Esistono modi più o meno ingombranti per entrare nella Storia,
Recep Tayyip Erdoğan da tempo ne ha scelto alcuni subdoli, altri dirompenti. Tutti comunque sotto i
riflettori, perché il suo egocentrismo fa della visibilità una ‘roulette russa’
alla quale non si sottrae. Anzi, amante del rischio, cerca il colpo grosso. Con
la vicenda di riportare in Agya Sofia il culto islamico, ritrasformando in
moschea un monumento ‘laicizzato’ e reso museo da Mustafa Kemal, il presidente turco
rilancia una lacerazione con un pezzo di mondo e riutilizza la via della
polarizzazione che in politica interna finora l’ha sempre ripagato. Così
il leader istituzionale tracima e invade il terreno confessionale. L’azione
dell’antico padre della moderna Turchia che nasceva dalle polveri dell’Impero
ottomano, accantonava la disputa fra la fede ortodossa defraudata della sua
Chiesa simbolo e l’Islam conquistatore di Mehmet II, che dal 1453 fece di quel luogo
la gloria dell’architettura musulmana. Scriveva Procopio di Cesarea nel sesto
secolo: “La Chiesa si erge fin quasi a
toccare il cielo e quasi ondeggiando svetta sugli altri edifici sovrastando
l’intera Città; di essa rappresenta il gioiello, poiché le appartiene, ma ne è
al tempo stesso abbellita, essendone una parte e, come suo culmine, si eleva
così in alto, che dalla Chiesa si può contemplare la Città come da un
osservatorio”. Ciò nonostante ben altre maestose cupole e minareti sorsero
nel mezzo millennio di dominio della Costantinopoli, diventata Istanbul. Ma
quel nome, come riportato dagli etimologi - ‘Is tim boli’ da ɛìs ʈŋv πόλιν cioè “verso la città” -
serbava quanto di greco la metropoli di Costantino e Giustiniano manteneva
vivo.
Ora rifare dello straordinario tempio ortodosso un luogo di culto islamico, vuol dire vellicare un
conservatorismo religioso della mezzaluna che altrove ha sedi e mondi ben più
fanatici. Anche perché, nata cristiana e
diventata islamica, la capitale sul Bosforo è un po’ come Gerusalemme, una
città simbolo condivisa con altre religioni. Ma Erdoğan spinge egualmente
sull’acceleratore, la popolazione pur giovane intervistata nei giorni scorsi sulla
dibattuta questione, s’accalora attorno alla figura del sultano etichettato
‘Fatih’, cui è dedicata quella fetta della metropoli in cui il
partito di governo conta un pezzo del suo zoccolo duro. I libri di storia
narrano dei cinquantatre giorni di assedio di Costantinopoli, iniziato in
aprile terminato a maggio, come di una guerra moderna. Con l’uso del primo
colossale cannone (definito dal nome del costruttore ungherese Orbán, che però
lo offriva ai turchi), con blocchi navali sul Corno d’Oro degli assediati e
superamenti con carrucole da parte flotta ottomana, con distruzioni,
sventramenti, impalamenti, anche di donne e bambini, e tutto il peggio che il
fanatismo militare propone e realizza. Ecco, al di là degli storici che sanno,
studiano, divulgano letture variegate di quel passato, la proposta erdoğaniana che
tutto mescola e che fa ricorso a tutto, sembra intervenire sul fattore
divisivo, punitivo verso il passato anche recente e non ottomano, più che sullo
spirito di quel che per secoli Costantinopoli-Istanbul rimase fino alle soglie
del Novecento: “un guazzabuglio di
cosmopoliti molto eterogenei”. Elemento non disdegnato dagli stessi sultani
che dopo la sottomissione, tolleravano le minoranze di fede dietro il pagamento
di ‘tasse di protezione’. Era più il kemalismo, con e dopo Atatürk, a lanciare
i pogrom antiellenici, certamente stimolato da azioni militari del
nazionalismo greco. La Storia è lì, e può essere rivisitata assumendo contorni
di meditazione su limiti ed errori, viene invece nuovamente impugnata come
un’arma.
Erdoğan che aspetta ossessivamente di festeggiare, forse più da padrone
che da sultano, il centenario della nascita dello Stato moderno (2023) si
prende la briga di sollevare un polverone su un tema che scuote il patriarca
Bartolomeo e pure papa Francesco. Rispolvera contrapposizioni che gli inimicano
il blocco europeo, ortodosso e cristiano, quel blocco che sul versante politico
lo tiene lontano dalla Ue e lo usa (ma chi usa chi?) sull’annoso tema della
migrazione. Proprio perché conosce la coscienza nera della politica del vecchio
continente, Erdoğan intraprende la via della provocazione sulla chiesa-simbolo
e paventa una soluzione che non lo farà conquistatore con la spada come Mehmet
II, però gli assicura di compattare il popolo islamico più tradizionalista e certe
frange anche giovanili che sui valori, sul Paese, sulla ricerca di futuro nello
sbandamento operato dalle pandemie di Sars Cov2 e dell’economia, chiedono
certezze. Proporre un’identità islamica marchiata di senso patrio in una
nazione che è stata Impero e ha forti mire di supremazia in Medio Oriente è,
non da oggi, un progetto praticato dall’uomo forte di quello che a inizio
millennio ha sancito il rilancio turco. Affievolito lo slancio, Erdoğan ha
compattato una buona parte della cittadinanza (non solo i fedelissimi dell’Akp)
contro il golpe di cui ha accusato i gülenisti, giocando su più tavoli ha
rivolto la sua presenza e ingerenza nella guerra sporca siriana contro i
territori liberi del Rojava, spazzati via dai suoi carri armati col benestare
di Putin, compiacendo Asad contento d’essere restato alla guida d’un Paese
spettrale. E navigando nel “mare bianco” verso le coste libiche l’onnipresente neo
Atatürk gioca le proprie carte e rafforza la sua Turchia e se stesso. Figurarsi se
si ferma davanti a un Patrimonio Unesco…
________________
su Costantinopoli: cfr. Marozzi J., Imperi islamici, Einaudi,
2020
Nessun commento:
Posta un commento