mercoledì 30 marzo 2016

Pakistan, il gigante islamico fra famiglie, militari, taliban

Dagli sgangherati slum di Lahore, ai grattacieli di Karachi, dove vivono in venti milioni e dove fabbriche d’alta tecnologia si mescolano a ghetti, il Pakistan è un coacervo di contraddizioni. Economia in tenuta in una fase di crisi locali e mondiali, a fronte di un’inquietante instabilità politica, attacchi terroristici e in contemporanea corruzione, assenza di servizi sociali, povertà e mancata redistribuzione della ricchezza. Nella nazione che ha la più alta percentuale di adolescenti al mondo sotto i 15 anni, la questione delle minoranze religiose perseguitate è solo uno dei tanti problemi, peraltro recente e legato al fronte interno aperto dal fondamentalismo talebano contro cristiani e altri musulmani (ahmadi o sciiti). Cinque anni fa centinaia di hazara afghani, sono stati vittime di vere campagne d’odio lanciate dai deobandi nel Belucistan. C’è poi la violenza delle mafie criminali con rapimenti, estorsioni a suon di torture e raffiche di kalashnikov. Ma all’Occidente non fa impressione, somiglia tanto ai suoi mali, invece le stragi confessionali attirano l’attenzione. Rappresentano un capitolo della linea del terrore e del caos attuata dal jihadismo contro i due poteri forti della nazione: i clan della politica e i militari.
Clan economico-politici - L’attuale premier Nawaz Sharif, in barba a qualsivoglia conflitto d’interessi, è anche il leader di Sharif Group, una delle maggiori compagnìe industriali pakistane retta dalla famiglia. Gli Sharif (c’è anche il fratello Shahbaz governatore del popolatissimo Punjab) investono da anni nel settore agricolo dove vantano affari per oltre 100 miliardi di dollari, un terzo degli introiti globali del gruppo. Il capostipite e padre Muhammad aveva avviato l’attività verso la fine degli anni Trenta occupandosi di fusione dell’acciaio con l’Ittefaq Ltd. L’acciaio ha continuato a essere un settore portante del business familiare, diventando industria vera e propria, tanto che col tempo il gruppo s’è specializzato nella creazione di macchinari e istallazione dei medesimi nelle fabbriche. Un gran numero di zuccherifici sparsi sul territorio sono frutto dell’impresa Sharif; già nel 1991 un anziano Muhammad aveva guardato lontano, fondando la Ramazon Sugar che gestisce una colossale raffineria, una delle maggiori del Paese. Mister Nawaz, 67 anni, è al terzo mandato da primo ministro. Iniziò nel 1990, proponendosi come alternativa civile al clan dei Bhutto.
Élite e generali - Ha ripreso la guida del governo nel 2013, dopo l’ennesima fase convulsa che aveva visto il civile Gillani incappare in un processo di vilipendio per aver coperto la corruzione del presidente Zardari. E sì che in quel frangente la nazione tentava di emanciparsi dal peso della casta militare. Un’ombra che ha sempre percorso la storia recente pakistana e ha visto l’inquietante presenza dell’esercito e dei suoi generali golpisti, da Zia-ul Haq (nel 1977) a Musharraf (nel 1999), gente che in oltre sessant’anni di stato nazionale ha avuto le redini del potere nelle proprie mani per la metà del tempo. Un esercito e un apparato di Servizi segreti (Inter Service Intelligence) assistiti tecnicamente e supportati dalla politica estera statunitense, che nel cuore dell’Asia si barcamenava fra il contrasto alla Russia sovietica e all’influenza cinese, quest’ultime vicine e poi divise da interessi geostrategici e di flussi economici. Questioni riemerse negli ultimi tempi con estremo vigore. Quell’esercito, finanziato ogni anno con vagonate di dollari (ultimamente dai 3 ai 4 miliardi) gestisce ben 100 testate nucleari, mentre l’Isi per ingerenze interne, lotte leaderistiche, doppiochismo è una variabile fuori controllo e, dovendosi occupare di sicurezza, la sua posizione risulta scottante.
Manìe e follìe - Proprio la Cia, regina d’ogni mossa spionistica mondiale, da tempo considera l’alleato pakistano un soggetto poco affidabile. Il Paese, cresciuto demograficamente a dismisura (sfiora i 190 milioni di abitanti e conta la sesta popolazione del globo), nell’incrocio dei contrasti che lo pongono in antinomia con l’India, a sua volta contrapposta al gigante cinese, mira a ritagliarsi un ruolo di potenza regionale per l’intero Medioriente. Una supremazia contesa con Iran, Turchia, Arabia Saudita. Però si trascina anche contrasti tutt’altro che marginali derivati dalla storia post coloniale, ad esempio sulla cosiddetta Linea Durand, un confine stabilito con accordi di fine Ottocento fra il rappresentante del Raj britannico, che gestiva il territorio pakistano, e l’emiro afghano Khan. Questa demarcazione, che separò la corposa etnìa pashtun, è tuttora zona contestata, e va a costituire le cosiddette Aree tribali ad amministrazione federale (Fata). Gli afghani ne disconoscono l’appartenenza al Pakistan, sebbene il governo di Islamabad abbia ben poca giurisdizione su quei luoghi controllati da sette agenzie tribali e ampiamente infiltrata da milizie talebane.
La casa talebana - Ahmed Rashid, che quell’area ha studiato per meglio comprendere le dinamiche dei mille intrecci della politica pakistana, racconta come la metà degli abitanti delle Fata svolge attività nei territori attigui, mostrando tassi di alfabetizzazione bassissimi (15% per gli uomini, 3% per le donne) e orientamenti marcati da un ferreo tradizionalismo. E’ lì che la rete di Haqqani ha accresciuto la sua forza, lì ha costruito la fabbrica dei martiri suicidi, giovani e adolescenti che s’immolano per la causa. Questo stesso network ha conosciuto scissioni con la nascita dei Tehreek-e Taliban, diventati autori di stragi impietose contro ragazzi, come fecero nella scuola di Peshawar e come hanno fatto domenica nel parco giochi di Lahore. Nelle Fata s’addestrano foreign fighters stranieri, mediorientali e occidentali, di recente ha trovato riparo il movimento islamico uzbeko che preoccupa la Cina. Ma in varie località delle Fata agiscono pure agenti dell’Isi che lavorano per sé e per la Cia. Infiltrano le file talebane oppure intessono con esse accordi di circostanza per colpire politici e militari pakistani, ex amici diventati nemici, con un disinibito gioco delle parti. Iniziative che durano da un decennio, esaltate nella fase di conflitto acceso su un doppio fronte, indiano (2007-2009) e afghano (2010-2012).

Pashtunistan - Una lotta segnata da attentati come quelli di Mumbai e Kabul su svariati obiettivi, su cui pesano i sospetti di collaborazione fra jihadisti e Intelligence pakistana. Perché uno degli obiettivi non scritti di alcuni politici pakistani, in divisa o in abiti civili, è chiudere gli occhi verso il disegno che un pezzo della famiglia talebana sostiene da tempo: allargare le Fata a danno del vicino Afghanistan, aggregando quelle province del confine orientale su cui gli inconsistenti governi di Kabul non riescono a praticare nessun controllo militare e amministrativo. Un disegno cui ovviamente s’oppongono gli Stati Uniti, sostenitori principi, degli statisti fantoccio messi alla guida del Paese; più la restante parte dei signori della guerra afghani che avevano dato origine all’Alleanza del Nord e i loro epigoni. Insomma gli islamici tajiki come Massoud e Fahim, uzbeki come Dostum. Fra quelli come i primi passati a miglior vita e chi, come il vicepresidente afghano è tuttora sulla scena, si dipana una ferrea opposizione ai talebani sponsorizzati dall’infido vicino. Una partita apertissima che sferza in continuazione certa leadership pakistana (Sharif è uno di questi) che per affarismo vorrebbe scenari tranquilli. Per metterla  in difficoltà, e sapendo di trovare facile presa sulla popolazione musulmana, i Tehreek innescano anche la caccia all’infedele, non importa se si tratta di bambini. Dicono: “Sotto i colpi dei droni crepano tanti bambini islamici”, un refrain che tutt’oggi non trova smentite.  

lunedì 28 marzo 2016

Pakistan, dove la guerra di religione è realtà

Il massacro di bambini nel Parco giochi Gulshan-e Iqbal di Lahore, opera dei talebani del ceppo Tehreek, Jamaat-ul-Ahrar (un tempo scissionisti ora forse riconciliati, comunque deobandi che spingono per un’aperta guerra religiosa) offre una sponda stragista all’aperto conflitto che nella stessa giornata di domenica ha visto scontri feroci nella zona proibita della capitale pakistana. Lì si sono riunite fra le dieci e le ventimila persone, hanno incendiato la stazione metro di Rawalpindi, chiedendo al Parlamento l’applicazione della shari’a. Domenica si concludeva il periodo di lutto dall’esecuzione di Mumtaz Qadri, avvenuta per impiccagione il 29 febbraio scorso. E’ bene conoscere quest’episodio per comprendere il clima che vive il popolatissimo Paese (circa 200 milioni di abitanti, erano 60 milioni nel 1970), vera mina vagante del grande Medio Oriente, dotato per giunta dell’atomica. Qadri era un agente di polizia entrato nei reparti speciali e finito fra le guardie del corpo che preservano, o tentano di farlo, la vita di personalità in vista, impegnate sulla scena politica. Lui doveva proteggere Salmaan Teseer, governatore del turbolento Punjab. Quest’ultimo aveva preso pubblica posizione a favore d’una donna cristiana, Asia Bibi, condannata per blasfemia, e s’era speso  contro una legge considerata estrema e faziosa.
Sulla vicenda di Asia sviluppatasi fra il 2009, quando lei aveva dibattuto pubblicamente con donne islamiche, e il 2010, quando una corte sentenziò la sua condanna a morte, s’erano mosse alte sfere politiche. C’erano state raccolte di firme, petizioni per la sospensione della sentenza capitale, appelli del papa Benedetto XVI. Erano anche seguite le esecuzioni per attentato del ministro cristiano Shahbaz Bhatti e del citato governatore del Punjab, quest’ultimo per mano della guardia del corpo Qadri che nel 2011 gli scaricò addosso 28 colpi della machine pistol d’ordinanza. Durante i funerali del poliziotto-assassino, colpito dal verdetto capitale a Rawalpindi, s’è radunata una folla di centomila persone che chiedevano vendetta contro le minoranze cristiane, considerate causa d’una destabilizzazione socio-confessionale. ‘I’m Qadri’ gridava la massa dei manifestanti che esaltava la propria contrapposizione a un governo accusato di svilire le norme islamiche per “proteggere oltremodo i cristiani”. In interviste riprese anche dalla tv nazionale, semplici cittadini sostenevano che “l’Islam è una religione di armonia e pace, ma non ammette d’essere insultata da infedeli e calpestata da una Corte”. E un giorno via l’altro quest’astio, che monta da anni, è cresciuto.

Anche perché le minoranze religiose (3 milioni d’indù, 2.8 di cristiani, quindi sikh, buddisti, ebrei, parsi ma in quote davvero esigue di fronte ai 180 milioni d’islamici, all’80% sunniti) rifuggono l’accusa di blasfemìa, supportate da gruppi internazionali per i diritti umani. Dal canto loro i musulmani ritengono che il governo non può infischiarsene di quella legge in una nazione islamica, ribadendo che la Costituzione già protegge le minoranze. Insomma un dialogo fra sordi, diventato sempre più infuocato. Il deobandismo talebano s’inserisce in questo clima e cerca spazi, sfruttando i vuoti creati dalla linea ondivaga dello Sharif di governo, il premier Nawaz di tendenze wahhabite ma considerato un moderato dai deobandi, e contro lo Sharif della forza, il generale Raheel, solo omonimo del primo ministro e da militare militarista, deciso a stroncare ogni rigurgito terrorista. Formato nell’accademia militare di Lahore, dove le consulenze più raffinate provengono direttamente dalla Us Army e dalla Cia, è il perfetto uomo d’ordine che ha giurato di stroncare i Tehreek-e Taliban, puntando a colpirli nelle loro raccheforti, i territori delle Fata. Lì esercito e aviazione pakistani, più i dromi statunitensi, hanno fatto stragi di civili. Le stragi di cui nessun media parla. Le vendette sono state altrettanto sanguinose e odiose, colpendo i figli dei militari, come accadde nel dicembre 2014 nella scuola di Peshawar. Massacri su massacri, in un orrore deciso a proseguire.

domenica 27 marzo 2016

Pasolini, la solitudine fra i senza pietà

Dalla seconda macchina, Giulietta anch'essa, per frantumare il soffio vitale del corpo tramortito di Pasolini, fase tragica e terminale d’un pestaggio attuato sembrerebbe più per punirlo che per assassinarlo, la macchinazione ritessuta dall’omonimo film di Davide Grieco introduce questa variante al mistero meno misterioso fra le regìe occulte della storia d’Italia. Il Pasolini che doveva morire era già stato narrato sul grande schermo da Marco Tullio Giordana (Pasolini, un delitto italiano), le due pellicole danno corpo a quei sospetti rincorsi da qualche giornalista dell’epoca (Furio Colombo) e taciuti dalla maggioranza dei media e soprattutto da chi era preposto alle indagini (poliziotti e magistrati). Certo, teorie senza prove certe. Tranne le confessioni indotte e, nell’ipotesi di Grieco, recitate seppur maldestramente da quel bugiardo naturale che è Pino Pelosi, omicida o capro espiatorio dietro il quale s’è annidato il complotto, piccolo o grande che fosse, per eliminare un personaggio ingombrante per i Palazzi del potere. Un sistema che il regista-poeta attaccava nel triennio 1972-75 dalle stesse pagine del Corriere della Sera, messegli a disposizione da quel direttore naif e ‘fuori controllo’ quale fu Piero Ottone.
Invece talune prove, come il sangue che imbrattava il tettuccio della Giulietta di Pasolini che probabilmente non era solo suo né tantomeno di Pelosi, si sa che vennero trascurate per giorni e lavate dalla pioggia senza che si effettuassero gli accertamenti del caso. E pure nell’area del delitto, dove orme, tracce, cicche di sigarette fumate e forse altro finirono calpestate e cancellate da centinaia di suole di chi accorreva sullo sterrato dell’Idroscalo dove la mattina del 2 novembre veniva rinvenuto il cadavere straziato. Sappiamo anche che la teoria del complotto è stata a lungo osteggiata da alcuni parenti e amici del poeta. A cominciare dal cugino Naldini e dal critico Vigorelli, entrambi omosessuali, che puntavano il dito contro la deriva, a loro dire, sodomasochista intrapresa da Pier Paolo con incontri casuali ad alto rischio che potevano scivolare in notti brave e avventure violente. Rimproverandogli tutto ciò, alcuni parenti e conoscenti hanno opposto dubbi alla ricostruzione politica del delitto. Che, comunque, resta, soprattutto per l’intreccio della vicenda Cefis-P1 e P2, ricomposte come un puzzle nel frammentato e pur letterario Petrolio. Sull’enigmatico tema riportiamo una riflessione scritta tempo addietro   (http://www.pierpaolopasolini.eu/saggistica_EnricoCampofreda_ipotesi-su-ppp.htm) di cui, pur fra manipolazioni e depistaggi, posteri abbiamo  potuto constatare la veridicità.

Interessanti due spunti offerti dal lavoro di Grieco, che risaltano nella scena dell’intervista concessa a un ritardatario, ma meditativo giornalista francese. La solitudine finale in cui il poeta versa per carattere, scelte, condizioni oggettive ormai cadenzate dalle riflessioni taglienti su politica, società, sistema, spesso trasformate in invettive anti ortodosse, corsare e luterane. Considerazioni controcorrente, scomodissime per il potere e quella sinistra alla quale rivendicava con orgoglio d’appartenere, ma che lo considerava un corpo estraneo, anche per ragioni di buoncostume e opportunità. Attorno ha pochissime presenze, nessun politico, pochi editori, che secondo i casi lo blandiscono e respingono, la lucida rudezza e l’assenza di diplomazia lo isolano fra gli stessi intellettuali. Così Pasolini diventa un bersaglio facile per chi ripaga con l’odio ideologico il suo disprezzo culturale. I nemici-assassini possono utilizzare il filo del sesso che lo lega all’ambiente praticamente scomparso del sottoproletariato. Ragazzi di vitaccia, più che di vita, soggetti senz’anima diversi da quelli conosciuti vent’anni prima in una città feroce, ma allegra e passionale. Chi li rimpiazza negli anfratti della vendita dei corpi che il poeta non ha mai smesso di frequentare, combattuto fra un iperrealismo quasi distruttivo e un mai sepolto sentimentalismo, paiono cinici alieni. Incapaci di respingere qualsiasi manipolazione di chi per interessi consumistici, ideologia, voglia di dominio può trasformarli in assassini, consapevoli o meno. Individui senza pietà in una società spietata.

venerdì 25 marzo 2016

Regeni, sessanta giorni di balle

Stavolta le prove ci sono. Nelle fandonie che ricostruiscono l’omicidio Regeni l’Intelligence egiziana - che due mesi fa ha prelevato, trattenuto, torturato, interrogato, assassinato il ricercatore ed è in possesso dei suoi documenti - li infila in una sacca (rossa) che viene ritrovata in un appartamento. Poi mitraglia un’auto ‘sospetta’ su cui viaggiavano micro criminali locali, gente del Delta del Nilo (Sharqiyya), indicati come i killer del giovane studioso. Li uccide, così da non avere testimonianze scomode. Poi gira la notizia alla testata filogovernativa El Watan, che prima la conferma quindi la smentisce. Fra le informazioni talune legate alle prove: uno dei crivellati viveva nell’appartamento dov’è stata ritrovata la sacca coi documenti. E' la trama con cui il regime rilancia la teoria del rapimento attuato da criminali comuni, terminato con un omicidio. Nel via vai dell’informazione disinformante Al-Ahram (anch’esso irregimentato dalla linea Sisi) insinua qualche dubbio sulla pista criminale. Così nel gioco dell’oca delle bugie di Stato, assistiamo al ritorno su una delle caselle che inizialmente aprì il ventaglio delle ipotesi sul delitto. Ipotesi che si rifà strada e contemporaneamente traballa.
Segnale che ribadisce la lotta intestina al Mukhabarat, sostengono alcuni, o più verosimilmente mostra l'ennesima goffaggine con cui Al Sisi conduce il doppio passo della sua repressione: attuare, nonostante la faccia del buon padre di famiglia, cose terribili, ordinando la scomparsa di oppositori e disturbatori. E mascherarlo con cento e più trame. Tutte inverosimili ormai anche agli occhi degli inquirenti venuti da Roma, che nei giorni trascorsi nella capitale egiziana hanno toccato con mano quanta polvere del deserto il regime stia spargendo sulla ricerca della verità, oltre che sul cadavere martoriato del nostro connazionale. Sisi s'arrabbatta in ogni modo, anche ricercando la benevolenza italiana. Gli ha prestato il fianco il neo direttore de La Repubblica Mario Calabresi con un’intervista che non ha fatto onore né a lui né alla professione giornalistica (cfr. http://enricocampofreda.blogspot.it/2016/03/omicidio-regeni-al-sisi-sussurri-e-grida.html). Ora assistiamo alla riproposizione d’un movente (il sequestro criminale) al quale s’aggiungono tracce inconfutabili (i documenti di Regeni che chi l'ha sequestrato ovviamente possedeva) e, guarda caso, l’eliminazione degli ipotetici assassini. In tal modo il cerchio si chiude e diventa quadrato. Nella testa dei veri assassini e dei mandanti tutto sembra tornare. E’ bene che chi ama la giustizia e l’informazione rigetti simili inganni. Dovrebbero ribadirlo con decisione i nostri magistrati e i nostri politici. Lo faranno?

giovedì 24 marzo 2016

L’Intelligence buona che ci salverà

Non le bombe, che usano loro, i terroristi. Le nostre bombe non li neutralizzeranno perché dovremmo tempestare di fuoco i loro quartieri che sono nelle nostre città. Ogni angolo d’Occidente ha la sua Molenbeek e non saranno gli Orbán e i Salvini a cancellarle. Le nostre bombe, sganciate da caccia e droni, colpiscono altrove. Magari neppure i parenti dei miliziani maghrebino-belgi, ma gli iracheni e gli afghani sì. Anche quest’intervento, dunque, non serve, lo dimostrano quindici anni di ‘guerra al terrorismo’ che hanno solo fatto lievitare il terrore. Da Oriente a Occidente. E’ vero che terrorismo sarebbe cresciuto per proprie strategie, però la politica imperialista lo concima bene. E lo arma e lo finanzia, con e senza gli alleati sunniti. Egualmente non bastano le forze di sicurezza che in Belgio, come in Afghanistan, non funzionano affatto. Siamo d’accordo con Giuliana Sgrena che, nell’odierno editoriale su Il Manifesto, medita sul tema e afferma un’altra verità quando dice che occorre una conoscenza approfondita dell’ideologia di quel wahhabismo che costruisce martiri, fabbricandone illusioni e seminando morte. E allora: “Chi può supplire a questa carenza di conoscenze interne a quel mondo? - si chiede Sgrena.
E si risponde: “Solo un’intelligence che abbia come obiettivo quello di raccogliere informazioni non per giustificare un intervento militare o compiacere un governante ma per essere al servizio della sicurezza dei cittadini e dello stato”. E noi ci chiediamo e le chiediamo: esiste? Lei ricorda (come non potrebbe) la sua personale vicenda e il sacrificio di chi le salvò la vita, il Nicola Calipari che “è stato fondamentale per la mia salvezza e quella di altri ostaggi, perché conosceva il terreno, sapeva come e con chi trattare, era consapevole che senza la conoscenza dell’intelligence non ci può essere una strategia politica”. Tutto vero. Ma oltre quel tragico evento, quali strategie aveva potuto attuare Calipari per indirizzare diversamente il corso di quella storia? Alla fine ne è rimasto vittima, ucciso dal fuoco “amico” di chi comunque decide la sorte dell’esistenza di tutti. Fu solo un errore o una mancanza di coordinamento fra apparati? Inutile perdersi nei meandri di segreti che non sapremo mai, oppure sì: perché sulla vicenda è subentrato il classico segreto di Stato? Peccheremo forse di ruvida ingenuità continuando a pensare, come la parte politica cui Sgrena appartiene, che i nostri Servizi interni e quelli internazionali non puntino alla sicurezza dei cittadini e in tanti casi neppure dei propri addetti.
Non solo Calipari ha terminato anzitempo i suoi giorni. Simile sorte, certo in contesti differenti, hanno vissuto personaggi se non agenti dell’Intelligence,  comunque coinvolti con tanto di divisa e gradi in segreti di Stato come la strage di Ustica. Gli apparati di sicurezza potranno anche reclutare, formare, utilizzare agenti galantuomini della stoffa di Calipari, ma costoro dovranno sempre render conto a comandi, governi, partiti che li utilizzano in tante occasioni per strategie né democratiche né libertarie. Perché questi piani rispondono a progetti decisamente più ampi, a linee di sicurezza per l’Occidente tuttora dettate dalla Nato, che, la Sgrena e Il Manifesto sanno, si tracciano a Washington e a Langley. Questo insegna la Storia, lontana e recente. E se il conflitto, o guerra asimmetrica col terrore, prevede anche altri terreni su cui l’Europa è coinvolta, come la questione dei profughi, è sempre la Politica, con la maiuscola, a dettare le danze. A dare le misure di ciò che i “tecnici delle Intelligence” devono o non devono fare. Purtroppo anche gli agenti galantuomini, se pure ci sono, dipendono dalle strategie del Potere.

mercoledì 23 marzo 2016

Le ferite subìte e inferte dall’Europa lacrimosa

Nessuno pensa di speculare sulle lacrime. Quando di mezzo c’è la morte i cuori si straziano come le vite di cui ascoltano o vedono la tragica fine. Oltre l’emozione dettata dall’orrore di scoprire corpi maciullati da esplosioni terroristiche, nei singhiozzi non trattenuti dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Unione Europea - l’italiana Federica Mogherini - c’è la sensibilità femminile e il desiderio di non scivolare nel cinismo. O, peggio, nella rassegnazione di chi enuncia la difesa del genere umano contro la cieca barbarie, ma sa di non avere strumenti per disinnescare un meccanismo perverso. Però di lei, come di altri rappresentanti altissimi per gradi, incarichi, responsabilità che del mondo trattano relazioni internazionali, colpisce la discrasia fra i drammi propri e quelli altrui. Lacrimosi i primi, ordinari o dimenticati gli altri. Quello che ci rinfacciavano gli abitanti di Bourj al-Barajneh, cintura meridionale di Beirut, dopo l’attentato subìto il 12 novembre scorso (41 morti, oltre 200 feriti) per mano di kamikaze dell’Isis. Se ne parlò, relativamente, solo perché il giorno seguente a Parigi altri miliziani del Daesh diedero vita alla mattanza nei luoghi di ritrovo e svago della jeunesse d’Europe. Morti di serie A e B, dunque.
E non parliamo dei dannati assoluti: quelli che la casta militare, tanto vicina alla politica e al curriculum della stessa Mogherini (membro del German Marshall Fund for the United States) definisce “danni colaterali”. Il buon cuore occidentale lo nega, però lo pratica, come pratica la via della non soluzione delle tante, troppe contraddizioni che fanno da cassa di risonanza alla propaganda del fanatismo islamico. Sappiamo quali sono.  Molte risultano antiche e reiterate: sfruttamento coloniale e imperialista perpetuati per interessi economici, strategici, applicando la forza dell’intervento militare diretto o quello mascherato da “polizia internazionale”, cercando alleanze di comodo, promuovendo governi fantoccio. Insomma la sequela della viscida politica di chi spaccia per democrazia interessi di parte, di lobby, di casta. E’ una realtà che i burocrati di Bruxelles conoscono e difendono, e gli attuali dolenti rappresentanti per scelta volontaria, connivenza, impotenza non riescono a indirizzare verso strade differenti. Quelle che non soffocano i fratelli greci, accolgono i popoli vicini e lontani tormentati da un nemico comune, lo Stato Islamico, foraggiato da partner filoccidentali e armato dalle stesse industrie che versano capitali nelle banche d’Europa.
Nel resoconto riportato dall’odierno intervento dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera Ue, ospitato su La Repubblica si leggono le parole di una sua collega, Kristalina Georgieva: ”Più che spaventata la gente che lavora nelle Istituzioni è smarrita. Nessuno di loro, quando è venuto a lavorare per l’Europa, pensava che si sarebbe trovato in prima linea. Nessuno era preparato a questa tensione, a quest’odio. Avverto nella gente una grande tristezza”. Il sogno di un’Europa pacifica, tollerante, magari un po’ noiosa ma protettiva e solidale, chiosa Mogherini. Fra gli aggettivi menzionati l’unico che possiamo condividere è noioso. Gli altri rappresentano utopie, tutt’altro che vicine da conseguire, visto quel che l’Ue ha infilato negli ultimi mesi sul fronte dei rifugiati. Tollerante? protettiva? solidale? Chiedetelo alle migliaia di corpi ammassati a Idomeni. Pacifica? Certo, grazie alle decine di “missioni di pace” (Afghanistan, Iraq, Libia) sparse per il mondo sotto la direzione di Pentagono e Casa Bianca. Ci chiediamo se le lacrime versate dall’europeo, sia esso politico, burocrate o semplice cittadino, scaturiscano solo dall’odore del proprio sangue. Oppure provengano dalla tardiva constatazione d’una realtà che stride coi “valori” di quell’Occidente che incentiva le incongruenze su cui  chiudiamo occhi e orecchie. Mentre l’odierno terrore, targato Isis, lì recluta la manovalanza che ci uccide.   

martedì 22 marzo 2016

Da Parigi a Bruxelles pronti alla guerra

La stazione metro Maelbeek, il quartier generale della Commissione Europea, la sede del Consiglio d’Europa, l’ufficio regionale delle Nazioni Unite formano un quadrilatero i cui angoli distano poche centinaia di metri l’uno dall’altro. A Bruxelles centro, appena fuori l’Ilot sacré, il cuore del cuore della città simbolo della disunita Europa dell’Unione. Chiunque abbia orchestrato e realizzato gli attentati di stamane, che hanno  pesantemente colpito anche lo scalo aereo di Zaventen, continua a cercare luoghi affollati (stazioni bus e metro) presso palazzi-simbolo, com’è accaduto di recente ad Ankara, dove l’edificio che ospita la centrale della polizia diventava lo schermo su cui proiettare l’esplosione. Luoghi simbolo, comunque non colpiti, perché la morte che deve seminare paura, rapisce la gente negli spazi pubblici, chiusi come la hall dell’aeroporto e la banchina o il vagone del metro. Oppure  aperti: la fermata dei bus, la piazza monumentale di Istanbul. Sangue innocente occidentale ricercato dagli attentatori, siano probabili kamikaze del Daesh o altri jihadisti, oppure sangue yazida e cristiano mediorientale, versato due anni addietro.
Ma anche sangue di altre etnie e confessioni disseminato con centinaia di migliaia di vittime civili nei conflitti locali, i parenti e gli amici degli attuali profughi di isole greche, Idomeni e Calais. Qulle che apertamente dicono: fuggiamo dalla morte! In quest’ultimo caso i macellai non sono solo miliziani neri. Sono  i tanti contendenti di  territori - quello siriano, ad esempio – o i possessori dell’egemonia nelle province afghane e in molte terre dove geopolitica fa rima con dominio. Sangue sparso, dunque, dalle più diverse bandiere. Eserciti, paramilitari, mercenari, predoni che giustificano i propri crimini con quelli del nemico. Un nemico, peraltro, nel tempo addirittura cangiante. Se la guerra palese, che dalle nostre case vediamo solo nelle immagini tv, destabilizza e rende irriconoscibile ogni territorio, devastandolo e abbrutendone la sopravvivenza, la guerra strisciante, che ci può toccare e uccidere, insinua terrore e paranoia. Come quegli angoli di strada infestati dai cecchini, dove si può scamparla o farla finita perché si passa nel momento sbagliato. Nelle nostre città trasformate in obiettivi d’attacco, dove si rischia di più? Sarebbe fobico tracciare mappe del pericolo, che può materializzarsi ovunque e in nessun luogo.

Se la logica dell’attentatore seguirà percorsi simbolici ciascuna capitale, ogni città e finanche paese  potranno individuarne di propri e tracciare le ‘zone rosse’. Ma luoghi dove quotidianamente si consuma il tran-tran del popolo minuto, fatto di trasporti (malmessi), uffici (inefficienti), industrie (sempre più scarse), centri commerciali (sempre più invadenti) e mercati, scuole, ospedali, tutti possono diventare bersaglio. E non parliamo dei simboli civili per eccellenza: il monumento frequentato da turisti, l’affollata via dello shopping, il luogo di culto, il locale di svago. Già scelti dal ‘sistema della bomba e del kalashnikov’ per colpire, dalla Valle delle Regine vent’anni fa a Luxor, a Istikal Caddesi qualche giorno addietro, dalla moschea di Najran nello scorso ottobre, al Bataclan parigino un mese dopo; come un tempo si sceglievano le piazze sindacali: la bresciana della Loggia nel 1974 e sei mesi fa s’è scelta la stazione di Ankara. Il conflitto celato che il jihadismo impone al mondo  occidentale, rendendo insicuri non solo i siti vacanzieri dove fino a ieri ci si recava, ma lo stesso tragitto fra l’abitazione e il posto di lavoro, rappresenta la guerra subdola con cui un certo fondamentalismo del libro risponde al fondamentalismo del capitale e della divisa, seminatore di “missioni di pace”. Dovremmo focalizzarci maggiormente su come nelle guerre palesi, nascoste, mascherate agiscano gli armigeri e i finanziatori, più gli ideologi di un’esistenza armata che ci viene già   spacciata come imprescindibile.