In tempi di chiusure, limitazioni, viaggi bloccati da prime, seconde
e terze ondate di Coronavirus c’è chi riceve permessi di transito e
trasferimento. La minoranza etnico-religiosa degli hindu afghani in questi
giorni ha avuto dal governo di Delhi il consenso per entrare in India. Se lo
vorrà. In Afghanistan tale minoranza, come accade ad altre ben più numerose
quali gli hazara, è oggetto di ripetuti attentati, taluni particolarmente
sanguinosi. Nello scorso marzo, in avvio di pandemia nel Paese dell’Hindu Kush,
si verificò un agguato nel luogo più sacro della comunità: il loro tempio
presente nell’antica Kabul. La vita fu strappata a venticinque persone, fra cui
alcuni bambini. In quell’occasione a perseguitare gli hindu afghani erano i
miliziani dello Stato Islamico del Khorasan, in altre gli attentati sono avvenuti
per mano del fondamentalismo talebano. Ma la Shura di Quetta, che ha condotto i
colloqui di pace a Doha, in questo periodo ha evitato simili spargimenti di sangue.
Ha continuato ad attaccare solo l’esercito di Ghani. Ora la comunità hindu
afghana deve decidere se restare nella nazione dove risiede da tempo, che
incute terrore ma che le offre strumenti di sopravvivenza pur precari. Oppure
riparare nel ventre indiano, accogliente sul fronte della sicurezza immediata
però deficitario da un punto di vista occupazionale, economico e di sostegno a
medio termine. Anche per la crescente problematicità creata dalla pandemia che
pone tuttora lo Stato-continente in una condizione di tremenda difficoltà per
centinaia di milioni di cittadini poveri.
L’India è tuttora in lockdown, i numeri degli
infettati sono assolutamente approssimativi, riguardano solo una fetta di
operatori pubblici con un’occupazione stabile, i lavoratori privati, il micro
commercio, e precari, ambulanti, disoccupati, questuanti sono incontrollati e
incontrollabili. Si tratta di centinaia di milioni d’individui. Fattore che
incute ampio timore agli strati benestanti della nazione che come dimostrano le
infezioni contratte anche da alcune stelle di Bollywood, in qualche caso con
tanto di decesso com’è accaduto al quarantaduenne compositore di musiche da
film Wajid Khan, ha messo il governo Modi nella posizione di prolungare la
chiusura del Paese. Ovviamente questa situazione deve fare i conti con tutte le
criticità rappresentate dal sovraffollamento e dall’impossibilità oggettiva del
distanziamento sociale fuori e dentro abitazioni e tuguri, dove purtroppo tanta
gente vive tuttora. Le famiglie hindu afghane non sono numerose, già negli anni
passati, proprio a seguito delle persecuzioni, chi ha potuto è volato in India,
in Europa e in America. Così da tremila nuclei familiari ora se ne contano
circa cinquecento, principalmente nelle province orientali di Nangarhar e
Paktia. L’amministrazione di Kabul, che pure non condiziona l’attività
lavorativa dei locali hindu e sikh, non ne tutela l’incolumità personale. Dopo
l’attentato di marzo a mala pena viene presidiato con un tank il tempio,
fattore peraltro che non tutela un possibile ripetersi di azioni terroristiche.
Mangiare rischiando la pelle o partire e soffrire la fame è il dilemma di questa
minoranza travagliata, in una fase in cui il mondo si restringe e l’esistenza
resta sospesa.
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