Il cataclisma inflazionistico libanese, avviato
nell’autunno 2019 e che la piaga del Coronavirus ha ulteriormente cronicizzato,
prosegue la sua corsa. Ha ormai piegato i ceti medi che hanno perso lavoro,
posizioni e sicurezze e si barcameno fra una neopovertà e l’impossibile diritto
alla fuga, impedito dalla limitazione dei viaggi e dalla difficoltà di trovare
mete accoglienti. Del resto forse solo i commercianti, ovviamente non quelli
minuti, possono pensare di riparare altrove. Chi ha guardato oltre la sfera di
cristallo lo aveva fatto tempo addietro, ma situazioni fino a un paio d’anni fa
di relativo benessere, ad esempio docenti stipendiati con tre-quattromila
dollari mensili o funzionari amministrativi da oltre due-tremila dollari, oggi
finiti sotto i mille non possono conservare il tenore di vita conosciuto. E
restano legati al filo d’un lavoro che all’estero potrebbero non trovare,
dilaniati dal dilemma se abbandonare un Paese che affonda o sperare che la tempesta
passi. Ben oltre il tradizionale millenario mercato dei suoi mercanti, il
Libano post coloniale e ancor più quello nato dalle macerie della guerra civile,
mostrava chiarissime tare. Al fragile modello del compromesso
politico-confessionale con cui si cercava di guidare la nazione, non
corrispondeva uno sviluppo economico. Al di là dei prodotti agricoli d’una
terra benefica il liberismo proposto dal clan sunnita degli Hariri, in accordo-scontro
con le famiglie che contano - maronite, druse, sciite che comunque s’accaparravano
fette di territorio e di attività locali - intervenivano a portare “benessere” capitali
stranieri (sauditi e di altre petromonarchie, iraniani) che, come i franchi dell’epoca
coloniale e i successivi dollari americani, gonfiavano gli affari delle banche
senza creare una classe imprenditoriale autoctona.
Gli stessi clan libanesi curavano esclusivamente i propri affari,
quasi nulla investivano per un Paese, piccolo ma ridotto in quattro enclavi,
più o meno vaste, con una serie cospicua di problemi. Quello dei rifugiati, i quattrocentomila
palestinesi presenti dagli anni Settanta, e ultimamente i due milioni di
siriani. Campi profughi hanno significato per lo Stato libanese anche aiuti
internazionali, che in vari casi non finiscono utilizzati neppure per lo scopo
originario. E quando il percorso dei finanziamenti segue la retta via creava in
loco un indotto che rappresenta esso stesso una risorsa. Ovviamente per un
certo numero di addetti ai lavori. L’adattamento a talune condizioni di
assistenza non ha giovato alla stabilità finanziaria interna. Seppure tutto il
‘benessere’ (non per tutti ma sicuramente per i ceti medi) rappresentato dalle
bolle speculative edilizie degli anni Novanta e d’inizio Millennio, fino alla stessa
ricostruzione successiva alla guerra estiva del 2006 con Israele, ha creato occupazione
nei servizi, più o meno fittizi, con consumi,
aspettative, orientamenti di vita, prima schizzati in alto, poi ridimensionati
anno dopo anno fino al recente crollo inflattivo. Di questi tempi un dollaro
che ha un cambio ufficiale di 1500 lire libanesi, sul mercato nero può oscillare
fra 7500 e 9500 lire. La ricaduta sul mercato degli stessi generi di prima
necessità: pane, carne, legumi è devastante. I prezzi sono triplicati, e più la
merce è ‘pregiata’ più occorre pagare. Chi anni addietro osservava criticamente
la deriva del liberalismo drogato dai finanziamenti esteri che il ceto politico
- da Hariri padre all’inetto figlio, col benestare anche degli opportunisti
Aoun e Jumblatt, oppure di chi sta agli antipodi: i Geagea e Nasrallah - poteva
prevedere crisi a ripetizione, ma non pensare al tracollo. C’era l’abitudine a
credere che il piccolo “parco giochi del Levante”, come se l’era cavata dai
gravi dissesti post coloniali, soprattutto la lunga e sanguinosa guerra civile
(1975-90), riuscisse a tenersi a galla sempre col sistema di aiuti e
‘investimenti’ esteri.
Gli strati di povertà della società sciita nel profondo e nelle
periferie, sempre meridionali, della capitale, abituati a soffrire, ad accontentarsi
di poco, a ricevere elemosine e sostegni caritatevoli da quel Partito di Dio
che chiede in cambio fedeltà e impegno militante (e per il genere maschile
militare), non subiscono un duro choc. Come detto, è la classe di mezzo che va
scomparendo. Fra i cristiani e fra i musulmani. Certo, anche qui, qualcuno che
può accedere alla benevolenza dei clan ricchi presenti in ogni confessione riesce
ad agganciare qualche opportunità in più. Però carovita e inflazione seminano
disagio fra chi da tempo era abituato a vivere dignitosamente. Qualche giovane
si ricicla, finisce per ricoprire ruoli di domestica, badante, cuoco, chauffeur
per le famiglie agiate esistenti e resistenti. Ma si tratta di situazioni di
nicchia. La disoccupazione è uno spettro che ha numeri da paura: un terzo della
popolazione è senza lavoro e, se va bene, pianifica lavoretti quotidiani solo
per la spesa alimentare. Negli anni passati chi periodicamente ha trovato
un’àncora di salvezza nelle associazioni caritatevoli che si occupavano (e si
occupano) dei rifugiati non ha la certezza di potersi ricandidare. Più che dare
aiuto dietro un salario, può finire aiutato, sfamato e alloggiato qualora non
abbia neppure un dollaro per pagarsi l’affitto, finendo da un appartamento a
una tenda. Fra le nazioni fallite dagli stupri dei conflitti, come Medioriente
e Nordafrica hanno mostrato nell’ultimo decennio, il Libano (che pure il
tributo alla morte l’ha duramente pagato coi 120.000 cadaveri della guerra
civile) può ritrovarsi nella stessa drammatica situazione per l’ecatombe
monetaria che lo sta sotterrando.
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