenitore dell’hindutva, l’ideologia razzista e reazionaria che fomenta le violenze razziali nel Paese.
Dall’assunzione dell’incarico di primo ministro nell’Uttar Pradesh Adityanath ha imposto un’infinità di divieti e accentrato alla sua persona più di trenta cariche di vari dipartimenti. La conseguenza di simili imposizioni è un clima autoritario senza autorità e una crescente deriva violenta che fa dire a numerosi osservatori come la regione sia ridotta a una sorta di luogo soffocato dalla ‘legge della giungla’. Oltre agli scontri fra etnìe e attivisti confessional-politici musulmani e hindu, si sono registrati diversi omicidi nei confronti di chi descrive il degrado presente in una vasta area. Proprio di recente il corrispondente d’un quotidiano di tendenze hindu ha subìto il medesimo trattamento: freddato con un colpo in testa. Fra le questioni trattate negli ultimi tempi dai cronisti c’è il traffico illegale di sabbia escavata dai fiumi, un affare condotto da alcuni clan che incrementano, grazie ad amministratori compiacenti, l’edificazione irregolare in vaste aree del Paese. L’associazione Reporters Sans Frontières la lanciato un appello al governo indiano per investigare sui crimini che hanno l’obiettivo di tacitare la stampa e seminare terrore fra la popolazione per tenerne congelate prese di posizione. Molti omicidi e intimidazioni hanno chiare motivazioni politiche, poiché i cronisti assassinati svolgevano inchieste su affari illegali che uniscono politici locali e nazionali. Attualmente l’India ricopre la 142° posizione, su 180 nazioni monitorate da organismi internazionali, riguardo alla libertà di stampa, diventata in quei paralleli direttamente una difficoltà di vita.

mercoledì 22 luglio 2020

Pinar, l’ennesimo femminicidio in Turchia


Pinar Gultekin, ventissette anni, studentessa universitaria della provincia di Muğla, era scomparsa la scorsa settimana. E’ stata trovata cadavere in una boscaglia. Un cadavere deturpato dalle bruciature, poiché dalle indagini risulta esser stata strangolata, ficcata in una botte e data alle fiamme. E’ l’ennesimo femminicidio, l’ennesima storia ignobile che macchia la Turchia. A compierlo, come spesso accade ovunque, un vecchio partner: Cemal Metin Avci, gestore di un bar in un resort turistico della città di Akyka sul Mar Egeo. Lì l’ha prelevato la polizia e dopo un interrogatorio l’assassino ha confessato. Nella località molte donne si sono date appuntamento in segno di protesta per fare udire alle autorità l’adirata voce. E gruppi femministi e di difesa della donna hanno avviato una diffusa protesta anche in altre città, a cominciare dalla capitale. Sono le attiviste della piattaforma “Noi fermeremo i femminicidi”, chiedono un’attuazione e un rilancio di quella convenzione detta di Istanbul, istituita nel 2011 dalla Turchia, in accordo col Consiglio d’Europa, per prevenire e combattere la violenza di genere. L’anno seguente Ankara adottò una legge in materia, ma gradualmente la normativa sta cadendo nel dimenticatoio. Anzi nel Paese s’è sviluppata una componente che, tramite certa stampa e social media, perora un attacco alla ‘Convenzione di Istanbul’ accusata di mettere in cattiva luce i “valori” della famiglia turca. E’ il solito sporco gioco del maschilismo patriarcale, che ha gangli dappertutto (in Italia il pensiero corre alle tendenze oscurante avanzate con proposte di legge e altro dal senatore leghista Pillon). Le donne nelle piazze turche rivendicano pene più severe per lo stillicidio di assassini di “ragazze, figlie, sorelle, madri”, il loro grido vola sul web con messaggi e tweet. Dal 2012 il Paese anatolico ha raddoppiato i femminicidi, l’anno scorso ne ha dovuti registrare ben 474. Cifre pazzesche di una vergogna che accomuna il peggior maschilismo, ovunque nel mondo.

lunedì 20 luglio 2020

Hindu afghani, passaggio a sud-est


In tempi di chiusure, limitazioni, viaggi bloccati da prime, seconde e terze ondate di Coronavirus c’è chi riceve permessi di transito e trasferimento. La minoranza etnico-religiosa degli hindu afghani in questi giorni ha avuto dal governo di Delhi il consenso per entrare in India. Se lo vorrà. In Afghanistan tale minoranza, come accade ad altre ben più numerose quali gli hazara, è oggetto di ripetuti attentati, taluni particolarmente sanguinosi. Nello scorso marzo, in avvio di pandemia nel Paese dell’Hindu Kush, si verificò un agguato nel luogo più sacro della comunità: il loro tempio presente nell’antica Kabul. La vita fu strappata a venticinque persone, fra cui alcuni bambini. In quell’occasione a perseguitare gli hindu afghani erano i miliziani dello Stato Islamico del Khorasan, in altre gli attentati sono avvenuti per mano del fondamentalismo talebano. Ma la Shura di Quetta, che ha condotto i colloqui di pace a Doha, in questo periodo ha evitato simili spargimenti di sangue. Ha continuato ad attaccare solo l’esercito di Ghani. Ora la comunità hindu afghana deve decidere se restare nella nazione dove risiede da tempo, che incute terrore ma che le offre strumenti di sopravvivenza pur precari. Oppure riparare nel ventre indiano, accogliente sul fronte della sicurezza immediata però deficitario da un punto di vista occupazionale, economico e di sostegno a medio termine. Anche per la crescente problematicità creata dalla pandemia che pone tuttora lo Stato-continente in una condizione di tremenda difficoltà per centinaia di milioni di cittadini poveri.
L’India è tuttora in lockdown, i numeri degli infettati sono assolutamente approssimativi, riguardano solo una fetta di operatori pubblici con un’occupazione stabile, i lavoratori privati, il micro commercio, e precari, ambulanti, disoccupati, questuanti sono incontrollati e incontrollabili. Si tratta di centinaia di milioni d’individui. Fattore che incute ampio timore agli strati benestanti della nazione che come dimostrano le infezioni contratte anche da alcune stelle di Bollywood, in qualche caso con tanto di decesso com’è accaduto al quarantaduenne compositore di musiche da film Wajid Khan, ha messo il governo Modi nella posizione di prolungare la chiusura del Paese. Ovviamente questa situazione deve fare i conti con tutte le criticità rappresentate dal sovraffollamento e dall’impossibilità oggettiva del distanziamento sociale fuori e dentro abitazioni e tuguri, dove purtroppo tanta gente vive tuttora. Le famiglie hindu afghane non sono numerose, già negli anni passati, proprio a seguito delle persecuzioni, chi ha potuto è volato in India, in Europa e in America. Così da tremila nuclei familiari ora se ne contano circa cinquecento, principalmente nelle province orientali di Nangarhar e Paktia. L’amministrazione di Kabul, che pure non condiziona l’attività lavorativa dei locali hindu e sikh, non ne tutela l’incolumità personale. Dopo l’attentato di marzo a mala pena viene presidiato con un tank il tempio, fattore peraltro che non tutela un possibile ripetersi di azioni terroristiche. Mangiare rischiando la pelle o partire e soffrire la fame è il dilemma di questa minoranza travagliata, in una fase in cui il mondo si restringe e l’esistenza resta sospesa.

domenica 19 luglio 2020

Libano, l’ecatombe economica


Il cataclisma inflazionistico libanese, avviato nell’autunno 2019 e che la piaga del Coronavirus ha ulteriormente cronicizzato, prosegue la sua corsa. Ha ormai piegato i ceti medi che hanno perso lavoro, posizioni e sicurezze e si barcameno fra una neopovertà e l’impossibile diritto alla fuga, impedito dalla limitazione dei viaggi e dalla difficoltà di trovare mete accoglienti. Del resto forse solo i commercianti, ovviamente non quelli minuti, possono pensare di riparare altrove. Chi ha guardato oltre la sfera di cristallo lo aveva fatto tempo addietro, ma situazioni fino a un paio d’anni fa di relativo benessere, ad esempio docenti stipendiati con tre-quattromila dollari mensili o funzionari amministrativi da oltre due-tremila dollari, oggi finiti sotto i mille non possono conservare il tenore di vita conosciuto. E restano legati al filo d’un lavoro che all’estero potrebbero non trovare, dilaniati dal dilemma se abbandonare un Paese che affonda o sperare che la tempesta passi. Ben oltre il tradizionale millenario mercato dei suoi mercanti, il Libano post coloniale e ancor più quello nato dalle macerie della guerra civile, mostrava chiarissime tare. Al fragile modello del compromesso politico-confessionale con cui si cercava di guidare la nazione, non corrispondeva uno sviluppo economico. Al di là dei prodotti agricoli d’una terra benefica il liberismo proposto dal clan sunnita degli Hariri, in accordo-scontro con le famiglie che contano - maronite, druse, sciite che comunque s’accaparravano fette di territorio e di attività locali - intervenivano a portare “benessere” capitali stranieri (sauditi e di altre petromonarchie, iraniani) che, come i franchi dell’epoca coloniale e i successivi dollari americani, gonfiavano gli affari delle banche senza creare una classe imprenditoriale autoctona.
Gli stessi clan libanesi curavano esclusivamente i propri affari, quasi nulla investivano per un Paese, piccolo ma ridotto in quattro enclavi, più o meno vaste, con una serie cospicua di problemi. Quello dei rifugiati, i quattrocentomila palestinesi presenti dagli anni Settanta, e ultimamente i due milioni di siriani. Campi profughi hanno significato per lo Stato libanese anche aiuti internazionali, che in vari casi non finiscono utilizzati neppure per lo scopo originario. E quando il percorso dei finanziamenti segue la retta via creava in loco un indotto che rappresenta esso stesso una risorsa. Ovviamente per un certo numero di addetti ai lavori. L’adattamento a talune condizioni di assistenza non ha giovato alla stabilità finanziaria interna. Seppure tutto il ‘benessere’ (non per tutti ma sicuramente per i ceti medi) rappresentato dalle bolle speculative edilizie degli anni Novanta e d’inizio Millennio, fino alla stessa ricostruzione successiva alla guerra estiva del 2006 con Israele, ha creato occupazione nei servizi, più o meno fittizi, con  consumi, aspettative, orientamenti di vita, prima schizzati in alto, poi ridimensionati anno dopo anno fino al recente crollo inflattivo. Di questi tempi un dollaro che ha un cambio ufficiale di 1500 lire libanesi, sul mercato nero può oscillare fra 7500 e 9500 lire. La ricaduta sul mercato degli stessi generi di prima necessità: pane, carne, legumi è devastante. I prezzi sono triplicati, e più la merce è ‘pregiata’ più occorre pagare. Chi anni addietro osservava criticamente la deriva del liberalismo drogato dai finanziamenti esteri che il ceto politico - da Hariri padre all’inetto figlio, col benestare anche degli opportunisti Aoun e Jumblatt, oppure di chi sta agli antipodi: i Geagea e Nasrallah - poteva prevedere crisi a ripetizione, ma non pensare al tracollo. C’era l’abitudine a credere che il piccolo “parco giochi del Levante”, come se l’era cavata dai gravi dissesti post coloniali, soprattutto la lunga e sanguinosa guerra civile (1975-90), riuscisse a tenersi a galla sempre col sistema di aiuti e ‘investimenti’ esteri.
Gli strati di povertà della società sciita nel profondo e nelle periferie, sempre meridionali, della capitale, abituati a soffrire, ad accontentarsi di poco, a ricevere elemosine e sostegni caritatevoli da quel Partito di Dio che chiede in cambio fedeltà e impegno militante (e per il genere maschile militare), non subiscono un duro choc. Come detto, è la classe di mezzo che va scomparendo. Fra i cristiani e fra i musulmani. Certo, anche qui, qualcuno che può accedere alla benevolenza dei clan ricchi presenti in ogni confessione riesce ad agganciare qualche opportunità in più. Però carovita e inflazione seminano disagio fra chi da tempo era abituato a vivere dignitosamente. Qualche giovane si ricicla, finisce per ricoprire ruoli di domestica, badante, cuoco, chauffeur per le famiglie agiate esistenti e resistenti. Ma si tratta di situazioni di nicchia. La disoccupazione è uno spettro che ha numeri da paura: un terzo della popolazione è senza lavoro e, se va bene, pianifica lavoretti quotidiani solo per la spesa alimentare. Negli anni passati chi periodicamente ha trovato un’àncora di salvezza nelle associazioni caritatevoli che si occupavano (e si occupano) dei rifugiati non ha la certezza di potersi ricandidare. Più che dare aiuto dietro un salario, può finire aiutato, sfamato e alloggiato qualora non abbia neppure un dollaro per pagarsi l’affitto, finendo da un appartamento a una tenda. Fra le nazioni fallite dagli stupri dei conflitti, come Medioriente e Nordafrica hanno mostrato nell’ultimo decennio, il Libano (che pure il tributo alla morte l’ha duramente pagato coi 120.000 cadaveri della guerra civile) può ritrovarsi nella stessa drammatica situazione per l’ecatombe monetaria che lo sta sotterrando.

venerdì 17 luglio 2020

Afghanistan, l’occhio talebano


Khairullah Khairkhwa, esponente talebano, è stato intervistato dall’emittente qatarina Al Jazeera. Buona parte del suo discorso è incentrato sulle note trattative di pace svoltesi per mesi a Doha alle quali ha preso parte, sulla difficile attuazione della ‘fase due’ degli incontri inter afghani ostacolati dal governo di Kabul, sull’intenzione talebana di superare il lungo conflitto e costruire un nuovo governo che escluda chi ha collaborato con l’occupazione occidentale. Ne riportiamo i passi principali.

Washington deve mettere in riga Kabul - “Ci siamo accordati con gli americani per una pace che prevede un nostro cessate il fuoco e un loro graduale ritiro. Abbiamo mantenuto quest’accordo che non vedeva presente il governo di Kabul. I nostri ridotti attacchi agli obiettivi militari dell’amministrazione Ghani non rompevano il patto di Doha semplicemente perché nessun accordo è stato stipulato con quel governo fantoccio. Abbiamo detto che dopo i colloqui con gli americani avremmo iniziato a incontrare i partiti afghani, non il governo. Ghani vuole accreditarsi, dopo le elezioni spera di restare a galla per altri cinque anni, ma invece di attivarsi per il rilascio di cinquemila prigionieri come previsto dagli accordi, continua a porre ostacoli. A questo punto dovrebbero intervenire gli statunitensi suoi tutori. Se Washington ordina il rilascio dei prigionieri, Kabul esegue. Noi vogliamo una soluzione e una conseguente pace, non quest’inutile fase di stallo. Abbiamo accettato i colloqui, accantonando la soluzione armata, proprio per sbloccare la situazione. Siamo convinti che da una comprensione fra i partiti afghani scaturirà un nuovo governo. Siamo pronti da mesi, a Kabul devono solo rilasciare i prigionieri. I nostri esponenti hanno viaggiato fra Cina, Russia, Iran, Pakistan, Uzbekistan per spiegare che non vogliamo la guerra, da anni l’abbiamo intrapresa solo come autodifesa. Sappiamo che le diplomazie di questi Paesi stanno agendo sui partiti afghani per trovare una soluzione”.

Niente russi e spazio alle donne - “La propaganda di chi vuole intralciare la pace ha ultimamente diffuso la menzogna di taglie versate dai russi ai nostri combattenti per uccidere soldati Usa. Non c’è alcuna prova, si tratta di falsità diffuse per minare gli accordi. Affermare che i russi possano tornare in Afghanistan è la bugia che Ghani usa per continuare a essere difeso dai marines. Fra noi e il governo di Mosca ci sono solo buoni rapporti diplomatici, nient’altro. Da quando abbiamo iniziato i colloqui le nostre forze hanno ulteriormente aumentato il controllo dei territori, attualmente ne controlliamo il 70%, in quei luoghi governiamo e garantiamo legge e sicurezza. Lì la situazione è decisamente migliore rispetto alle zone su cui agisce l’amministrazione di Kabul. I tribunali funzionano, i verdetti sono rapidi, non si devono pagare tangenti. Il governo Ghani riceve assistenza e sostegno economico internazionali, noi possiamo offrire solo sicurezza ed equanimità. Se guideremo un nuovo governo questo sarà il nostro programma. Prima dell’occupazione americana abbiamo cercato di creare le migliori condizioni per la gente. Quand'ero governatore di Herat ricevemmo la visita di una delegazione Onu che potè constatare il nostro approccio all’educazione nelle scuole per ragazzi e ragazze. Ammettiamo che un tempo alcune faccende riguardanti le donne fossero sbagliate, ma se si guarda l’entità dei crimini durante l’era talebana e ora c’è un abisso. Con nostro governo si verificano pochissimi casi di molestie sessuali, noi sosteniamo una libertà entro il modello della legge islamica. Certo è illogico vedere qui una condizione della donna simile a Europa e America, la nostra cultura è diversa da quella Occidentale. Noi crediamo nei diritti delle donne, nell’educazione e nella piena libertà nel rispetto della legge islamica. Durante il nostro governo le donne erano nei ministeri, negli aeroporti e altrove”.

Mai più Qaeda - “L’offerta di pace prevede che i territori afghani non siano usati per attacchi ad altri Paesi, vicini e lontani. Ormai tutti sanno che non permettiamo a forze straniere di soggiornare impunemente sul nostro territorio, non consentiremo quel che un tempo è accaduto. Le accuse rivolteci per gli attacchi all’ospedale di Kabul sono una porcheria. C’era l’Intelligence afghana dietro quegli attentati, sono gli stessi che dicono: non è il momento per il ritiro delle truppe americane. L’amministrazione Ghani ci vuole incolpare di crimini che sono suoi, ma la gente ha imparato a conoscerci, la gente sa che i musulmani non fanno queste cose. I talebani sono islamici e la nostra dottrina non permette attacchi a un ospedale. Quali benefici otterremmo dall’uccisione di donne e bambini innocenti lì ricoverati? Noi stiamo ancora investigando, ma conosciamo la mente di quel crimine, è la stessa che incentiva il caos per non far ritirare le truppe straniere e per far peggiorare la situazione. Noi pensiamo che l’attuale popolazione afghana non abbia la mentalità di quella di vent’anni fa. Anche noi abbiamo davanti agli occhi le drastiche mutazioni subìte dal Paese, e vogliamo il meglio per esso e per un popolo di 40 milioni di abitanti. Tutti necessitano di sicurezza e libertà d’espressione all’interno di una società islamica, perciò c’impegniamo a potare pace e stato sociale a un popolo che non conosce queste condizioni. L’Intelligence di Kabul sa che non può restare nel Paese dopo il ritiro americano ed è il motivo per cui diffonde paura. Attraverso tivù e media di Stato divulgano dicerie che sotto un nostro governo le ragazze non potranno tornare a scuola e che la libertà di parola sparirà. La verità è che noi porteremo pace, sicurezza, welfare e sviluppo. Vogliamo un Paese musulmano migliore, non possiamo prendere il potere con la forza e privare la gente dei diritti. Lavoriamo per aiutarla. Non lasceremo vivere il  popolo sotto quel conflitto eterno che ha avuto sotto gli occhi per quarant’anni”. 

mercoledì 15 luglio 2020

Erdoğan, l’assalto ad Agya Sofia


Esistono modi più o meno ingombranti per  entrare nella Storia, Recep Tayyip Erdoğan da tempo ne ha scelto alcuni subdoli, altri  dirompenti. Tutti comunque sotto i riflettori, perché il suo egocentrismo fa della visibilità una ‘roulette russa’ alla quale non si sottrae. Anzi, amante del rischio, cerca il colpo grosso. Con la vicenda di riportare in Agya Sofia il culto islamico, ritrasformando in moschea un monumento ‘laicizzato’ e reso museo da Mustafa Kemal, il presidente turco rilancia una lacerazione con un pezzo di mondo e riutilizza la via della polarizzazione che in politica interna finora l’ha sempre ripagato. Così il leader istituzionale tracima e invade il terreno confessionale. L’azione dell’antico padre della moderna Turchia che nasceva dalle polveri dell’Impero ottomano, accantonava la disputa fra la fede ortodossa defraudata della sua Chiesa simbolo e l’Islam conquistatore di Mehmet II, che dal 1453 fece di quel luogo la gloria dell’architettura musulmana. Scriveva Procopio di Cesarea nel sesto secolo: “La Chiesa si erge fin quasi a toccare il cielo e quasi ondeggiando svetta sugli altri edifici sovrastando l’intera Città; di essa rappresenta il gioiello, poiché le appartiene, ma ne è al tempo stesso abbellita, essendone una parte e, come suo culmine, si eleva così in alto, che dalla Chiesa si può contemplare la Città come da un osservatorio”. Ciò nonostante ben altre maestose cupole e minareti sorsero nel mezzo millennio di dominio della Costantinopoli, diventata Istanbul. Ma quel nome, come riportato dagli etimologi - ‘Is tim boli’ da ɛìs ʈŋv πόλιν cioè “verso la città” - serbava quanto di greco la metropoli di Costantino e Giustiniano manteneva vivo.

Ora rifare dello straordinario tempio ortodosso un luogo di culto islamico, vuol dire vellicare un conservatorismo religioso della mezzaluna che altrove ha sedi e mondi ben più fanatici.  Anche perché, nata cristiana e diventata islamica, la capitale sul Bosforo è un po’ come Gerusalemme, una città simbolo condivisa con altre religioni. Ma Erdoğan spinge egualmente sull’acceleratore, la popolazione pur giovane intervistata nei giorni scorsi sulla dibattuta questione, s’accalora attorno alla figura del sultano etichettato ‘Fatih’, cui è dedicata quella fetta della metropoli in cui il partito di governo conta un pezzo del suo zoccolo duro. I libri di storia narrano dei cinquantatre giorni di assedio di Costantinopoli, iniziato in aprile terminato a maggio, come di una guerra moderna. Con l’uso del primo colossale cannone (definito dal nome del costruttore ungherese Orbán, che però lo offriva ai turchi), con blocchi navali sul Corno d’Oro degli assediati e superamenti con carrucole da parte flotta ottomana, con distruzioni, sventramenti, impalamenti, anche di donne e bambini, e tutto il peggio che il fanatismo militare propone e realizza. Ecco, al di là degli storici che sanno, studiano, divulgano letture variegate di quel passato, la proposta erdoğaniana che tutto mescola e che fa ricorso a tutto, sembra intervenire sul fattore divisivo, punitivo verso il passato anche recente e non ottomano, più che sullo spirito di quel che per secoli Costantinopoli-Istanbul rimase fino alle soglie del Novecento: “un guazzabuglio di cosmopoliti molto eterogenei”. Elemento non disdegnato dagli stessi sultani che dopo la sottomissione, tolleravano le minoranze di fede dietro il pagamento di ‘tasse di protezione’. Era più il kemalismo, con e dopo Atatürk, a lanciare i pogrom antiellenici, certamente stimolato da azioni militari del nazionalismo greco. La Storia è lì, e può essere rivisitata assumendo contorni di meditazione su limiti ed errori, viene invece nuovamente impugnata come un’arma.

Erdoğan che aspetta ossessivamente di festeggiare, forse più da padrone che da sultano, il centenario della nascita dello Stato moderno (2023) si prende la briga di sollevare un polverone su un tema che scuote il patriarca Bartolomeo e pure papa Francesco. Rispolvera contrapposizioni che gli inimicano il blocco europeo, ortodosso e cristiano, quel blocco che sul versante politico lo tiene lontano dalla Ue e lo usa (ma chi usa chi?) sull’annoso tema della migrazione. Proprio perché conosce la coscienza nera della politica del vecchio continente, Erdoğan intraprende la via della provocazione sulla chiesa-simbolo e paventa una soluzione che non lo farà conquistatore con la spada come Mehmet II, però gli assicura di compattare il popolo islamico più tradizionalista e certe frange anche giovanili che sui valori, sul Paese, sulla ricerca di futuro nello sbandamento operato dalle pandemie di Sars Cov2 e dell’economia, chiedono certezze. Proporre un’identità islamica marchiata di senso patrio in una nazione che è stata Impero e ha forti mire di supremazia in Medio Oriente è, non da oggi, un progetto praticato dall’uomo forte di quello che a inizio millennio ha sancito il rilancio turco. Affievolito lo slancio, Erdoğan ha compattato una buona parte della cittadinanza (non solo i fedelissimi dell’Akp) contro il golpe di cui ha accusato i gülenisti, giocando su più tavoli ha rivolto la sua presenza e ingerenza nella guerra sporca siriana contro i territori liberi del Rojava, spazzati via dai suoi carri armati col benestare di Putin, compiacendo Asad contento d’essere restato alla guida d’un Paese spettrale. E navigando nel “mare bianco” verso le coste libiche l’onnipresente neo Atatürk gioca le proprie carte e rafforza la sua Turchia e se stesso. Figurarsi se si ferma davanti a un Patrimonio Unesco…

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su Costantinopoli: cfr. Marozzi J., Imperi islamici, Einaudi, 2020

lunedì 13 luglio 2020

Egitto, morire di Covid-19 infettandosi in galera



Solo un mese fa l’International Presse Institute, una rete di giornalisti e redattori che difendono lavoro, indipendenza e libertà d’informazione aveva denunciato il pericolo corso dai detenuti nelle carceri egiziane obbligati a una pesante quanto pericolosa promiscuità. Fra essi una sessantina di giornalisti. E in quei giorni, precisamente il 15 giugno, un decano dei media del grande Paese arabo, Mohamed Mounir veniva fermato e poi trattenuto in carcere per aver partecipato a un dibattito sul canale televisivo Al Jazeera. Il tema trattato in quell’apparizione riguardava un contrasto sopraggiunto fra la chiesa copta e il quotidiano Rose al–Youssef per una copertina di quest’ultimo. Così il sessantacinquenne Mounir, fondatore del “Fronte per la difesa dei giornalisti e delle libertà”, oltre che memoria cronachistica e storica degli eventi interni degli ultimi anni dalla caduta di Mubarak, all’elezione di Morsi fino al suo arresto e al golpe bianco di Al-Sisi, finiva in prigione. Nei giorni immediatamente successivi all’arresto la “Rete araba per i diritti umani” aveva fatto appello alla Procura di sicurezza dello Stato che s’occupava del suo caso, per liberare l’uomo cagionevole di salute, visto che aveva già subito due infarti ed era affetto da problematiche renali. In carcere Mounir s’è rapidamente infettato di Coronavirus, eppure nonostante gli appelli di colleghi e amici non è stato immediatamente scarcerato né condotto in una struttura protetta. Successivamente di fronte a un peggioramento è tornato libero finendo in ospedale, però era tardi: dopo poco è sopraggiunto il decesso per insufficienza respiratoria. Il cronista, da sempre impegnato con il sindacato dei giornalisti, anche nei recenti anni in cui la scure della censura ha ferocemente colpito la categoria, si era anche battuto contro la concessione alla monarchia Saud delle isole di Tiran e Sanafir, un occhio strizzato da Sisi al principe bin Salman per saldare buoni rapporti nel fronte arabo della repressione nazionale ed estera. Mounir aveva già conosciuto la galera durante il regime di Mubarak che l’accusava (senza prove) di un’adesione a un’organizzazione segreta comunista. Chi ha avuto il piacere di frequentarlo ne apprezzava la calorosa umanità e la coinvolgente ironia. L’informazione egiziana e internazionale perdono un professionista onesto, coraggioso, sensibile alla deontologia anche davanti alle minacce del potere, che in quel contesto sono tutt’altro che verbali.  

sabato 11 luglio 2020

Turchia, l’alleanza di governo spacca il fronte degli avvocati


La difesa non si zittisce, non ci dividiamo” dicono gli avvocati, ma il governo rema contro e ha già pronta l’ennesimo veleno per la libera espressione, anche nelle aule giudiziarie. Da due settimane le toghe turche hanno dato vita a sit-in davanti al Parlamento, inscenato proteste presso il Palazzo di Giustizia, tutto senza successo. Il Meclis sta esaminando la proposta di legge sulla riorganizzazione dell’avvocatura presentata dagli alleati di governo: il partito islamista Akp e il partito nazionalista Mhp. Il fulcro della proposta sta nell’introdurre la possibilità di creare molteplici Ordini concorrenti in ogni dipartimento che conti più di cinquemila avvocati (Istanbul ne ha 48.000, Ankara 18.000, Izmir 10.000) col presupposto che ciascuna nuova avvocatura riunisca almeno duemila iscritti. Il passo è stato motivato dallo stesso presidente Erdoğan col fine di offrire strutture di togati “più democratiche, più pluraliste e altamente rappresentative”.  Ma dalle file dell’Akp c’è chi non nasconde lo scopo reale del progetto: stroncare contrapposizioni ideologiche e politiche nei processi. I presunti slanci di democratizzazione pluralista della categoria fanno dire alla Presidente della maggior sede dei giuristi di Turchia che l’amore per la democrazia dovrebbe spingere la classe legislativa ad abbassare la soglia di sbarramento per la rappresentanza parlamentare, posta al 10%, fattore che da due decenni favorisce ampiamente il partito di maggioranza che ottiene il 67% dei seggi col 34% dei voti. La signora Kurtulmaz Oztürk rincara: “I Fori sono fra le istituzioni più democratiche del Paese e la politica sceglie di ‘riformarli’ per renderli, a suo dire, più democratici?”. Facendo intendere l’aspetto subdolo dell’operazione.
In occasione della protesta dei colleghi contro l’iniziativa della maggioranza parlamentare lei ricordava che nell’ultimo decennio il contropotere turco – giornalisti, intellettuali, accademici – sia stato sottoposto a censura e silenziato con persecuzioni e arresti. Nonostante gli asfissianti controlli, i divieti, le carcerazioni gli avvocati rappresentano ancora una componente che può minimamente garantire a chi è additato con le accuse più ingombranti (terrorismo, attacco alla sicurezza nazionale) di ricevere assistenza e sostegno davanti alle Corti. Dividere questo fronte significa per il potere crearsi alleati compiacenti o incentivare la presenza di elementi innocui, disinteressati alla difesa degli assistiti, una sorta di difensori d’ufficio tutt’altro che combattivi in sede di dibattimento. La Oztürk afferma: “Dobbiamo difendere i nostri Fori come baluardi democratici e indipendenti”. Fra le lamentazioni del settore ci sono anche quelle professionali di chi accusa il nuovo assetto di creare una componente di avvocati vicini a certi giudici prossimi alla sfera  politica, a discapito di capacità e bravura. Cosicché i clienti potranno rivolgersi a soggetti che intrallazzano col potere per veder risolte le proprie beghe. Fra le implicazioni della riforma c’è anche l’introduzione d’un controllo politico dell’organo di disciplina professionale. La Turchia ha già conosciuto “riforme” favorevoli alla sfera legislativa: nel 2010 venne aumentato il numero dei giudici costituzionali, così da permettere la nomina di elementi vicini al partito di governo. Nel 2018 fu abrogato il diritto dei magistrati di eleggere i loro pari in seno al Consiglio della Magistratura, compito assunto dal presidente della Repubblica. Con quest’ultima stretta sull’avvocatura, il cerchio di controllo si chiude.

venerdì 10 luglio 2020

Egitto, polizia talebana


Come la Kabul talebana Alessandria d’Egitto moralizza la vita vietando e arrestando. E’ accaduto a un giovane accusato di far volare degli aquiloni. Avete capito bene, quella magnifica invenzione che, se costruita artigianalmente, fa librare in aria carta colorata e due stecche di bambù incrociate, con una coda di filamenti o catenine, sempre di carta multicolore. Un gioco meraviglioso come l’infanzia che se ne serve sognando di volare. Una gioia che sfida i singulti ventosi se accompagnata dall’abile mano che, dopo il lancio, resta a terra a osservare un decollo alto quanto il filo di cotone o di nylon è capace d’unire il motore umano alla sfida celeste. Insomma sul lungomare di Alessandria un manipolo di militari della Marina e agenti in borghese hanno fermato un ragazzo che si dilettava a lanciare aquiloni e l’hanno condotto in un posto polizia. Hanno sequestrato l’oggetto del reato: canne, carta telata, code celesti e rosse. Così agisce l’Egitto che ammette solo la pratica del divieto, della repressione, della restaurazione, della vita senza gioia e senza il diritto di poter far nulla che il Potere non voglia. Pratica con zelo l’ossessione del controllo, l’invasione nel gesto e nella fantasia altrui una sbirraglia pagata, poco e male, per assillare l’esistenza di cittadini piccoli e grandi. Anche quando queste forme di coercizione assumono aspetti grotteschi come inseguire gli aquiloni, abbatterli, distruggerli - quasi si trattasse di aerei nemici, di pericolosi invasori - i marcatori del territorio eseguono pedissequamente, senza battere ciglio, né pensare. 
Non possiamo verificare, non ci risponderebbero, ma non crediamo che quei marinai e poliziotti abbiano agito di propria iniziativa. Il clima fobico dei regimi ama creare limitazioni, e probabilmente il locale governatore, o chi per lui, ha pensato di eliminare gli aquiloni dal panorama cittadino perché fonte di disturbo e di chissà quale idea sovversiva. Librarsi in volo rappresenta di per sé un gesto liberatorio che i grevi esecutori degli ordini repressivi nella dittatura egiziana non contemplano e intendono cancellare. L’Egitto che azzera il volo degli aquiloni è più vicino all’oscurantismo talebano che alla modernità di cui si vanta il megalomane dittatore del Cairo difeso dall’Occidente. 

giovedì 9 luglio 2020

Egitto: il laboratorio repressivo del Medio Oriente



La guerra a bassa intensità, imposta dalla lobby militare del presidente Al Sisi non tanto ai jihadisti dell’area del Sinai ma a qualsiasi oppositore, è uno degli elementi più inquietanti della multiforme reazione ai moti delle Primavere 2011. Se nell’ampia regione fra Mashreq e Maghreb sono tuttora in corso guerre e stragi di civili, come in Siria, o azzeramenti della forma Stato, in Libia, è nella più grande nazione araba che la reazione sperimenta una repressione al tempo stesso spietata e sofisticata. La guida un uomo che sembra un buon padre di famiglia, un volto talmente bonario che avrebbe potuto sorridere dell’ironia con cui un noto rapper lo rappresenta, definendolo balaha nel suo omonimo video musicale.

PER IL VIDEO BALAHA, CHE OVVIAMENTE SPOPOLA SUI SOCIAL, IL VENTENNE HA- BASH È FINITO IN GALERA, PER USCIRNE STECCHITO A INIZIO MAGGIO.


Balaha significa “dattero”, un po’ come la faccia pasciuta e il corpo basso e tozzo dell’ex generale. In realtà a chiamarlo così è la stessa gente d’Egitto, lo fa chi lo disprezza e chi lo teme. Ovviamente quest’ultimo lo dichiara a mezza bocca, fra conoscenti fidati, perché le orecchie dei mukhabarat [i servizi segreti] o dei loro spioni prezzolati sono sempre in agguato. Quel che è accaduto di recente, non al rapper Rami Essam che con l’aria che tira nel Paese da tempo ha preso un volo per la Svezia, ma a un incauto fotografo e regista, Shadi Habash, con- ferma i timori personali e la crudele realtà quotidiana. 
 

L’ESCALATION DELLA REPRESSIONE
Per il video Balaha, che ovviamente spopola sui social, il ventenne Habash – ahilui – rimasto in Egitto è finito in galera. Non in un carcere qualsiasi, ma nella sezione Scorpion di Tora dove polizia e Intelligence locali trascinano i cittadini infedeli al culto del presidente. Shadi c’è rimasto due anni, per uscirne stecchito a inizio maggio. Non è dato sapere la causa della morte.
Quando i militari iniziarono il repulisti, nell’autunno 2013, era da poco avvenuto il golpe bianco che depose il presidente eletto Morsi, Fratello musulmano e unico Capo di Stato non militare dell’Egitto post monarchico. E c’era stata la mat- tanza della moschea Rabaa al-Adawiyya, una ventiquattr’ore di sangue con cui fra i mille e i duemila attivisti della Confraternita islamista (il numero dei morti è rimasto sempre segreto) vennero passati per le armi da esercito e polizia.
Quella gente era accampata all’aperto, davanti alla moschea, protestava con un gigantesco sit-in per l’incostituzionale rovesciamento di Morsi del mese precedente. Furono uccisi singolarmente con armi leggere, presi a fucilate, uno per uno. Non solo la strage passò quasi inosservata agli occhi della po- litica internazionale, ma tante anime belle della democrazia interna e mediorientale appoggiavano “l’esercito del popolo” che ristabiliva l’ordine contro l’islamismo dilagante.
«Prima vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubavano...» il famoso sermone del pastore Niemöller s’adatta perfettamente alla scalata repressiva messa a punto, mese dopo mese, dal nuovo dominus della “cricca delle stellette”.


LA “CRICCA DELLE STELLETTE”

Essa – neppure uno Stato nello Stato, ma semplicemente lo Stato – trovava nell’ambizioso Sisi un uomo d’immagine e di elaborazione per riprendere in mano il controllo d’ogni organismo nazionale che aveva subìto l’euforia dell’idea di cambiamento di piazza Tahrir. Dal Parlamento alla magistratura, fino all’informazione e ai sindacati. Forse solo l’Intelligence serbava quel rapporto diretto con la vecchia guardia dei feloul [letteralmente “gli avanzi” termine con il quale si indicano i fedelissimi di Mubarak]. Ma anch’essa andava rivisitata, per evitare gli affarismi personali di soggetti come Shafiq, il politico su cui puntavano i “mubarakiani” dopo la caduta del raìs, e che invece fu sconfitto nel confronto alle urne con Morsi. Dopo aver assassinato e arrestato migliaia di militanti del- la Brotherhood l’autoritarismo militare puntò altrove. L’opposizione liberale e socialista d’Egitto, i signori El Baradei, Moussa, Sabahi e soci capirono chi fosse Sisi e come volesse agire, quando dopo l’investitura presidenziale del 2014, si trovarono nuovamente i carri armati in piazza. Puntati stavolta non contro la Fratellanza Musulmana, da essi stessi odiata, ma contro ogni protesta, ogni gesto, ogni parola. Anche riunioni private ricevevano le visite poliziesche; militanti e sindacalisti venivano colpiti dal piombo com’era accaduto alla gioventù ribelle del sogno di primavera. La stretta sull’opposizione, che aveva rinchiuso gli attivisti del “6 Aprile”, continuava sui giornalisti. 


GUERRA ALLE ONG: “MINACCE” ALLA SICUREZZA

Con l’accusa di “attentato alla sicurezza nazionale, complotto e terrorismo” venivano incarcerate migliaia di persone, gente che s’esprimeva per via, sui blog, sui social media. Accanto a galere riempite sino all’inverosimile, a ripetute torture, a sevizie sessuali – peraltro già praticate durante l’interregno sempre militare del Consiglio supremo delle Forze armate che agì dal marzo 2011 al giugno 2012 – le sparizioni di persone, giovani uomini e motivate ragazze, sono diventate sempre più frequenti. Fra quest’ultime operatrici di Ong e avvocati dei diritti, poste a difesa di accusati e accusate esse stesse di collusione con un fantomatico terrorismo.
Verso il vero terrorismo, autore inizialmente di attentati anche nella capitale e di agguati contro l’esercito, la lobby militare pratica operazioni di fac- ciata che non sradicano i gruppi jihadisti. La loro sopravvivenza giustifica lo stato d’assedio perenne, allargato all’intera popolazione metropolitana e rurale. Il gruppo di potere Al Quwwāt Al Musal- lahat Al Misriyya – le moderne Forze Armate che col motto “vittoria o martirio” hanno tracciato la via dell’Egitto contemporaneo – conta 480mila soldati effettivi (30mila gli avieri e altrettanti i marinai) e mezzo milione di riservisti immediatamente disponibili.

Ma l’età di abilità alle armi, compresa fra i 18 e i 49 anni, può portare più d’un terzo degli egiziani (35 milioni d’individui) a rivestire quell’uniforme. Del resto le Forze armate della vittoria e del martirio, occupano pur sempre la dodicesima posizione fra gli eserciti del mondo. Al cordone ombelicale della divisa indossata e vissuta come un’appartenenza, s’aggiunge l’interesse economico per chi lavora nell’esercito e per l’esercito. 


LA LUNGA MANO DEI MILITARI

Le mani dei militari sono ovunque: dall’edilizia alla logistica, dall’agricoltura alla manifattura, dal commercio al turismo, chi vuol lavorare deve rapportarsi a loro. Le aziende controllate da generali e ufficiali e dai propri compari non solo rappresentano una po- tenza con cui imprenditori e tycoon locali – laici e d’ogni fede come Sawiris o Al-Shater – hanno dovuto fare i conti, ma condizionano il salario e la coscienza di milioni di egiziani. Questo spiega l’acquiescenza d’una grossa fetta della popolazione, i silenzi davanti ai soprusi, lo sguardo rivolto altrove, il mesto tirare a campare. Magari vagheggiando la grandezza patria rilanciata da quegli specchi dell’illusione che, come ogni megalomane del potere, Sisi prospetta coi progetti della nuova capitale e del raddoppio del canale di Suez. 

IL "CASO REGENI"
Nel 2016 come una bomba scoppiò il “caso Regeni” con tanto di pedinamenti, sequestro, sevizie, uccisione del ricercatore friulano trapiantato a Cambridge e attivo al Cairo per ricerche sui sindacati indipendenti. 
Differentemente da altri omicidi politici il ca- davere venne ritrovato, sebbene poi vari organi della sicurezza hanno operato depistaggi, occultamenti di prove, ostacoli alle indagini anche quella della Procura di Roma.
L’omicidio Regeni e la sua gestione possono essere considerate una linea di confine nel grande disegno repressivo del ceto militare egiziano. Poiché se da una parte la società civile internazionale dormiente ha avuto la prova inconfutabile d’un disegno criminoso mascherato da gestione democratica della vita nazionale, l’impossibilità di scardinare il muro di gomma creato dal regime ha sdoganato quell’il- legalità che toglie il respiro alla nazione e la vita a chi la vorrebbe diversa. La prassi del tempo sospeso e della “libertà” vigilata è l’infame passo con cui una magistratura complice aiuta i militari a soffocare la vita quotidiana e l’esistenza di tanti egiziani.

IL "CASO ZAKI"
Funziona come per Shadi. Hai compiuto un gesto di protesta o una beffa verso gli uomini di potere? Peggio per te. Sei considerato una mina vagante per la sicurezza dello Stato. Perciò vieni fermato, interrogato, magari malmenato, se reagisci torturato e accusato di resistenza e violenza. È un comporta- mento registrato anche altrove, lì dove il potere fa abuso del suo potere.
Ma questo regime fa di più: ti piega mentre simula una carezza. Pur considerato un pericolo, finanche un potenziale terrorista, ti libera. Applica lo stop and go: la detenzione, la scarcerazione e una nuova detenzione che illude chi le riceve creando frustrazione, depressione, paura dell’oggi senza domani. Crea il tempo in bilico, una vita incatenata al prossimo arresto. Ad libitum.
Sta accadendo allo studente universitario Patrick Zaki, in perpetua “custodia cautelare” ogni quindici giorni, seppure fra poco i giorni diventeranno quarantacinque. Un’esistenza dilatata per seppelliti vivi, in attesa della dipartita. La storia di Zaki è finita sui media perché il giova- ne studiava a Bologna, ed è stato arrestato solo per un pensiero incollato su un noto social media. Ma in Egitto esistono migliaia di Zaki di cui nessuno parla, lo fanno solo amici e sodali attraverso una flebile rete di sostegno.
Il regime di Sisi è colpevole di repressioni stragiste e assassini mirati, tiene in galera oltre sessantamila oppositori, giornalisti, avvocati e semplici cittadini, attua la descritta sospensione della vita. Alla quale ultimamente s’aggiunge un’altra bestiale “raffinatezza”: la repressione trasversale. Per punire qualcuno di presunti reati, se l’accusato è riparato all’estero, si arrestano i congiunti rimasti sulle rive del Nilo.
È un sistema scellerato verso cui il cosiddetto mondo libero, che si batte per i diritti dell’umanità, non può restare a guardare come se nulla stesse accadendo. Rivolgendo il pensiero all’affarismo del gas, al mercato dei caccia Rafale, dei carri Abrams, degli elicotteri Leonardo, delle fregate di Fincantieri. O sognando i resort vacanzieri sul Mar Rosso. 

Da "Confronti"  luglio-agosto 2020




martedì 7 luglio 2020

New Delhi, la polizia indaga sul sito dell’odio


Denominavano “Kattar Hindut Ekta” con una ‘t’ in più, ma non si trattava di un errore sulla dicitura hindu. Quella ‘t’ stava per hindutva, la variazione fondamentalista dell’appartenenza hindu. La dottrina stilata un secolo fa da Vinayak Damodar Savarkar sostenuta dal gruppo xenofobo e fascistoide Rastriya Swayam Sevak e da alcuni anni anche dal Bharatiya Janata Party, che proprio in base a quest’estremismo razziale e confessionale ha accresciuto consensi elettorali tanto da guidare il Paese dal 2014. Riferisce la stampa indiana che il gruppo “Kattar” era comparso su Whatsapp e riuniva in rete centoventi persone, poi aveva mutato il nome in “Hindu Ekta Zindabad” e “Hindu Unity”. Le chat attivate servivano a preparare scontri, o per meglio dire, aggressioni a giovani musulmani, assalti a rivendite e case di gente islamica. In base alla condivisione ideologica dell’odio confessionale che raccoglieva slogan come “uccidi il mullah” alla  fine dello scorso febbraio, in alcune aree di Delhi, come Bhajanpura, a grande presenza musulmana, sono partiti gli attacchi a persone e immobili che hanno prodotto 53 vittime e centinaia di feriti con rivendite, case, madrase incendiate e distrutte. I partecipanti al gruppo scrivevano apertamente: “Sono stato a bruciare case” e indicavano i luoghi. Oppure tifavano per i fanatici che lo stavano facendo. Ma c’erano messaggi ancor più truculenti, in perfetta linea con lo spirito dell’hindutva che ama predicare disprezzo e morte per i diversi.

Fate a pezzi i mullah”, recitavano alcuni messaggi. E ancora “Fratelli ora noi dobbiamo stuprare le loro madri” e “Le donne islamiche siedono fuori dalle moschee, violentatele”. Col salire delle prospettive omicide, invocate e praticate, qualcuno abbandona il gruppo Whats e immediatamente viene tacciato d’impotenza e codardìa. Seguono i proclami di dove sarebbero scoppiati nuovi agguati (a dimostrazione della premeditazione delle violenze) e conseguenti particolari sui pestaggi, alcuni dei quali letali. Insomma i dieci giorni di terrore anti islamico risultano tracciati su quella casella. Tutto viene giustificato dal fatto che i maschi musulmani cercano di legarsi sentimentalmente a donne hindu per convertirle e per mettere su famiglia secondo i dettami del Corano. Una prospettiva inaccettabile… E ancora  leggendo sull’incremento della natalità islamica: “Cosa accadrà al nostro lavoro, ai figli, alla Costituzione, alle orgogliose caste, ai nostri leader, ai pandit kashmiri? Quando potremo trovare una soluzione?”. Taluni passaggi espressamente violenti, poi rimossi dagli amministratori del gruppo, comparivano in un video con mausolei dati alle fiamme e immagini di proiettili da usare con diverse armi. E’ comparso anche un discorso di Kapil Mishra, politico focoso, attivo con azioni di denuncia contro la corruzione di membri di vari governi, e da un anno passato dal populista Aam Aadmi Party al partito di Modi. In occasione delle manifestazioni al 'Citizenship Amendment Act', Mishra aveva preso posizione contro le proteste alla contestata legge di apartheid per gli stranieri islamici. Così nei giorni di fuoco dello scorso febbraio i creatori del ‘sito hindutva’ hanno usato anche i suoi discorsi. Dopo il fermo di cinque animatori del gruppo, non proprio virtuale, la polizia indaga.