mercoledì 30 novembre 2016

Democrazia in Egitto: nessun presente né futuro


Per due manifestanti scarcerati nei giorni scorsi dal regime di Al-Sisi (Ahmed Said e Sanaa Saif) medico l’uno, attivista l’altra, non solo migliaia di oppositori restano in galera, ma si preparano ulteriori arresti facilitati da nuove normative in corso d’applicazione. I passi legislativi del governo hanno introdotto nel Parlamento addomesticato una modifica all’articolo 78 del Codice Penale rivolto, in maniera mirata, contro le organizzazioni non governative. La modifica è ora all’esame del Consiglio di Stato. Le Ong finiscono nell’occhio del ciclone, come qualsiasi cittadino pensante e disobbediente ai diktat del Feldmaresciallo divenuto capo di Stato. In sostanza le si accusa di esistere, visto che si limita ogni loro attività autonoma e si offre il via libera solo a quelle che seguono la via maestra dettata dalle Istituzioni, ovviamente poste sotto la supervisione di Esecutivo e Presidenza. Ancor più l’impianto di controllo vale per le strutture straniere, che possono “mettere in pericolo la sicurezza nazionale”. In tal modo il cerchio si chiude, poiché le attività di sostegno a qualsiasi causa vanno passate al vaglio delle autorità egiziane che possono negare la licenza, espellere gli operatori e, nelle ipotesi peggiori, adottare sanzioni penali, pecuniarie o detentive. Amnesty International ed esponenti egiziani dei diritti alle Nazioni Unite denunciano questo panorama che s’aggiunge a quanto accade da anni nel grande Paese arabo in fatto di repressione, un’illegalità che trova appoggi nelle misure-forzature istituzionali.
Ad esempio, fu il presidente a interim Adly Mansour, a fine novembre 2013, a introdurre la legge contro la possibilità di riunirsi in piazza, per evitare non solo i grandi raduni di Tahrir o i sit-in d’opposizione simili a quelli della moschea di Rabaa, ma impedendo ogni capannello di persone munite di cartelli, striscioni o megafoni. La legge cosiddetta “anti-protesta” è in contraddizione anche con la Costituzione voluta dai golpisti pro Sisi, votata nel 2014, che garantisce ai cittadini la libertà di assemblea e incontro, se questi si svolgono in un contesto pacifico. Decine di casi di riunioni pubbliche, lontane da qualsiasi orientamento di protesta ma semplicemente dimostrative o celebrative sono state sciolte violentemente, provocando centinaia di arresti e decine di morti: quarantanove il 25 gennaio 2014, diciotto un anno dopo. Quei cittadini ricordavano la “Rivoluzione egiziana”, cui tutti a parole si sono richiamati e che ormai è inseguita da una minoranza della popolazione, peraltro ampiamente diminuita a seguito della repressione. Lo Stato del silenzio e dell’oblìo è la forma propagandata dal regime che cerca di darsi apparenze di normalità, puntualmente smentite dai fatti. Proprio in questi giorni s’è tenuta a Roma, all’interno del Parlamento, un convegno organizzato da un nutrito gruppo di associazioni dei diritti.
“Difendiamoli!” era il titolo del convegno, che diventava anche un’esortazione e un programma rivolti ai milioni di casi in cui l’offesa ai diritti dei cittadini rappresenta una piaga, anche in nazioni ritenute democratiche. Fra gli attivisti dei diritti intervenuti all’assise doveva esserci anche l’avvocato egiziano Malek Adly, che in occasione della sparizione di Giulio Regeni s’era attivato nella ricerca dello studioso trovato morto, oltreché seviziato. Adly aveva lanciato accuse agli apparati della repressione perché quel caso somigliava ad altre efferatezze registrate nel Paese dai legali democratici egiziani. Nello scorso maggio Adly era stato imprigionato proprio in base alla citata legge anti-protesta per aver contestato la cessione governative delle isole Tiran e Safir all’Arabia Saudita. Come altri attivisti e giornalisti incarcerati ha subìto isolamento e privazioni, tornando poi libero ad ottobre. Una libertà vigilata e limitata poiché in occasione del convegno romano il ministero dell’Interno (dove regna Abdel Ghaffar, uno dei possibili mandanti dell’omicidio Regeni) gli ha negato il visto per l’Italia. La voce di Adly è giunta registrata su un video e ha sottolineato come la distruzione dei diritti umani sia il cardine del programma di Sisi, che va fermato anche con una campagna internazionale volta alla difesa delle condizioni di “libertà di pensiero, espressione, riunione e partecipazione dei cittadini”.

martedì 29 novembre 2016

Weeda Ahmad: “Ostacolare i criminali di guerra con una rete internazionale di sostegno”


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Weeda Ahmad è la presidente dell’associazione afghana Saajs (Social Association Afghan Justice Seekers) da anni impegnata a raccogliere testimonianze sui crimini di guerra compiuti da figure politiche afghane tuttora presenti sulla scena nazionale e internazionale con incarichi istituzionali. Ha partecipato assieme ad altri attivisti dei diritti: l’egiziano Malek Adly (in video), l’irachena Nibras Almamuri, l’indiano Assem Trivedi, il siriano Zaidoun al Zoabi, il mauritano Biram Dah Abeid, al convegno “Difendiamoli!” organizzato ieri presso la Camera dei Deputati da diverse associazioni che sostengono la protezione dei Diritti Umani. 
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Weeda è utile confrontarsi con attivisti di altre nazioni sul tema dei diritti umani negati?
Il dialogo e la collaborazione fra chi si batte per il rispetto dei diritti umani nei vari Paesi sono indispensabili, i difensori delle libertà rappresentano un mezzo formidabile di sostegno reciproco a livello internazionale. Proprio perché i profanatori di questi diritti e i criminali sono uniti fra loro, trovo giusto coordinare le attività di chi si difende. 
Cosa s’aspetta l’associazione Saajs da simili convegni? 
Ci aspettiamo che le testimonianze e i propositi che qui si confrontano non restino rinchiusi nei recinti d’un salone, pur importante come questo del Parlamento Italiano. Non vorremmo che terminato l’ennesimo convegno tutto venga archiviato, poiché in tal modo si favorisce l’oblìo. Auspichiamo la nascita di comitati permanenti che possano sviluppare confronti e un percorso comune.
Così da portare al cospetto del Tribunale Internazionale dell’Aja le nefandezze di più Paesi?
Sarebbe giusto. Certo, prendiamo l’esempio afghano: il nostro governo dal 2003, sotto la prima presidenza Karzai, ha riconosciuto il Tribunale dell’Aja però si dichiarava competente per crimini avvenuto dopo quell’anno; lasciando, dunque, scoperta tutta la fase della guerra civile (1992-96) in cui i signori della guerra dal hanno massacrato 80.000 concittadini e tralasciando il periodo del terrore talebano fino al 2001. Negli anni successivi al 2003 a Kabul è stato creato un comitato governativo che doveva rapportarsi alla Corte dell’Aja, in questa struttura è presente Salahuddin Rabbani, figlio dell’ex signore della guerra che fu anche presidente della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, ed è attuale ministro degli esteri dell’amministrazione Ghani. Strutture che vedono la presenza di questi uomini ovviamente non lavoreranno per inseguire la giustizia sulle atrocità del passato.
Prevale maggiormente la condivisione del dolore o la frustrazione per la mancata giustizia?
Ci sono entrambe, non lo nascondo. C’è anche quel senso d’immobilità delle cose, però c’è il desiderio di guardare avanti e non arrendersi. Non abbiamo altra via.
Nel vostro Paese giungono notizie delle vessazioni altrui?
Purtroppo abbiamo un sistema mediatico acquiescente e complice verso il potere che non presta attenzione al quadro internazionale. I familiari delle vittime civili - che nel quindicennio d’occupazione occidentale sono continuate a esistere - non hanno bisogno di conoscere dai media gli scempi, vengono informati sul posto o, se si abitano in altre zone, sono avvertiti da gente comune e funzionari governativi. I giovani che usano i social network si trovano di fronte a un bivio: sul web esistono siti d’informazione ufficiale come Tolo tv, e quelli d’opposizione fondamentalista e d’altra tendenza. Ognuno osserva i suoi canali, li usa e lì cerca proprie referenze, non c’è dialogo fra le parti.
Ai deputati italiani che sostengono un governo che finanzia truppe d’occupazione nel vostro Paese, cosa chiedete? cosa rivendicate ?
Ai questi parlamentari non chiediamo nulla perché se sostengono la missione Nato sono complici di ciò che fanno le truppe d’occupazione. Ribadisco: dal 2001 con l’Enduring Freedom, la missione Isaf e ora col Resolute Support i crimini di guerra non sono diminuiti. Noi domandiamo solidarietà al popolo italiano, alle strutture di sostegno di diritti umani, alle Ong, al volontariato.
Quale svolta prevede in Afghanistan: i talebani verranno cooptati al governo?
Sono pessimista. L’integrazione dei talebani nel governo è possibile, e questo sposterà ancor più l’orientamento del Paese verso il fondamentalismo in politica e nei costumi, ma tutto ciò non basterà a limitare gli spazi dell’Isis. Se dovesse proseguire un’occupazione occidentale, i miliziani potrebbero sostituire i taliban nel ruolo di resistenti.
Cosa avete pensato dell’apertura compiuta dal presidente Ghani verso Hekmatyar, noto come ‘il macellaio di Kabul’?
Che il governo “democratico” getta la maschera. Come ai tempi di Karzai questi personaggi servono due padroni: gli statunitensi che li insediano e i fondamentalisti interni con cui fanno affari. 
Anni di lavoro a raccogliere testimonianze sulle vittime dei signori della guerra andati in fumo? 
Non proprio. La coscienza acquisita con quest’esperienza e i frutti della stessa - le testimonianze documentate - non sono lavoro perso. Tornano utili perché creano determinazione e senso civico in nuove leve di attivisti. Inoltre conserviamo molte copie dei documenti, nella sede dell’associazione e in vari luoghi segreti. A media o lunga scadenza, tutto servirà per inchiodare i criminali.
Aumenta fra la gente il sostegno al vostro lavoro oppure prevalgono nuovamente paura e omertà?

L’omertà no. La nostra gente odia i politici afghani sia per le condizioni di miseria in cui costringono milioni di persone, sia per la corruzione e il servilismo verso lo straniero occupante e non. La paura è, invece, presente. In troppi di più generazioni hanno perso fiducia per le tante promesse tradite negli ultimi quarant’anni. La paura è un fattore oggettivo e si mescola con la sfiducia. Ma c’è anche speranza. Ci aiutano i giovani, sull’onda di quell’energica incoscienza che porta a impegnarsi per degli ideali in condizioni di assoluto volontariato. Noi non molliamo. Non molliamo affatto.


mercoledì 23 novembre 2016

Lo spettro jihadista che s’aggira fra noi

Prendere Mosul e poi? Al di là del fronte composito anti Isis che persegue interessi differenti sia sul terreno locale sia su quello dell’ampia area regionale, gli analisti si domandano quali potranno essere gli sviluppi del disegno fondamentalista del Daesh.  Il Califfato teorizzato da Al Baghdadi, materializzatosi dal 2014 nei territori siriani frantumati dalla guerra civile e nell’area settentrionale irachena, appunto attorno a Mosul, ha subìto dal gennaio scorso un ridimensionamento calcolato in 13.000 kmq di territorio perduto a favore dell’esercito iracheno, delle milizie peshmerga di Barzani, delle Unità di protezione del popolo e delle donne del Rojava, delle truppe lealiste di Damasco, dell’esercito turco. Appoggiate, secondo logiche geopolitiche e alleanze, da altro combattentismo (Pkk, Hezbollah, battaglioni Al-Quds, Hashed al-Shaabi) cui si sono aggiunti gli strategici raid aerei statunitensi e russi. Questi attacchi hanno messo in seria difficoltà i miliziani del Califfo che non posseggono strumenti per contrastare gli assalti dal cielo e hanno preparato quelle offensive di terra che, come per la località di Manbij, hanno tagliato le vie di comunicazione da Raqqa alla frontiera turca da dove affluivano numerosi foreign fighters. I combattenti stranieri, un esercito di circa 30.000 uomini impegnato nel Daesh su descritto certamente retribuiti (visto che il Califfo vanta denari frutto del proprio commercio petrolifero, contrabbandi, donazioni, tassazioni) ma che non possono essere considerati semplicemente truppe mercenarie.
Gli aderenti alla causa hanno scelto la “guerra santa” per via politica o confessionale, e una volta sradicati dai territori in questione torneranno nei luoghi d’origine. Tunisia e Marocco oppure Bosnia e Albania. E ancora Francia, Germania, Belgio, Inghilterra, Paesi Bassi perché molti sono giovani europei di seconda e terza generazione che hanno abbracciato jihad e imbracciato kalashnikov. Ci si chiede quali saranno i ruoli cui punteranno in base a logiche individuali, da cosiddetti lupi solitari, oppure indotti e organizzati come la cellula di Molenbeek. Ovviamente se ne stanno interessando le Intelligence, ma se tutto resta circoscritto a un programma di repressione e prevenzione, soprattutto per ciò che s’è visto nei mesi a ridosso degli attentati francesi coi Servizi di Parigi e Bruxelles tutt’altro che attivi e collaborativi, i cittadini e gli stessi governi non dovrebbero vivere giorni tranquilli. Fuori da allarmismi gli osservatori annotano che nonostante la creazione d’un territorio dove far sventolare i propri stendardi e applicare la Shari’a il numero di agguati rivolti ai Paesi Ocse è aumentato passando dai quattro del 2013 agli undici del 2015. E’ possibile che questa tendenza prosegua, facendo operare i propri militanti nelle mille contraddizioni del tessuto socio-politico occidentale che rifugge logiche d’inserimento e di accettazione della diversità islamica e pratica la sola via del controllo repressivo e dell’esclusione.
Naturalmente il conflitto col jihadismo non si combatte principalmente in Europa, dove esistono aree attualmente a basso impatto terroristico (penisola iberica, Svizzera, Austria, Ungheria, Polonia). Ma i conflitti alle porte sul Mediterraneo, la destabilizzata Libia e lo stesso Egitto, due nazioni dove eventi recenti hanno creato solo caos o iper repressione, attraggono entrambi le attenzioni dell’Isis. Dati forniti dall’Institute for Economics & Peace con sede a Sidney, indicano per il 90% azioni classificate come terroristiche nel sistema globale in aree dove turbolenze e instabilità politica sono di casa. La palma spetta, accanto alle citate Siria e Iraq, ad Afghanistan e Pakistan, allo Yemen e alla Nigeria. Quest’ultime nazioni sono state scelte dal jihadismo nella versione qaedista e di Boko Haram, due fenomeni ultimamente in ribasso, ma non azzerati, anzi. Taluni terreni di conflitto vengono conservati e rinfocolati da quelli che sono i deus ex machina mediorientali, le nazioni guida che cercano la supremazia nell’intera regione e che si scontrano in più luoghi: monarchia saudita e Iran post khomeinista. C’è di mezzo sunnismo e sciismo, ma non solo. Si affrontano e contrastano interessi economici energetici, geo strategie con tanto di collateralismi con le superpotenze seppure basati su alleanze tattiche che possono mutare o prendersi deroghe.
Gli Stati Uniti, ad esempio, grandi amici di Riyad continuano a combattere quel qaedismo che la dinastia saudita foraggia, e che negli ultimi due anni con la sigla Ansar al-Sharia s’è ricavato il controllo di un’ampia fascia di territorio nella parte meridionale dello Yemen, dopo che il Paese è imploso sotto i colpi ribelli l’etnia houthi. E che, dopo il diretto intervento militare delle truppe saudite, sta conoscendo un conflitto etnico-religioso dietro il quale si scorgono esplicitamente i tutori. Se in Pakistan i dati dell'ultimo anno parlano a favore della scelta governativa di usare le maniere forti come unica soluzione per il jihadismo lì di matrice talebana (però la partita non è chiusa e la dissidenza dei Talib-i Tahereek sta a dimostrare come nulla sia pacificato e risolto), si può affermare che i migliori alleati del cosiddetto terrorismo sono le linee interventiste, le guerre d’occupazione mascherate da “missioni di pace”. Afghanistan e Iraq, insegnano. Ma un simile monito viene pure dalla Libia o dal citato Yemen. Talune considerazioni lanciate non da capi talebani, bensì dalla gente comune e da quegli attivisti schierati contro talib e signori della guerra, valutano molte peacekeeping come situazioni d’ingerenza e controllo o apertamente d’invasione conflittuale contro cui il jihadismo gioca la carta della resistenza verso l’occupazione straniera e viene percepito dalla popolazione come un combattente della libertà.
Esclusi i luoghi dove i mujaheddin della jihad lanciano quella che gli esperti definiscono la “capacità simmetrica” volta alla conquista di spazi fisici e territorio -   come nelle latitudini in cui i miliziani si sono insediati: le aree nigeriane, libiche, del Sinai, lì dove tuttora si dà battaglia (Siria, Iraq, Yemen) oppure si punta ad ampliare il controllo (province afghane) - tornerà in scena l’intenzione di conservare e sviluppare una “capacità asimmetrica” che è fisica attraverso gli attentati di matrice terroristica e con l’uso di kamikaze. Questi più che eliminare un gran numero di persone (sebbene le esplosioni della stazione di Atocha, i colpi del Bataclan, gli investimenti della Promenade des Anglais restino incubi collettivi), mirano a diffondere paura fra i colpiti e sensazionalismo fra cerchie sempre più vaste di pubblico. L’utilizzo della tecnologia della rete, la presenza nei social network, le competenze che permettono ai gestori di siti di collocarsi su piattaforme che sfuggono a pur serrati controlli delle polizie mondiali nel cyberspazio, mostrano una particolare attenzione alla linea della propaganda su cui l’Isis ha puntato moltissimo per creare una sorta di mito del proprio progetto politico e, al tempo stesso, ha attuato una meticolosa propaganda per la causa. E’ la versione digital d’un reclutamento che passa ancora per madrase e moschee, ma che trova un formidabile supporto nella tecnologia.
Al di là del dubbio se alcune scene truculente di sgozzamenti, mostrate dai filmati, siano davvero avvenute sulle spiagge libiche o siano state riportate da altri scenari, oppure se anche certi video dell’Isis abbiano avuto una regia occidentale, come rivelato dal Bureau Investigative of Journalism in merito ai messaggi visivi di Qaeda risalenti a un decennio fa, esiste  comunque una concreta rete del combattentismo jihadista armato anche sul fronte digitale. Sono attive piattaforme d’informazione e diffusione di messaggi divulgativi in venticinque lingue e soprattutto il racconto compiuto, centralmente da militanti o individualmente da simpatizzanti, risulta presente, agile, seguìto. Tutto ciò produce tuttora imitazione con cui, chi s’oppone a questo progetto, deve fare i conti. Nei pensieri della politica che lavora fianco a fianco con le Intelligence e cerca di distinguersi dalla semplice coercizione vecchio stile delle Rendition, che comunque non passano di moda, balenano progetti di deradicalizzazione per via istituzionale. L’intuizione ci fa pensare a una sorta di leggi sul pentitismo verso i miliziani che una volta catturati e messi alle strette da condanne estreme, nei Paesi democratici con procedure estranee da pene capitali, potrebbero introdurre una sorta di disinnesco di soggetti irriducibili. Ma questo deve fare i conti con la particolare ideologia di certo fondamentalismo islamico. E poi, non è detto che l’economia della guerra, con radici  occidentali profondissime, non abbia bisogno del vituperato terrorista. Un nemico che in certe situazioni gli sa essere amico o un comodo attore.







venerdì 18 novembre 2016

Egitto: compare il Sisi del perdono

Il presidente d’Egitto Abdel Sisi si fa buonista e lancia una campagna del perdono per 82 reclusi. Assume toni magnanimi verso qualche nome noto, come lo studioso islamico El-Behery, che era stato bacchettato dagli esperti dell’Università Al-Ahzar per le sue idee su riforme dell’Islam definite da costoro un “insulto alla religione”. Per questo aveva subìto la sospensione del programma televisivo ed era stato condannato dalla Corte Suprema a cinque anni di reclusione. La pena veniva poi ridotta a un anno nel dicembre 2015. A poco più d’un mese dalla scarcerazione giunge il “beau geste” del generale che nella veste di padre buono e comprensivo intercede con la grazia presidenziale, per lui e anche per qualche attivista che aveva sfidato la “legge di protesta” che vieta assembramenti superiori a tre persone per strada. Ovviamente raduni per ragioni politiche, altrimenti le caotiche vie di Cairo, Alessandria e di tante medie città  iper popolate e super trafficate finirebbero coi loro cittadini e ambulanti tutte sotto accusa. Ad accompagnare fuori di cella i detenuti c’è l’articolo 155 della Costituzione che consente al primo cittadino la facoltà d’indulgere verso i condannati.
Tutto ciò viene rispolverato da Sisi in un momento in cui i rapporti internazionali dell’Egitto vivono il peso dei sospetti sulle implicazioni del regime nei confronti di tre anni intensissimi di repressione. L’oppressione e l’inosservanza di diritti civili hanno avuto eco non secondarie in casi clamorosi. Uno a noi notissimo è l’omicidio del ricercatore Giulio Regeni, su cui pesa la palese omertà degli apparati di Stato oltreché le dirette responsabilità di strettissimi collaboratori del presidente come il ministro dell’Interno Ghaffar. Assassini e insabbiatori sono tuttora difesi dai governanti del Cairo che hanno prodotto agli omologhi di Roma decine di confuse illazioni dal palese sapore del depistaggio, ma nessun indizio  concreto. Irritata e disillusa la famiglia Regeni chiede a entrambi i poteri una verità che non si vuol produrre, così da tenere lontano qualsiasi orizzonte di giustizia. Tale panorama non ha impedito all’Egitto di continuare a ricevere fondi d’investimento: la comunità internazionale, che pur pratica embarghi economici per ragioni d’interesse politico, resta in ogni latitudine quasi sempre sorda a motivazioni legate a diritti umani e crimini di guerra.

Eppure ultimamente il Cairo valuta più attentamente i rapporti di quella diplomazia dell’apparenza, puntando sulla sostanza di metodi e obiettivi repressivi. Forse, a meno che non scoppino nuove ondate di protesta e sebbene un dubbio resti data la rozzezza di certi apparati dei mukhabarat, ci si orienta a colpire non più in maniera massiccia e generalizzata l’opposizione politica. Per presente e futuro si scelgono i soggetti su cui far pesare il pugno di ferro. Nel comitato dei prigionieri, che nelle scorse settimane ha discusso tramite un organo semigovernativo (Consiglio Nazionale per i diritti), compaiono un membro del Free Egyptians Party, El-Ghazaly, uno scrittore, El-Houfy, un ex parlamentare, El-Kholy, ma nessun esponente della Fratellanza Musulmana. Dei molti giornalisti incarcerati viene proposto il perdono a un fotografo, Ali Salah, detenuto dal 2013 e sentenziato con tre anni di reclusione. Insomma la mascherata del buon Sisi coinvolge oppositori morbidi e quasi tutti alla scadenza della pena. Una bella operazione di propaganda che fa bene ai suoi rapporti col mondo. Mentre decine di migliaia restano seppelliti a Tora. E la verità su Regeni è più nascosta di qualsiasi tomba faraonica. 

mercoledì 16 novembre 2016

Presidenzialismo turco, la via nazionalista all’islamismo

Dopo le strette di mano si muovono le carte fra il presidente che rincorre il presidenzialismo e il lupo grigio che accetta di sostenerlo per non sparire. Sono le bozze della riforma costituzionale che i giuristi di Erdoğan anticipano al leader nazionalista Bahçeli, prima di presentarle in Parlamento per l’approvazione. Lì dovranno incamerare i voti dei deputati dell’Mhp per poter far decollare il progetto verso il referendum popolare. Tempi previsti: due mesi per il voto nel Meclis, cinque per le urne di popolo. Il flirt fra i due capi, impensabile nei mesi scorsi, è maturato alla luce del precipitare degli eventi, soprattutto a seguito del tentato golpe di luglio. Quel passo ha totalmente messo a nudo la spaccatura dell’Islam politico turco che, nella lotta per il potere, non ha risparmiato mosse estreme come quella del colpo di stato e delle scudisciate repressive. E quando entrano in scena i metodi forti la destra kemalista ha un irrefrenabile sussulto empatico: sente profumo di galera e d’ogni coercizione praticabile. E’ come risucchiata nel primitivo richiamo del sangue che ben conosce per averlo teorizzato e praticato. Ed è questo il cemento che oggi unisce bahçeliani ed erdoğaniani: poter schiacciare l’attivismo antagonista e libertario, le pericolose minoranze che non accettano la supremazia turca, la gioventù libertaria multietnica dei grandi centri urbani e anche tutto quel progressismo che ha costruito enclavi nei media e nella produzione culturale d’ogni genere.
Schiacciare gli islamisti inseriti negli apparati statali è per i lupi grigi un ritorno al passato, mentre per l’Akp rappresenta un necessario presente. Una tattica la mette in atto lo stesso Bahçeli che non ama Erdoğan, e dovrebbe temerlo perché sa di che pasta è fatto. Mettergli a disposizione 40 voti rappresenta per le future elezioni politiche, foriere di bipolarismo e fors’anche di bipartitismo, un azzardato regalo senza ritorno. I due blocchi saranno pro e contro Erdoğan, e si salveranno i pesci più grossi: islamisti e repubblicani. Eppure Bahçeli proprio di fronte al rischio di sparizione sceglie d’offrire sponda al presidente, sperando non tanto nella nicchietta dell’autoconservazione parlamentare, ma in una trasformazione antropologica dell’Islam interno. Quest’ultimo oggi accantonerebbe un po’ l’identità della moschea, simbolo anche dei comuni nemici fethullaçi, ritrovandola in quelle piazze che hanno respinto i traditori, cavalcando dunque il sentimento nazionalista e l’orgoglio turco. Insomma il vecchio lupo, incalzato nell’Mhp dalle contestazioni della Akşener, decide di giocare alla pari col capobranco forte e in voga. La logica dà come soluzione più che scontata un inglobamento dei nazionalisti in campo islamico, ma la novità che traspare è quella di due mondi che si contaminano. Ne scaturisce un fronte ultraconservatore islamico, se non direttamente fascista, con cui l’altra Turchia dovrà fare i conti. Un pezzo di quest’altra Turchia, l’unica che probabilmente sarà organizzata in opposizione così da poter sdoganare uno “scenario pluralista”, disprezza il presidenzialismo, ma non sa come opporglisi. E’ il kemalismo repubblicano che con Kılıçdaroğlu si lamenta delle strette repressive però afferma che “non c’è pericolo d’un serio golpe”.
Mentre gli stessi organi d’informazione di quest’area vengono puntualmente dissanguati (lo scorso fine settimana oltre alla dozzina di giornalisti anche l’editore di Cumhuriyet, Akin Atalay, è stato fermato all’aeroporto di Istanbul e condotto in carcere) non s’intravede un limite alla criminalizzazione di chi diversifica valutazioni e pensieri dalla linea di condotta del governo. In questo cupo clima, che giustifica tutto col bisogno della sicurezza nazionale e che solo pochi spiriti rimasti in libertà definiscono di caccia alle streghe, il Parlamento si prepara a votare la riforma. Se non dovesse approvarla, ipotesi inimmaginabile per il consenso di cui gode Erdoğan e il controllo che ha sui deputati, il presidente potrà porre il veto alla decisione e rilanciarla per cercare una maggioranza qualificata. Uno dei temi che molto appassiona i politologi turchi riguarda una possibile incriminazione del presidente non per responsabilità politiche, ma per crimini. Una simile proposta era stata presentata in Parlamento proprio dall’Akp ed è in fase di elaborazione da parte del Comitato di Conciliazione Costituzionale, quest’ultimo può chiedere all’Assemblea dei deputati di pronunciarsi con una percentuale di 3/4. La decisione finale spetterà alla Corte Costituzionale che pronuncerà la sentenza. Un presidente colpevole dovrebbe finire in prigione. Ma dei crimini ipotizzati non c’è un esempio che parla di diritti civili. Di giudici - costituzionali o meno - pronti a puntare il dito sull’establishment non se ne vede uno. Parecchi sono finiti in galera, incriminati per “terrorismo Fetö”.

venerdì 11 novembre 2016

Afghanistan: avviso bomba per le truppe tedesche

Quattro morti, centoventi di feriti, come al solito qualcuno grave che non ce la farà a vedere altri soli. Sono le conseguenze dell’attentato compiuto ieri con un camion-bomba da un commando talebano presso il consolato tedesco a Mazar-i Sharif. Attentato immediatamente rivendicato con tanto di motivazione: una vendetta per i bombardamenti statunitensi compiuti su villaggi nella provincia di Kunduz che avevano ucciso 32 civili. Operazione ammessa dallo stesso comando americano che ha aperto l’inchiesta di prammatica per comprendere le modalità “dell’errore”. Insomma uno scenario che si ripete stancamente, dove cambia solo, aumentando, il numero degli afghani innocenti che perdono la vita. Certo anche per le reazioni talebane che hanno fatto segnare nel 2015 undicimila fra morti e feriti civili, l’esatto doppio dei militari e poliziotti afghani colpiti dalla guerriglia.  Mentre lo stillicidio continua, non si comprende come proseguirà la missione Nato, che con il Resolute Support vede sul terreno poco più di 13.000 soldati. Il sostegno maggiore alla controguerriglia viene dalle nove basi aeree da cui partono voli di caccia per bombardamenti mirati a seminare panico e morte, come dimostra l’ennesimo “errore” citato.
Più efficaci i colpi condotti coi droni che mirano a gruppi selezionati, fra cui talvolta s’eliminano leader, com’è accaduto nel maggio scorso a Mansour, primo sostituto del mullah Omar, poi rimpiazzato da Akhundzada. Ciò che, ormai da oltre un triennio, non accade è un’adeguata preparazione di truppe afghane (il reclutamento ha contato fino a 350.000 uomini); l’esercito locale che avrebbe dovuto sostituire la massa delle truppe Nato ritiratesi fra il 2013 e 2014 (c’erano fino a 100mila marines). Nonostante la profusione di fiumi di dollari, esperti, insegnanti d’ogni tipo, anche della più sofisticata e canagliesca controguerriglia provenienti da Langley, nei momenti topici l’Afghan National Security Forces ha dimostrato inconsistenza e inaffidabilità. Così nelle stanze della Casa Bianca e del Pentagono, gestione Obama, s’è rifatta avanti l’ipotesi dei colloqui coi talib. E l’esecutore di Kabul, il presidente Ghani, tramite il premier Abdullah ha agganciato uno degli immarcescibili verso signori della guerra, Gulbuddin Hekmatyar, per un ruolo istituzionale di ambasceria verso i clan dei turbanti. Se un tavolo di trattativa si dovesse riaprire e non è detto, perché tanti resistenti hanno chiaro il quadro della propria forza e dell’inconsistenza delle truppe governative, la sicura contropartita sarebbe l’abbandono totale del Paese da parte degli occidentali, basi aeree comprese.
Un passo che nessun generale a stelle e strisce si sente di accettare, non solo perché risulterebbe una disfatta peggiore di quella vietnamita, ma perché sfalderebbe il sistema di controllo asiatico che gli Stati Uniti hanno creato nei quindici anni d’occupazione. Da gennaio bisognerà vedere la volontà del neo presidente Trump e del suo staff neocon, ma ogni dipartita sarebbe un controsenso geostrategico. Se tutto dovesse restare inalterato, ecco che gli avamposti dei presidi Nato continueranno a essere obiettivi per ulteriori agguati. In quest’occasione sono presi di mira i tedeschi, che hanno 980 militi nei fortini di Mazar-i-Sharif, una delle province settentrionali. Oltre ai 6.800 marines dislocati a sud (Kandahar), est (Laghman) e nella capitale, il contingente più numeroso è il nostro, con 945 unità piazzate a ovest (Herat). Attualmente è impegnata la brigata Pinerolo, giunta nel maggio scorso e comandata dal generale Gianpaolo Mirra. Nel computo dei militari impiegati dalla Nato seguono: Romania (588), Turchia (523), Gran Bretagna (450), Repubblica Ceca (218), i Paesi coinvolti sono 39. Oltre al rischio attentati, esistono altri elementi di logoramento per gli occupanti, che se non l’incolumità rischaino la salute. Qualche militare rientrato in Italia è risultato affetto da filariosi, fastidiosa e pericolosa infezione parassitaria.