domenica 26 febbraio 2023

Migranti, una morte voluta

 


Tragedia immane” “Profondo dolore sentenziano i farisei del nostro governo per i cinquantanove cadaveri sbattuti dalle onde e strappati a una vita disperata, perché prendere il mare d’inverno in giornate di tempesta significa essere uomini, donne, bambini senza speranze. Il mare davanti alla costa di Crotone veniva quotato forza 7, che il libro dei naviganti definisce mare grosso con onde immense di sei-sette-otto metri. Erano salpati dalla turca Smirne, sembra in centocinquanta, sull’ennesimo barcone della tratta, uno dei tanti, troppi che continuano a partire lungo le rotte mediterranee dell’ottimismo forzato, visto che non c’è altro modo per sfuggire alla galera di quel destino sospeso che è il soggiorno nei campi profughi. Profughi e rifugiati l’Europa democratica non ne vuole. Da anni si fa fare le veci dalla politica turca che le chiede il conto e da quella tribale libica che il conto lo fa pagare ai disgraziati finiti nelle loro grinfie. E’ da quest’angoscia che fugge chi va nell’inferno marino anche d’inverno, non può fare altro. E noi non possiamo capire poiché non conosciamo quello sconforto. I pochi che li vanno a salvare, che almeno ci provano, vedono con gli occhi, toccano con le mani tanta miseria legata stretta al desiderio di sopravvivere. In qualsiasi posto oltre il mare. In qualsiasi luogo fuori dal filo spinato dei lager del Terzo Millennio. Stamane sulla spiaggia di Cutro si potevano raccogliere rottami legnosi, incrociati, sfibrati simili a rami e fronde, e poi cadaveri, tanti cadaveri galleggianti. Pakistani, siriani, afghani. “Si sarebbero potuti salvare” denuncia un poliziotto in pensione che simili tragedie ha già visto, aiutando qualche naufrago della tratta. Stavolta no, perché non hanno voluto, accusa lui. Perché la voglia di morte, non quella scritta dal fato, ma di chi può offrire sponda o levarla, ha deciso così. La conta dei migranti morti prosegue, sui banchi di Bruxelles le lacrime riunite dei coccodrilli d’Europa.   

sabato 25 febbraio 2023

Egitto, una tavola sempre più ristretta

 


Contatti egiziani raccontano che la dieta più sofisticata -  naturalmente è esclusa l’élite militare e degli affaristi pro-regime che non hanno problemi a rifornirsi fuori dai confini nazionali - passa per pietanze a base di pollo. Chi può alleva direttamente l’animale da cortile o se lo fa arrivare in dispensa macellato halal. Ma l’orizzonte alimentare del Paese risulta sempre più oscuro. I prezzi di qualsiasi derrata sono raddoppiati, mentre i salari dimezzano e le banche limitano il ritiro di denaro. Per quest’ultima voce gli svantaggiati appartengono alla categoria dei correntisti, cioè i dipendenti statali e chi si rapporta alla filiera lavorativa delle onnipresenti Forze Armate. Qualche analista lancia il paragone con uno Stato evanescente qual è diventato il Libano, con la differenza che quest’ultimo risulta un’inezia rispetto al grande Paese arabo. Dar da mangiare a una popolazione venticinque volte più numerosa rappresenta un busillis non da poco.  La moneta egiziana (lira o sterlina che dir si voglia) si è svalutata di circa un terzo solo negli ultimi quattro mesi e l'inflazione galoppa al 20%. I problemi economici del Cairo derivano da vizi interni mai risolti (corruzione e pessima gestione dell’economia) cui si sono aggiunti questioni esterne: pandemia da Covid-19 e guerra in Ucraina. I due anni di blocco del turismo hanno avuto pesantissime ricadute su uno dei settori un tempo prolifici per le entrate statali, egualmente la crisi del commercio dei cereali dal Mar Nero (80% del mercato) ha messo in ginocchio  l’approvvigionamento di un elemento base che nutre ogni strato sociale egiziano. 

 

Poi c’è la più volte citata manìa di grandezza che caratterizza la gestione di al Sisi, i mega-progetti del raddoppio del canale di Suez e la creazione dal nulla della New Cairo, nuova capitale amministrativa, costata finora 50 miliardi di dollari, e tuttora in edificazione con capitali  ulteriori che si sommeranno a un debito estero che viaggia verso i 200 miliardi di dollari. I 155 miliardi del 2022 sono un calcolo ormai ampiamente superato. Di queste spese talune vanno per progetti che osservatori economici definiscono “inutili o mal concepiti”. Eppure proseguono perché nessuno può contestarli e contrastarli. Se il Fondo Monetario Internazionale, che di recente ha stanziato una nuova cessione di tre miliardi di dollari, centellina le sue quote, ben più consistenti cifre giungono dalle petromonarchie. Sauditi, qatarioti, emiratini, interessati alla propria diversificazione finanziaria, prestano petrodollari diventando padroni effettivi di pezzi del mondo arabo, lo fanno da oltre un ventennio. In aggiunta, volendo determinare la geopolitica regionale, si servono del ruolo di gendarme locale cui i militari cairoti si sono votati col presidente golpista al Sisi, repressore d’ogni spazio di democrazia. Per questo l’Egitto forse non sarà destinato alla dissolvenza, ma potrà respirare sempre meno coi propri polmoni. Mentre una prassi diffusissima dal Maghreb al Mashreq è la quella degli Stati falliti. A causa di conflitti, esterni o intestini (Libia, Siria, Iraq), oppure prosciugati da repressioni ordite dalle élite di potere (Egitto, Tunisia), fino a situazioni svilite da sistemi incistati nelle consuetudini temporali e spaziali (Libano). E’ il quadro desolante avallato da una cinica comunità internazionale, interessata al dominio coi suoi poteri forti su quelle che furono le liberazioni e autoderminazioni dei popoli. La geopolitica torna a proporre protettorati come faceva il colonialismo del secolo scorso e subordina l’esistenza di “nazioni” prendendole per fame.

giovedì 23 febbraio 2023

Emirato afghano, fuori dall’isolamento con l’Af-Pak

 


Molti politici occidentali temono che gli elettori non accetteranno l'idea che le loro tasse aiutino un Paese governato da un regime odioso” dice un recente rapporto che tratta la delicata vicenda del sostegno economico alla popolazione afghana governata dai taliban. Se nei primi mesi dalla proclamazione dell’Emirato gli aiuti erano scemati per le stesse ragioni politiche che bloccavano i conti esteri di quello Stato (i famosi 9.5 miliardi di dollari congelati nelle banche statunitensi), la crisi nutrizionale e umanitaria aveva riportato un po’ d’ossigeno attraverso l’operato di varie Ong. I rinnovati soprusi dei nuovi dignitari di Kabul sui diritti umani e di genere con l’impedimento all’istruzione per le allieve delle superiori, l’estensione del divieto anche alle studentesse universitarie, il blocco del lavoro femminile, l’impossibilità per le donne di uscire di casa senza la presenza di un maschio di famiglia e ulteriori sopraffazioni  che rendono vana  un’esistenza dignitosa, rilanciano la volontà del blocco dei finanziamenti. Ma serve a poco attribuire le chiusure oscurantiste alle convinzioni personali del leader dei turbanti Hibatullah Akhundzada. Di fatto, come accadeva per la carenza di alimenti, a soffrire dell’azzeramento degli aiuti è la popolazione. Cancellare progetti di sostegno a gruppi di lavoro femminile e a nuclei d’istruzione significa penalizzare gli strati deboli senza colpire affatto il potere talebano. Non riconoscerne l’ufficialità governativa non porta a un loro isolamento né politico, né economico. Sorvoliamo su quanto gli analisti d’Intelligence sostengono da mesi: mentre la politica occidentale afferma d’isolare l’Emirato proseguono incontri e rapporti fra la Cia e i vertici taliban in funzione anti Isis Khorasan. Ora arrivano le mosse pakistane. Una delegazione di Islamabad è stata ricevuta ieri in pompa magna a Kabul. L’intento è porre fine a mesi di contrasti, anche violenti, sul confine e prospettare supporti finanziari partendo dal tema della sicurezza. L’incontro è stato gestito dal gran maestro della diplomazia dell’Emirato, il mullah Baradar, che ha amenamente colloquiato con Khwaja Asif, ministro della Difesa pakistano.

 

In riunione c’erano anche il tenente generale Nadeem Anjum per le Forze Armate e il direttore generale dell'Inter-Services Intelligence. Insomma il Pakistan che conta. Il balletto delle buone intenzioni ha ruotato attorno al tema dei Paesi vicini che dovrebbero andare d'accordo, si è parlato dei valichi di frontiera che nei mesi scorsi ciascuno apriva e chiudeva a piacimento non senza usare sparatorie e provocare vittime. Forse da oggi il registro cambierà, molto ruota attorno a cosa e chi transita nei valichi. Merci sicuramente, ufficiali come derrate e materiali per l’edilizia, ma anche articoli speciali (oppio) e particolari (armi), che non vengono esposte sui comunicati stampa, e chi muove tutto ciò. I signori del business - barbuti o meno - gli affaristi prossimi ai governanti d’ogni sponda e le lobbies citate che si detestano però non si ostacolano pubblicamente. Più scottante la vicenda dei Tehreek-e-Taliban Pakistan, amici dei talebani d’oltreconfine e spesso riparati lì nei momenti più acuti di conflitto con lo Stato che li ha messi fuorilegge. Ora un ministro di non poco conto a Islamabad, Bilawal Bhutto-Zardari, che controlla il dicastero degli Esteri dichiara che la "minaccia di sicurezza emanata dall’Afghanistan ha rappresentato la questione più importante nella regione”. Eppure questo ministro e il suo partito (Partito Popolare Pakistano) non condizionano l’operato dell’attuale premier di cui è alleato, né le strizzate d’occhio ai fondamentalisti che sia la Lega Musulmana-N, sia il Pakistan Tehreek-e Insaf hanno praticato negli ultimi tempi. Proprio l’ex premier Khan, rimessosi dalla ferita dell’attentato-avvertimento dei mesi scorsi, sta rilanciando le piazze col "Jail Bharo Tehreek" una protesta non violenta (almeno nelle intenzioni) che può riempire le carceri di attivisti dei diritti, a loro dire, violati. “Non abbiamo paura di andare in prigione. Abbiamo migliaia di volontari desiderosi di rinunciare alle loro libertà personali”. A che pro? Per mettere in difficoltà l’esecutivo che l’ha esautorato o per lanciare sin d’ora la prossima campagna elettorale. Intanto l’Af-Pakistan torna d’attualità e non regna solo nella testa della galassia talebana.  

lunedì 20 febbraio 2023

Turchia, l’affarismo pre e post terremoto

 


Keçiören è una provincia a nord di Ankara. Dista circa cinquecento chilometri a nord-ovest dalla faglia anatolica che ha scassato la Turchia fra il golfo di Alessandretta, Gaziantep, Kahramanmaraş facendo 42.000 vittime accertate. Se ne conteranno tante in più quando, fra oggi e domani, s’interromperanno i soccorsi, dopo quattordici giorni ininterrotti, poiché anche fra gli ultimi miracolati delle trecento ore d’immersione sotto il calcestruzzo la luce della vita si spegne. A Keçiören è nato quarant’anni fa Mehmet Özkan. Dopo aver compiuto studi superiori all’Aydınlık Evler Commerce Vocational High School e una successiva laurea in amministrazione aziendale all’Università di Anadolu, è diventato membro del settore giovanile locale dell’Ak Parti. La sua carriera nel partito di maggioranza durante i premierati di Erdoğan è volata, in sette anni Özkan è salito al ruolo di vicepresidente finanziario e amministrativo del distretto e dal 2016 è Direttore d’Affari in quella provincia. Ora il suo nome è citato su qualche testata turca per i crolli di un gruppo di edifici di Antakya. Cosa ci faceva Mehmet così a sud? Affari, che come in ogni latitudine mondiale, quando sono coperti da ruoli politici risultano più facili. Il nucleo abitativo, denominato Golden city, è imploso su di sé, ma accanto alla furia del sisma annovera, a detta dei primi sopralluoghi ingegneristici, il taglio di colonne e la manipolazione delle schermature di ferro per far posto a una palestra e un poligono di tiro (Özkan Sports Center e Özkan Atis), gestiti dallo stesso membro dell’Akp. La relazione degli esperti che hanno compiuto i sopralluoghi evidenzia l’assenza di numerose  colonne nei  seminterrati e testimonianze raccolte fra alcuni sopravvissuti che abitavano nei piani superiori del complesso hanno confermato come la società appaltatrice dei lavori di adattamento avesse creato ampie aperture nel seminterrato per gli scopi affaristici di destinazione. 

 

Altre “creature” simili sono sparse nella città poiché la Özkan Brothers Construction era coinvolta in ulteriori opere di edificazione. Il tema dei crolli catastrofici prossimi a strutture danneggiate eppure rimaste in piedi, è affrontato dalla magistratura che ha operato numerosi fermi tramutati in arresto per 130 responsabili di aziende appaltatrici indagate per disastro colposo. La questione coinvolge direttamente la politica nazionale e locale, poiché amministratori e funzionari risultano coinvolti nei mancati controlli e in molti casi in agevolazioni e condoni che evadevano le misure antisismiche. Tutto ciò si è verificato pure per costruzioni recenti che avrebbero dovuto rispondere a ferrei criteri introdotti dalle ultime normative. Su questo le polemiche galoppano, non solo fra la popolazione direttamente colpita e ridotta a una precarietà che può durare a lungo: i senza tetto s’aggirano sul milione di persone, alle quali c’è da aggiungere condòmini e inquilini di palazzi parzialmente lesionati che hanno  bisogno di verifiche e riparazioni. La promessa del presidente Erdoğan per una ricostruzione entro un anno di quasi settantamila edifici rappresenta un obiettivo azzardato su cui gli oppositori già fanno leva. Altri due argomenti al centro di serrati dibattiti sono: la giurisdizione degli aiuti che l’alleanza Akp - Mhp affida unicamente all’agenzia statale Afad. L’orientamento accaparratorio del governo - che di recente ha posto il teologo İsmail Palakoğlu a dirigere la struttura, una figura esperta di affari religiosi non certo in emergenze catastrofiche - e l’ostracismo rivolto a ong interne (l’Ahbap della popstar Levent) per impedirne il soccorso ai terremotati, stanno rinfocolando la polarizzazione già presente fra maggioranza e opposizione. La scadenza elettorale di metà maggio è l’ulteriore diatriba in corso. I vertici istituzionali non si sono pronunciati, però si paventa un posticipo tattico da parte di Erdoğan per limitare il calo di consensi e orientare il voto con le promesse della ricostruzione. Il segretario del gruppo repubblicano ha lanciato l’allarme parlando di golpe in caso di rinvio. E ora che i salvataggi stanno esaurendo il loro corso, la tensione sale. 


 

venerdì 17 febbraio 2023

Turchia, gli undici giorni di Nazim

 


Undici giorni undici ad aspettare la vita. Undici giorni  undici ad allontanare le cesoie di Átropo. Il raggio di luce è giunto in piena notte: “Sotto una luna bellissima” dice ai microfoni televisivi nell’ospedale di Gaziantep e sorride. Sorride sebbene attenda l’amputazione di un arto inferiore che non si può salvare. Sorride nonostante abbia il cuore disfatto dalle macerie che inghiottivano i genitori dentro la stessa abitazione. Aveva visto tutto, poi buio e silenzio. Per ore, per giorni. Nazim comprendeva e si teneva in vita cantando. Di tutto, anche Bella ciao e la ripropone, disteso sul letto bianco che l’accoglie, al cronista della Rai. Localizzato, sotto le macerie d’un palazzo trasformatosi come tanti in un ammasso informe, grazie a parenti scampati ai crolli che sapevano della sua presenza in casa, ha aspettato e pregato. Poteva non farcela dopo 278 ore di veglia e sonno, di digiuno e disperazione, di soffocamento, incastrato sotto un tramezzo non facile da rimuovere anche quando era stato individuato. Ha cantato e sperato, Nazim sopportando il dolore fisico, quello dell’anima distrutta dall’ipotizzata scomparsa dei familiari che poi s’è crudelmente confermata. Comunque ha creduto che tanta disgrazia l’avrebbe graziato da una fine ingiusta, doppiamente beffato dal destino e dall’incuria. Conferma che quell’edificio aveva quattro anni e si è polverizzato non solo per la furia del terremoto. E’ convinto delle responsabilità umane, di chi ha lucrato sulla costruzione usando materiale scadente, di chi non ha garantito controlli adeguati, nonostante le leggi già vigenti, di chi con incuria e corruzione ha preparato un disastro immane per gente già piegata da un’economia distorta. Deve tutto alla buona sorte, Nazim, ai volontari dell’Ong spagnola Intervención Ayada y Emergencias che l’anno estratto e riportato in vita, alla sua tempra di uomo di fede e d’ideali. E alle canzoni. Compresa l’intramontabile Bella ciao.

mercoledì 15 febbraio 2023

Turchia, le elezioni come resa dei conti

 

"Il disastro per questo Paese è Erdoğan”. Va giù duro Kemal Kılıçdaroğlu, capo del maggior gruppo d’opposizione turca (Chp) erede del partito di Atatürk che un secolo fa creò la Turchia moderna. L’anziano leader non vuol sentir parlare di elezioni rimandate: “Le elezioni si terranno secondo i tempi prestabiliti, la Costituzione è molto chiara, le consultazioni non possono essere rinviate. Non c'è proroga in caso di disastro, né il Parlamento né le Forze Armate hanno l’autorità per attuarla. Chi spinge per questa soluzione attua un colpo di stato”. Poi si è lanciato a commentare il disastro del sisma:Il mio dolore è indicibile. Ho attraversato la zona del terremoto. Ho visto bambini senza famiglia, ho visto madri che hanno perso figli. Ho pianto con i padri. Ho udito un grido per le donne disperate che sentivano la voce dei loro cari sepolti tra le macerie. Ho visto gente urlare: "Dov'è il governo?" Non posso cancellarli dalle orecchie. Imprudenza, irresponsabilità, corruzione hanno contribuito alla tragedia. Chiaramente il sangue dei nostri cittadini è nelle mani di questo potere. L'unico responsabile è il suo regime”. La risposta del presidente turco non s’è fatta attendere, per quanto sia stata indiretta e non ha toccato finora la scadenza elettorale di metà maggio. 

 

Intervenendo dalla sede dell’Afad (Disaster and Emergency Management Presidency) Erdoğan è andato sul concreto: "Secondo la situazione attuale, possiamo iniziare la costruzione di 30.000 case all'inizio di marzo.  Il nostro Ministero per l'Ambiente, l'Urbanizzazione e il Cambiamento Climatico assieme all'Amministrazione degli Alloggi Pubblici (indicata come responsabile di mancati controlli per alcuni crolli di palazzi sotto la sua giurisdizione, ndr) hanno iniziato i preparativi per nuove case e città da costruire nella regione. Sapendo che non abbiamo un solo minuto da sprecare, procederemo immediatamente ai lavori di costruzione ovunque la valutazione dei danni sia completata”. Il governo punta a completare la realizzazione di edifici “sicuri e di alta qualità” in un arco temporale di un anno per risolvere le esigenze abitative in tutta l’area sismica – fanno sapere dall’Esecutivo – prevedendo ovviamente case lontane dai punti in cui la faglia anatolica si è allargata. In quali zone si costruirà non è tuttora chiaro, visto l’ampia dimensione della fascia terremotata. "Nel frattempo, stiamo progettando di soddisfare le esigenze abitative temporanee utilizzando tutti i mezzi e le risorse del Paese, fra cui tende, contenitori, strutture prefabbricate, dormitori, camere d'albergo e pensioni pubbliche assegnate a questo scopo, e case in affitto in altre province. Chiedo ai nostri cittadini terremotati la pazienza per un anno” ha affermato Erdoğan da buon padre e da presidente della concretezza. E ancora: “Allevieremo le sofferenze, guariremo le ferite e compenseremo le perdite derivanti da questo disastro senza cedere alla stanchezza e alla disperazione”. Crederci? Gli osservatori chiosano che si sta giocando tutto. 

 

 

Il governo ha già annunciato che offrirà 15.000 lire turche (745 euro) per le spese di trasloco e da 2.000 a 5.000 lire in affitto per ogni casa diventata inagibile, promesso anche un sostegno iniziale di 10.000 lire (497 euro) a ogni famiglia disastrata. Mentre centomila lire (circa 5000 euro) sono previsti per bisogni urgenti dei parenti delle vittime accertate. Finora solo questa cifra ammonterebbe a 200 milioni di euro. Eppure trovare il denaro per l’emergenza non sembra rappresentare un problema nonostante un’economia piegata dalla crisi e da un’inflazione al 40% e oltre. Finora il sostegno non manca: oltre cento nazioni stanno contribuendo all’emergenza, più di 80 Paesi hanno inviato squadre di scavo. Più complicato sarà ricevere finanziamenti per la ricostruzione che il presidente promette pure rapida. Dal fronte dei petrodollari sauditi a quelli altrettanto chiacchierati qatarioti non ci dovrebbero essere problemi, sebbene le contropartite sono sempre dietro l’angolo. Come del resto potrà accadere con gli istituti occidentali (Fmi e Banca Mondiale). Prima d’una sicura conflittualità politica, che per ora ha visto all’attacco i repubblicani, è in corso quella sulle Organizzazioni non governative. L’Ahbap animata dal musicista Levent è stata ostracizzata da attivisti locali del partito nazionalista (Mhp) alleato del partito di maggioranza (Akp) che invitano i sottoscrittori a non elargire denaro a costoro bensì alla governativa Afad. La polemica è cresciuta. Da due giorni il vecchio ‘lupo grigio’ Bahçeli, tuttora leader del Mhp, ha lanciato gli strali contro artisti che sostengono la raccolta fondi tramite le Ong, criticando per questa campagna un altro musicista, nonché regista e sceneggiatore: Oğuzhan Uğur. Fra elezioni e aiuti umanitari lo scontro s’allarga, sebbene si registra anche la solidarietà orizzontale di famiglie che ospitano sfollati a casa propria.

martedì 14 febbraio 2023

Kahramanmaraş, le tre sorelle

 


Lo guardi l’intrigo di ferri contorti, e già ti scoraggia. Tondini incastrati e disincastrati da blocchi di cemento, quelli che reggono e quelli sbriciolati, e la polvere che solleva la voce di chi grida soccorrendo, cercando chi ha il fiato mozzato dal tempo oltreché dall’angoscia. Duecento ore, otto giorni che diventeranno nove incuneati nella penombra dalla quale filtra più polvere che luce. Eppure il chiarore si vede di lontano, in quella sala diventata corridoio di vita e che può, fra qualche attimo quando il cuore non dovesse rispondere più, trasformarsi in sepolcro. Come quello studiato a scuola, piramidi e tombe ipogee, ma lì ci finivano a fine vita, sebbene non fosse durata a lungo come alla bella regina Nefertari, di cui ricordano lo sguardo seducente di donna. Pensieri di attimi che possono durare ore, mentre si parlano tre sorelle, s’incoraggiano l’un l’altra nella giovane età di ciascuna: diciassette, quindici, dodici anni. L’odore di morte è attorno. La iattura e il miracolo di essere strette in un luogo angusto di quel palazzone di Kahramanmaraş sbriciolato e diventato una montagna attorno alla quale scava gente che non s’è accorta di loro. I soccorritori sono lì per salvare, il limite dei tre giorni è fisiologico, ma poi i prodigi si sono susseguiti: sepolti eppure vivi, sommersi ma salvati. A cento ore dal rombo e dallo squasso, e poi a centocinquanta. Chi è sotto dispera e ci spera. Chi respira fuori è caparbiamente attaccato alla vita di salvare le vite. Lo fa per mestiere oppure no, perché i parenti, gli amici, il vicinato che è salvo e può aiutare, non si rassegna ed è lì a sbancare macerie per restituire alla luce. Rinascite continue nei giorni segnati dalla lugubre conta di chi non ce l’ha fatta, cifre pazzesche in perversa crescita esponenziale. E il tormento più tagliente, che sotto restano altrettante anime di quelle già contate quali martiri del diabolico sisma. Oggi le individuano Zenep, Herin, Şirin le tre sorelle intrappolate, che si tengono al mondo con la forza della propria gioventù. Col voler essere amate dalla vita in un giorno d’amore. Occorre far presto, essere fortunati, essere coscienziosamente tenaci per riportarle in piedi in un orizzonte diventato quasi del tutto orizzontale. 


 

domenica 12 febbraio 2023

La Turchia che cambia volto

 


Non è detto che le elezioni turche si terranno. Dove si voterà nelle dieci province smembrate dal sisma? Sotto le tende che negli attuali giorni di pianto ospitano occhi senza più lacrime, certo. Ma con quale animo? Non è detto che le elezioni si faranno perché il presidente che lancia promesse di alloggi per tutti i sopravvissuti tempo un anno, offre a se stesso una sfida insostenibile, promettendo l’impossibile. Serviranno settimane solo per recuperare cadaveri che possono diventare il doppio degli attuali trentamila corpi maciullati, impossibili da inumare anche nei cimiteri di paesini minuti perché quei luoghi non esistono più. A contare le vittime giungono da fuori e sollevano prefiche in mancanza di parenti. Non è detto che le urne della Turchia riceveranno il consenso o il dissenso a un sistema politico ventennale, eppure in questi momenti di tribolazione e affanno la campagna elettorale è iniziata. Diventa un comizio informale ogni visita delle autorità, dal presidente Erdoğan con consorte pronti a distribuire conforto e carezze ai bambini, ai capi dell’opposizione. Nell’immediato si son visti il repubblicano Kılıçdaroğlu e la leader dell’İyi Parti Meral Akşener portare discorsi di cordoglio a gente stordita dalla tragedia. Nella terra kurda mancano i parlamentari del Partito democratico dei popoli privati non solo e tanto d’una campagna elettorale ufficiale o ufficiosa, ma della facoltà di parola in uno Stato in fuga dalla democrazia. Per loro parlano giornaliste e intellettuali, tutti lontani da casa per ragioni d’incolumità, non quella dai movimenti tellurici, bensì dall’esercizio della libera critica al potere. E’ campagna elettorale anche l’arresto d’imprenditori edili accusati di non aver costruito secondo direttive antisismiche, che peraltro hanno solo cinque anni di vita. L’opposizione sostiene che fossero gli affaristi di regime, tollerati finora dal partito di maggioranza per lo scellerato scambio di favori e tangenti. 

 

Dovrà provarlo una magistratura già ampiamente selezionata, dopo il tentato golpe del 2016, secondo criteri di vicinanza ideologica al Partito della Giustizia e Sviluppo. Ecco, la popolazione turca può iniziare a domandarsi se quello sviluppo posto come una lapide nella sigla del gruppo che guida la nazione sia tale e se lo sia mai stato. Sotto una mezzaluna che ha travalicato il simbolo della bandiera, esaltando l’Islam diventato politico, la nazione è cresciuta. Ma la strada del nuovo Millennio targata Akp ha ripercorso il liberismo economico tracciato un ventennio prima da altri patrioti. Un nome per tutti Turgut Özal, figlio peraltro di un’integrazione con padre turco e mamma kurda. Riforme e interclassismo con punte d’integrazione interetnica, il progetto che l’ha fatto amare nelle città e nelle campagne, un programma che i primi passi del premierato di Erdoğan sembravano ripercorrere. Ma la magìa d’una trasformazione che pure c’è stata, celava debolezze apparse nell’orizzonte finanziario e del Destino. Lo sviluppo non è progresso se a guidarlo è desiderio di accumulo anziché benessere, se gli interessi monetari vincono sull’interesse alla vita. Nell’attuale Turchia l’inflazione mangia i salari, la disoccupazione e i prezzi aumentano, l’economia vacilla come le case della speculazione. E’ su tale panorama di devastazione che la politica gioca le sue carte per il futuro. In un Paese duramente segnato dal lutto e da tanta  disillusione i sorrisi che mostrano gli indomiti soccorritori, siano essi della statale Afad o dell’osteggiata Ong Ahbap, sono per Yigit, Aliye, Elbistan e pure per il cagnolino  Pamuk strappati alla morte dopo sei giorni dallo squasso della terra. Sono costoro la Turchia viva per la quale vivere e programmare un domani a cui chi vive di politica deve offrire risposte che non siano promesse presto trasformate in menzogne. E siano giustizia vera che in troppi reclamano inascoltati.

venerdì 10 febbraio 2023

Turchia, il conflitto degli aiuti

 


Scrive la stampa turca non schierata col governo come Cumhuriyet: “Anche l'associazione AHBAP del manager di Haluk Levent sta svolgendo un lavoro straordinario per aiutare le vittime del terremoto”. Haluk Acil, in arte Levent, è un sessantottino nel senso che è nato nel 1968, diventato rockettaro per scelta: voleva rilanciare il rock anatolico, che è una fusione fra la musica ‘rocciosa’ e il folk turco. Il percorso del rock anatolico parte da lontano e s’è consolidato soprattutto nei formidabili anni Sessanta e Settanta. Anche sotto le dittature militari gli influssi dei ritmi di Rolling Stones, Led Zeppelin, Yes attraevano la gioventù metropolitana di Istanbul e dintorni. Diversi artisti turchi si gettarono nell’avventura musicale, così fra band e solisti, fra rock psichedelico e nuovi percorsi si sono contate decine di rockstar anatoliche. Levent è uno di loro, esploso a metà degli anni Novanta e attivo anche in tempi più recenti. Si è anche interessato al sostegno di cause umanitarie dando vita a una Ong - l’Ahbap appunto - che ha fatto di recente interrogare la stampa nazionale se il musicista fosse attratto dalla politica e volesse candidarsi alle elezioni. Non ci sono state, almeno finora, conferme o smentite. Lui e l’associazione si sono mobilitati fin dalle prime ore in cui si muoveva la macchina dei soccorsi ai terremotati, un’attivazione che per via statale è stata criticata per la lentezza e la differenziazione del sostegno fra zone abitate da popolazione turca e altre etnìe, con la prevalenza di quella kurda. Ora Levent pare preso di mira da persone vicine al potere, viene accusato di "cercare di screditare" le istituzioni statali. Un membro dell'AKP del Consiglio Provinciale di Kirşehir, Berk can Doğan, critica l’operato dell’associazione vicina al cantante che userebbe il lavoro dei volontari per farsi pubblicità. Mentre più esplicitamente un esponente nazionalista del Mhp, alleato politico dell’Akp, invita i sottoscrittori di fondi a indirizzarli all’Afad, l’agenzia della protezione civile controllata dal governo perché non si fidano dell’operato di Ahbap.

 

Sul tema è intervenuto Erdoğan in persona: "In talune aree il problema più grande è il traffico causato da veicoli provenienti dall'esterno. L’assistenza attraverso Afad impedirà intralci ed esitazioni. Ogni centesimo del nostro aiuto ad Afad è speso per le attività nella regione del terremoto“. Eppure c’è chi insinua una mancanza di trasparenza negli aiuti della struttura governativa, e chi si preoccupa che le donazioni non vengano utilizzate correttamente. Questo è solo uno degli strascichi sulla politica dell’effetto sisma, certamente ne seguiranno parecchi. Galoppa quello sulla carenza di rigorose misure preventive nell’edificazione successiva all’egualmente disastroso terremoto del 1999 (oltre diciottomila vittima, con l’attuale si sono giù superate del 21.000), soprattutto perché mentre nei primi anni leggi adeguate non erano state studiate da Parlamento e governi, in seguito le normative sono entrate in vigore. In tal senso desta scandalo la disgregazione di palazzi che avevano solo quattro-cinque anni di vita. Pur di fronte a un evento terrificante che ha sventrato la terra, a odor di naso se il materiale usato dai costruttori non risultava scadente, probabilmente molti edifici non rispondevano alle necessarie misure previste da regole edilizie di prevenzione. Le cronache turche divulgano la nota del fermo d’un imprenditore, Hüseyin Yalçın Coşkun, che ad Hatay aveva realizzato un residence imploso su se stesso. L’uomo stava fuggendo in Montenegro. Non è detto che l’arresto placherà la rabbia popolare, anche perché di crolli simili ce ne sono a migliaia e probabilmente anche di costruttori senza scrupoli, fuori norma oppure condonati. Una questione dall’indubbia ricaduta politica che si rifletterà sul voto che potrebbe essere procrastinato. Per ora il governo blinda l’orizzonte con tre mesi di emergenza socio-umanitaria, visto che milioni di persone restano senza alloggio. Il resto è in divenire.

mercoledì 8 febbraio 2023

Siria, il soccorso oltre la guerra

 

Ci mette del veleno paterno Zein al-Asad, secondogenita diciannovenne del satrapo di Damasco, insediata da sempre a Londra. Sul personale profilo Istagram invita a distinguere le donazioni d’aiuto ai terremotati: “Per favore attenti a quelli a cui donate. Questo è un gruppo di terroristi”. Così viene definito chiunque raccolga fondi dalle parti di Idlib, dunque fra i ribelli al regime, anche se non è jihadista e fondamentalista. Certo, simili distinguo non li fa solo la famiglia Asad, ma anche grazie al presidente Bashar, ai suoi protettori Putin ed Erdoğan, prosegue la distruzione della Siria storica e di quella contemporanea a suon di bombe, non di scosse sismiche. Per questo sette milioni di siriani sono costretti a vivere all’estero, altri sei milioni sono sfollati dentro una nazione tenuta ai margini del Medioriente e del mondo. Oltre due milioni di kurdi del Rojava hanno dovuto abbandonare un territorio pattugliato da reparti militari turchi. Anche su tale mossa erdoğaniana c’è il benestare di Asad. Sui cieli del territorio a lui fedele le aviazioni siriana e russa sfrecciano e puniscono i riottosi. Compresa la riconquistata Aleppo, antica perla sbriciolata da dodici anni di cieca macelleria prima che intervenisse lo squasso della faglia anatolica a sotterrare ciò che restava in piedi fra sedimentate rovine belliche. Raccontano testimoni che a nord della città dalla moschea delle meraviglie, nelle ore che sono seguite alla devastazione del sisma cadevano bombe dell’esercito siriano. Suggello dell’odio per chi abita quelle terre, un’aggiunta di dolore ai lutti regalati dal sisma. Si scrive che verso la Siria non stia giungendo alcun aiuto del mondo occidentale, tutto è rivolto unicamente alla Turchia. E’ verissimo. E’ anche vero che Damasco rifiuta sostegni, talvolta dello stesso fronte arabo, perché le zone coinvolte nel sisma sono in mano agli oppositori del raìs. E’ la stessa immagine di quanto accade a ovest, dove amministratori delle province kurde di Turchia denunciano silenzi o ritardi della macchina dei soccorsi che comunque esiste. Far giungere aiuti al regime siriano è doveroso, abbattendo sanzioni che come le scosse massime del terremoto sconquassano le vite di gente disperata. Eppure Damasco pone il veto: gli aiuti devono passare per il nostro governo, ha dichiarato l’ambasciatore siriano all’Onu. Un braccio di ferro insensato, un altro crimine sui siriani, non sulla Siria. La stessa diaspora all’estero che vorrebbe contribuire ha le ali tarpate, finora non c’è stato modo di far giungere assistenza materiale ed economica. In Siria esistono piccole realtà attorno a comunità religiose, l’associazione Pro Terra Santa tramite il suo sito ha diffuso questo link per la raccolta fondi:

https://www.proterrasancta.org/it/campaign/aleppo-emergenza-terremoto/

Si spera non resti l’unico. Si spera che ovunque ci si attivi per la gente che ha ancora poche ore da vivere sotto le macerie. Si spera che anche chi è fuori non debba crepare di freddo e fame oltreché di esplosioni.  


 
  


martedì 7 febbraio 2023

La neonata di Jandiris

 


Allah è davvero grande, se fa uscire da sotto un architrave di cemento armato una neonata col cordoncino ombelicale ancora appeso. Lo sarà ancor di più se aiuterà le migliaia fra volontari, operatori e specialisti dei disastri a salvare altre vite. Bambini o nonni che siano, tutte anime senza colpa che vogliono solo tornare a respirare sotto il sole o la pioggia. Alla piccina ancora senza nome e senza più familiari, schiacciati dai massi dove lei è nata, forse fra anni e anni qualcuno racconterà questa storia triste e di speranza. Lei avrà serbato in qualche angolo dell’inconscio il soffio vitale donatole dalla madre, lo sentirà inconsapevolmente e indistintamente. Certi attimi accompagnano un’intera vita, ogni sopravvissuto della voragine anatolica porterà addosso questo comune sentimento. Si aiuteranno come stanno facendo, urlando di gioia per una vita strappata ai detriti di case accartocciate e diventate antri bui. Mentre i cuori di chi solidarizza con loro battono in sintonia, volendo già recuperare una normalità ancora lontana, perché tutto questo accade a Jandairis, provincia di Aleppo, luoghi asfissiati dalla polvere pirica prima che da quella del cemento. Spazi seviziati dalle bombe d’una guerra che il mondo, ora allarmato e soccorritore, ha rimosso assieme al proprio ceto politico. Non solo quello che detta la legge del sangue in quel Paese vivisezionato, ma fra chi partecipa al funerale del popolo siriano tenendolo profugo e martire, sfibrato e impotente. Sono i vicini potenti e invadenti, gli autocrati globali e pure i padroni delle democrazie a orologeria. Siamo noi occidentali e orientali … Eppure Allah è grande.

Turchia, quando tremano terra e politica

 


Ci sono le facce stravolte e disperate dei sopravvissuti, di qua e di là dei confini, fra chi sta a Gaziantep e chi ad Aleppo che non esistono più in quel che avevano di prezioso: la fortezza bizantina, la moschea omayyade, la vita dei propri cari. Ci sono le macchine dei soccorsi nazionali: la Turkish Disaster and Emergency Management Authorit che Erdoğan si tiene ben stretta, e gli “elmetti bianchi” siriani, quindi le rispettive Mezzelune Rosse, affiancate da migliaia di persone in lotta, anche a mani nude, contro le settantadue ore che solitamente decretano la morte del terremotato ansimante sotto le macerie. Gli accademici del soccorso stranieri pronti a intervenire, puntualizzano: accanto ai mezzi tecnici servono professionisti per far quel che si deve in maniera oculata. Tutto vero. Ma la vera corsa resta quella contro il tempo, perché il salvataggio dei seppelliti vivi si realizza in queste ore e ne sono già trascorse trentasei… Al di qua e al di là d’un confine che è stato e tuttora resta di guerra - seppure le viscere del globo  hanno aggiunto una devastazione al terrore seminato per dodici anni dalle bombe - l’azione può essere differente. La Turchia agisce da Stato, con strutture consolidate, la Siria è un sedicente Stato tenuto in vita da Russia e dalla stessa Turchia, dopo che entrambe hanno contribuito a devastarlo assieme al leader del regime protetto: Bashar Asad. Sotto le loro decisioni ci sono, tuttora, milioni di cittadini. Fra chi è rimasto a vivere dov’è nato, chi è fuggito e da anni sopravvive come rifugiato in nazioni attigue o lontane, chi ha forzatamente abbandonato il desiderio di autodeterminazione chiamata Rojava. I profughi siriani in Turchia potrebbero conoscere nelle prossime settimane condizioni ancor più stranianti e strazianti di quelle vissute dalla fase del loro trasferimento in un altrove vicino, il territorio turco, che li ha acquisiti e “acquistati”. Di mezzo ci siamo noi, o meglio chi ci rappresenta nelle istituzioni europee. 

 

Davanti all’emergenza migranti che fuggivano dai campi di battaglia siriani e approdavano sulle coste e ai confini della Fortezza Europea, la Ue dove brillava la mente di Angela Merkel per evitare di accogliere milioni di persone  barattò con Erdoğan quella collocazione. Tre milioni e mezzo di siriani finirono in Anatolia in cambio di tre miliardi di euro, più tre. La vita di costoro è stata minima, spesso grama. Hanno dovuto sopravvivere a dolore, sradicamenti, mancanza di prospettive e futuro, giovani e adulti che fossero. Il trascorrere del tempo non ha migliorato le condizioni: l’Europa dell’egoismo sovranista sempre più chiusa coi suoi politici al potere (Orban, Morawiecki, Meloni), mentre il “risolutore di problemi” Erdoğan ha dovuto fare i conti con l’effetto boomerang dell’accoglienza. Proprio le amministrative 2019, quando il suo partito perse le maggiori città, facevano registrare un calo di consensi all’Akp anche per ragioni di stabilità interna: occupazione, inflazione, salari, e le volgarità del volgo trovavano presto un capro espiatorio: la presenza dei milioni di siriani da assistere e mantenere, e l’eventuale loro disponibilità ad accettare lavori anche precari in una sorta di concorrenza in un’economia non più florida. Da qui il piano di redistribuzione e reinserimento dei siriani nei territori di provenienza, patteggiata con Asad, consenziente lo stesso Putin, comunque nell’ultimo anno “distratto” da altri problemi e altri fronti. Il progetto era inserito in un piano di “sicurezza” che creava campi di accoglienza nella lunga fascia fra Turchia meridionale e Siria settentrionale, dove la mezzaluna militare turca aveva arato a suon di carri armati una zona larga trenta chilometri, sgomberata dalle Unità di Protezione Popolare kurde. Questa carta il presidente che vuol essere eterno la gioca per le elezioni di metà maggio. Ora, col disastro sismico in corso, potrà addirittura velocizzare la mano, visto che per la perdita di migliaia e migliaia di vani, è in corso anche un’urgenza abitativa fra i sopravvissuti, turchi e siriani. L’emergenza politica della ricollocazione dei profughi s’affianca a quella umanitari dell’aiuto ai terremotati. Per continuare a guidare la Turchia.

lunedì 6 febbraio 2023

Terremoto turco-siriano, l’Anatolia si sposta di tre metri

 


Al momento non ci sono strascichi polemici ma non è detto che non arriveranno, anche per quanto i concittadini e il mondo hanno visto in diretta con palazzi di sette piani implodere su se stessi come castelli di carte. Il terremoto che ha colpito in piena notte la Turchia orientale - epicentro nel distretto di Pazarcık della provincia di Kahramanmaraş con una prima scossa calcolata a 7.8 della scala Richter alle 4:17 dell’ora locale, a una profondità di 7 chilometri circa - è uno dei più distruttivi della cronaca recente. I sismologi affermano che l’Anatolia si sia spostata di tre metri, con una deformazione della fascia costiera fra Mersin e Alessandretta. Il maremoto temuto nei minuti successivi non si è verificato, l’onda marina non ha superato i venti centimetri. Si sono però ripetute varie scosse, una ventina, alcune particolarmente violente oltre i 7 gradi Richter, che hanno sbriciolato edifici precedentemente lesionali. Investita anche la zona sul confine siriano e la stessa Siria. Le vittime, purtroppo crescenti, nelle prime ore del pomeriggio superavano le 1.200 in Turchia e le 800 in Siria. I soccorsi, già mobilitati ma pur sempre insufficienti, sperano di salvare persone intrappolate fra le macerie sebbene si teme che il numero salirà di parecchio. Il Servizio di Protezione e la Mezzaluna Rossa vogliono scongiurare l’ecatombe del 1999 quando si contarono 18.000 decessi. In quel caso venne interessata la faglia nord Anatolica, che si sviluppa per centinaia di chilometri, attualmente è coinvolta la faglia est Anatolica, anch’essa molto lunga che sale verso il confine armeno. 

 

Il Paese è in piena campagna elettorale per le consultazioni di metà maggio (politiche e presidenziali), il giorno precedente la catastrofe il presidente Erdoğan era nel distretto occidentale di Aydın e nel corso d’un comizio si scagliava contro la coalizione dell’opposizione formata da partiti storici come il repubblicano e da nuove sigle (İyi Parti,  Demokrasi ve Atılım Partisi, Gelecek Partisi), alcune create da suoi ex sodali come il ministro degli Esteri Davutoğlu o quello dell’Economia Babacan. Diceva rivolto a quest’ultimi: "Non saranno in grado di portare via i successi della nostra nazione. Non ci impediranno di costruire il nuovo secolo della Turchia proprio come non sono riusciti a ostacolare i nostri obiettivi del 2023". Quindi con la retorica che gli è propria: "Quando guardiamo i disastri di cui abbiamo sofferto nel primo secolo della nostra Repubblica, vediamo le stesse mani sporche, gli stessi scenari sporchi e gli stessi patetici burattini". Seguiva il riassunto di ciò che il governo dell’Akp ha realizzato in quella provincia: più di 1.668 case con le loro infrastrutture, messe in opera con l'aiuto della Housing Development Administration (TOKİ), l’agenzia voluta nel 1984 dal governo Özal, egualmente sostenuta dagli esecutivi del partito erdoğaniano E ancora: 14 dighe, 12 stagni, 5 centrali idroelettriche, 7 consolidamenti fondiari, 30 sistemi di irrigazione, 38 impianti di irrigazione, 16 impianti di stoccaggio sotterraneo, un Technopark, nove centri di ricerca e sviluppo, tre di progettazione. Chissà se sugli scheletri degli edifici lesionati dalle terribili scosse di stanotte i politici, per ora stretti nella solidarietà nazionale, non scateneranno polemiche riguardo alla scarsa diffusione di edilizia antisismica. Certo, le mura bizantine del castello di Gaziantep, che aveva substrati romani e addirittura ittiti, stamane risultavano sbriciolate. Però questo riguarderà il patrimonio archeologico nel quale è coinvolto anche l’Unesco, l’occhio vigile su quanto non è stato fatto in ragione di prevenzione e su quanto non si farà in tempo a fare per evitare morti da schiacciamento, potrebbe costituire un ulteriore tema di scontro elettorale. Per ora si scava, tre giorni di tempo per salvare vite. Erdoğan è cosciente che da sola la Turchia non ce la può fare: ha fatto appello al mondo e alla Nato. In tanti dicono di volerlo aiutare.