mercoledì 28 aprile 2021

Iran, le verità strappate a Zarif

Il clima delle presidenziali iraniane, previste per il prossimo 18 giugno, subisce una fibrillazione dopo la rivelazione del colloquio-verità effettuato dal ministro degli Esteri Zarif con un giornalista vicino all’attuale presidente Rohani, Saïd Leyaz. Alcuni passi di quest’intervista, effettuata quasi due mesi fa, che rientrava in un programma cosiddetto di ‘storia orale’, sono da due giorni sulla bocca di tutti grazie al media Fars, una delle voci delle potentissime Guardie della Rivoluzione e hanno scatenato un putiferio. Perché il ministro segnala l’invasivo ruolo d’un pezzo da Novanta del regime, il comandante delle Forze Al-Qods Qassem Soleimani, diventato molto più d’un martire dopo il suo assassinio compiuto all’inizio del 2020 da un drone statunitense. Un crimine rivendicato con orgoglio dall’allora presidente americano Trump che avrebbe potuto aprire una crisi armata. Ma così non è stato. L’Iran non rispose, se non simbolicamente, alla sanguinosa provocazione e la vendetta, pronunciata dalla stessa Guida Suprema Khamenei, è rimasta nelle intenzioni. Le frasi diffuse del colloquio di Zarif ribadiscono senza mezzi termini l’ingerenza dell’alto comandante nella politica estera del suo Paese, ogni passo esterno della diplomazia veniva da lui vagliato, approvato, mutato. Zarif dice che in più occasioni il generale autorizzò personalmente sorvoli sul territorio iraniano di aerei russi che portavano sostegno al regime di Asad. L'affermazione può mette in difficoltà i buoni rapporti d’alleanza, e di riservatezza, fra Mosca e Teheran. 

 

Come s’apprende dall’intervento del portavoce di Zarif, parecchie sue considerazioni sarebbero dovute rimanere segrete, la diffusione può solo servire a screditarne l’immagine davanti alla popolazione e all’elettorato, visto che il ministro sarebbe stato un possibile candidato di peso alle presidenziali. La mossa degli avversari conservatori, soprattutto del cosiddetto partito dei Pasdaran, servirebbe a eliminare un avversario scomodo, scompigliando la componente riformista di cui un altro nome ventilato è Mostafa Tajzadeh. Un politico non certo giovane, è  sessantacinquenne, che ha servito nel dicastero dell’Interno due amministrazioni di Mohammad Khatami nel 1998 e poi dal 2003 al 2005. Tajzadeh cadde in disgrazia durante le presidenziali del 2009, dove Ahmadinejad ribadì il suo incarico nonostante le accuse di brogli e l’amplissima protesta di piazza denominata ‘onda verde’. L’ex ministro venne accusato, come migliaia di attivisti riformisti e oppositori all’ala tradizionalista, e incarcerato a Evin, prigione periferica della capitale. Ne uscì nel 2016. Difficilmente la sua candidatura passerà la selezione prevista dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione. Così due concorrenti di peso del riformismo iraniano verrebbero entrambi bloccati. Speranze maggiori le ha Ali Larijani, non foss’altro che per il suo passato di Presidente del Parlamento. Le posizioni moderate, simili a Rohani, gli consentirebbe di raccogliere il sostegno dei progressisti rimasti orfani di candidati. 

 

Sul versante ultraconservatore si fanno i nomi dell’ex comandante delle Guardie della Rivoluzione Mohsen Rezaï, 67 anni, già candidato nel 2009 a cui elettori e supervisori gli preferirono l’ex basij Ahmadinejad, poi scaricato da Khamenei per il suo percorso d’adesione al misticismo dell’Hojatiye, il movimento che attende l’arrivo dell’Imam nascosto. Ma anche per contestazioni su operazioni poco limpide della sua seconda gestione, probabilmente entrate in conflitto con le Bonyad clericali e dei Pasdaran. Quindi Hossein Dehghan, 64 anni, anch’egli appartenente alla famiglia dei Pasdaran, presente sia nell’amministrazione riformista Khatami, seppure come vice ministro della Difesa, che ministro sempre di quel dicastero nel 2013 con l’avvento di Rohani. Più giovane, 57 anni, è Rostam Ghasemi, diventato ministro del Petrolio nel 2011, quando il crescente ostracismo rivolto all’entourage di Ahmadinejad, isolava inesorabilmente il presidente in carica. Garantisce Ghasemi l’ex appartenenza al corpo dei Pasdaran e il sostegno dell’allora capo del Majles Larijani. Un punto di forza di Ghasemi è la presidenza del gruppo economico Khatan al-Anbia, uno dei pilastri del potere tecnico-economico dei Pasdaran. La holding controlla più di  ottocento società e gestisce un’infinità di contratti governativi. Con oltre 40.000 dipendenti (25.000 solo ingegneri) interviene nell’edilizia (autostrade, ponti, tunnel, dighe), acquedotti, gasdotti, oleodotti. 

venerdì 23 aprile 2021

Afghanistan, Blinken spiazzato e l’araba fenice del ritiro

Solo la Superlega del calcio Paperone, agognata da Perez e dalla quarta generazione Agnelli, ha ottenuto un flop più vistoso di quanto registra il piano preparato da oltre un mese dal Segretario di Stato americano Blinken. Domani a Istanbul non si sarà alcuna continuazione dell’interrotta trattativa di Doha. Il politico statunitense è stato snobbato dai talebani, che già da dieci giorni annunciavano la loro assenza, sottolineando un’assoluta disapprovazione ai proclami del presidente Biden. Per i turbanti le truppe d’occupazione Nato devono sloggiare il primo maggio, come pattuito e firmato dalla delegazione americana quattordici mesi addietro, non l’11 settembre. Due giorni fa anche la Turchia s’è smarcata, e tramite il ministro degli Esteri Çavusoğlu ha comunicato che ogni incontro sul tema afghano è rimandato alla chiusura del Ramadan, metà maggio. America sola e isolata, dunque, perché le altre potenze invitate ovviamente prendono atto della cancellazione. La grana per la Casa Bianca s’allarga, visto che l’uomo dei comunicati talebani, Neem, rincara la dose: una presenza armata occidentale successiva al primo maggio non vincola più gli studenti coranici al rispetto delle clausole firmate in Qatar. Questo significa che il ‘cessate il fuoco’ applicato verso i militari Nato, non varrà oltre. Essi saranno considerati nemici alla stregua dell’Afghan National Army che ha continuato a essere un bersaglio. Maggio è tradizionalmente il mese clou della ‘campagna di primavera’ con cui l’insorgenza talebana negli anni passati ha attaccato truppe e basi. Perciò i generali Nato, impegnati a programmare la smobilitazione, si trovano davanti a un’incognita non da poco. 


Claudicante appare il percorso diplomatico della nuova amministrazione Usa, che volendo riprendere uno spazio adeguato nell’area mediorientale dove i pasticci di Obama e il disimpegno di Trump hanno creato un decennio di vuoto, vede ora la presuntuosa apparizione della coppia Biden-Blinken davanti a personaggi che non pendono certo dalle loro sottili labbra. Russia, Cina, la stessa India - pur zavorrati da problemi di tenuta interna, oltre a quelli prodotti dalla pandemia - hanno programmi propri, li confrontano e li incrociano da tempo. Gli altri attori regionali che gli stessi americani vogliono al tavolo: Turchia, Pakistan, e anche Iran, vantano relazioni con le predette potenze che possono far a meno delle offuscate stelle statunitensi. Washington tutto questo lo vede e sta cercando varchi nelle nazioni di confine, soprattutto settentrionale, con l’Afghanistan. Gli Stati Uniti vorrebbero, a suon di dollari, costruire in Uzbekistan e Tajikistan nuove basi aeree. Le dieci tuttora presenti nel Paese che hanno gestito per un ventennio, non dovrebbero sparire; ma la ‘pace’ che la Casa Bianca sostiene di volere non si basa affatto su un disarmo. Del resto ieri il generale McKenzie, responsabile militare per il Medio Oriente, ha evidenziato tutte le perplessità dello Stato Maggiore Usa: dopo il ritiro delle truppe Nato l’esercito locale collasserà, se non continuerà a ricevere armi, fondi (oltre 4 miliardi di dollari all’anno) e consulenze. Ma soprattutto se verrà meno il supporto aereo che, anno dopo anno, ha sbrogliato i conflitti di terra più ostici per i soldati di Kabul. Che la vicenda del ritiro diventi una sorta d’araba fenice del Pentagono?

mercoledì 21 aprile 2021

L’egiziana Laila Soueif, esperta in detenzioni

Nella vita Laila Soueif ha insegnato matematica, tuttora è docente presso l’Università del Cairo. Ma nel corso dei suoi sessantacinque anni è diventata, suo malgrado, esperta in strutture carcerarie. Lì sono finiti il marito, Ahmed Seif al-Islam, avvocato dei diritti, scomparso ormai da sette anni, e il primogenito Alaa Abdel Fattah, oggi quasi quarantenne, internato come il genitore già ai tempi di Mubarak per l’attivismo politico che ne distingueva il carattere sin dalla giovane età. Dopo un arresto e un rilascio in epoca Sisi, Alaa è da due anni nuovamente detenuto, con l’accusa di attentare alla sicurezza dello Stato. Le altre figlie di Laila, Mona e Sanaa, hanno avuto problemi con la giustizia l’estate scorsa, quando assieme alla madre attuavano un sit-in davanti al supercarcere di Tora dove il fratello è rinchiuso. Impossibilitate a visitarlo, a consegnargli una lettera hanno inscenato la protesta, subendo un’aggressione pilotata dalle Forze dell’Ordine (se Intelligence, polizia, guardie carcerarie non s’è mai saputo, ma il manipolo di donne che le ha aggredite agiva su mandato). Le tre Soueif denunciavano anche il pericolo d’infezione che il congiunto e altri carcerati vivevano quotidianamente per il sovraffollamento delle celle, l’impossibilità di mantenere distanze di sicurezza senza i presidi sanitari previsti. Le stesse cose dichiarate dai parenti di Patrick Zaki e di tanti prigionieri meno noti. Anche Sanaa lo scorso marzo è finita in galera, subendo una condanna di diciotto mesi per le informazioni sui rischi di salute causati dal Covid 19, giudicate dalla Corte “false”. Nonostante il riserbo del regime, nelle carceri egiziane si sono verificati decessi per la pandemia. 

 

Però l’impunità regna sovrana, anzi punisce chi lancia l’allarme tramite i social, come ha fatto Sanaa. Suo malgrado la professoressa Laila s’è trovata di continuo a fare i conti con la materia giudiziaria che colpiva la famiglia. Durante la repressione di Al-Sisi ha visto imperversare centinaia di motivazioni che producono condanne. Questioni pretestuose, in gran parte sostenute da un clima a metà strada fra la falsità e la paranoia che attribuisce a qualsiasi pensiero diverso dalle posizioni governative, spesso neppure dissidente, un “pericolo per la sicurezza nazionale”. In base al quale s’imprigiona l’opposizione, s’imbavaglia la stampa, si perseguitano intellettuali e chiunque reclami libertà di pensiero e parola. Verso tutti c’è l’accusa di terrorismo. Nella migliore delle ipotesi la detenzione viene procrastinata di mese in mese in attesa d’una sentenza che s’allontanata all’infinito. Si fa di tutto per indurre in depressione chi subisce simili trattamenti, si punta al suo deperimento fisico che può portare alla morte. E’ accaduto a detenuti famosi, i Morsi padre e figlio, e se per l’ex presidente c’era un sospetto di malattia cardiaca, per il venticinquenne Abdullah lo stress carcerario sembra unito a un’iniezione letale. Laila denuncia da tempo questo stato di cose, non solo per la progenie reclusa, per le stesse condizioni d’una nazione prigioniera nelle galere e fuori, dove chi gira per via è angosciato dalla paura di finire nell’inferno di chi sta dentro. La professoressa Soueif continua a ripeterlo, negli incontri pubblici che tuttora tiene. Dice che non ha nulla da perdere e continuerà.  Continuerà a denunciare anche contro quel mondo che non vuol sapere.

mercoledì 14 aprile 2021

Zaki, l’italo-egiziano prigioniero

Il Senato della Repubblica Italiana si lava la coscienza offrendo all’unanimità la cittadinanza italiana a Patrick Zaki. Unica eccezione le trentatrè astensioni dei post-fascisti di Fratelli d’Italia, la cui unica coscienza è rivolta a sbattere in faccia la porta ai fratelli migranti di Zaki. Il pronunciamento è significativo eppure potrà servire a poco, come s’è affrettata a precisare una voce del governo, seppure di vice ministro. Marina Sereni, dello stesso schieramento di Francesco Verducci, promotore dell’iniziativa portata al cospetto del Parlamento, e vice al dicastero degli Esteri ricorda che “la cittadinanza acquisita è priva di effetti pratici davanti al diritto internazionale”, infatti quella d’origine ha un peso prevalente. Eppure la vice di Di Maio promette l’impegno dell’Esecutivo in ogni sede per il conseguimento della liberazione dello studente egiziano, specializzando presso l’università di Bologna. Un ennesimo governo italiano, quello ‘salvifico’ di Draghi, s’appresta a rispolvera iniziative di facciata. Quando è palese che l’autocrazia di Sisi, che negli anni ha sequestrato, torturato e assassinato migliaia di Zaki, uno dei quali era il nostro concittadino Giulio Regeni, si fa beffa della magistratura italiana. La quale, individuati i cinque mukhabarat responsabili dell’omicidio del ricercatore, ne chiedeva l’arresto e l’estradizione senza ottenere risposta alcuna. Ancor più irritante la posizione della presidenza egiziana che ha sorvolato gli inviti del secondo governo Conte per l’ottenimento di giustizia. Eppure, anche in quell’occasione il Primo Ministro, s’è fermato lì. E peggio, come altri esecutivi che l’avevano preceduto (uno lo guidava sempre lui), ha deciso di non interrompere rapporti diplomatici né quelli economici col Paese degli omicidi, delle carcerazioni, delle torture. I lobbisti di Eni, Leonardo, Fincantieri che alla Farnesina, al Mise e forse, nello stesso Palazzo Chigi,  contano più di ministri, premier e dei partiti che li esprimono, decidono su presente e futuro della politica estera, che resta totalmente subordinata non alla ragion di Stato ma a quella degli affari. E al cittadino italo-egiziano Zaki resta solo l’afflato di amici e sodali.

Biden, il peso del disonore afghano

Via dall’Afghanistan promette Biden e sceglie la data simbolo dell’11 settembre. Quella della ferita inguaribile per la potenza americana, del sangue e del panico diffusi fra gente innocente. Il seguito è noto, una vendetta contro una terra e la sua gente ree - sosteneva la Cia - di offrire rifugio a Osama Bin Laden, il regista della strage nel cuore di New York. Così tre missioni lunghe vent’anni, milioni di profughi interni e in fuga senza meta pur di scappare dalla morte che ha invece inchiodato mezzo milione di fratelli e sorelle. Via da un disastro politico che ha definito democrazia l’investitura di gaglioffi: Hamid Karzai, due volte presidente, Ashraf Ghani, suo emulo in tono minore, con le loro corti di faccendieri immorali, criminali di guerra promossi vicepresidenti (Fahim, Khamili, Dostum). Quattro governi fomentatori di corruzione, ruberie, scandali che hanno bloccato e bloccano ogni speranza legislativa. Via dalla disfatta militare che ha visto il progressista Obama, emulare lo JFK del Vietnam, giù bombe e marines, giunti fino a centomila, praticando dieci anni dieci d’un’intensissima guerra che la Nato pensava di dominare, invece ha perduto offrendo ai talebani la patente di resistenti contro l’invasione straniera. Un’occupazione fatta di bombardamenti sulla gente normale, magari non alla moda come il ceto impiegatizio stroncato dentro le Twin Towers obiettivo di Qaeda, ma contadini e pastori che tornando la sera nei villaggi dell’Helmad, di Balkh  finivano sotto missili degli F-16. Pensavano Colin Powell, Petraeus, pensavano gli strateghi della guerra tecnologica d’azzerare l’azione talebana? Non è andata così. Gli Ied fanno del male quanto i droni e soprattutto in virtù delle Extraordinary rendition delle Task Force 45 e simili, con la partecipazione orgogliosa quanto succube di specialisti d’ogni Paese, i taliban continuano a considerarsi patrioti e reclutare i figli di chi ne ha visti altri crepare sotto le bombe.  

 

Via dallo sfacelo economico con lo sperpero di duemila miliardi di dollari, usati solo per sostenere un autoreferenziale apparato amministrativo-burocratico. Che non ha costruito nessuna strada, nessuna scuola, nessun ospedale. Anzi uno di questi, finanziato da Médecins sans frontières a Konduz, nel 2015, durante un raid antitalebano, è stato bersagliato dai bombardieri dell’Us Air Force, facendo morti e feriti fra il personale sanitario in servizio. Le uniche strutture create sono nove basi aeree che, c'è da giurare, non verranno smobilitate, servono per continuare a vigilare i cieli del cuore dell'Asia dove i nemici e la competizione non mancano. Un fiume di aiuti internazionali sono stati gestiti dalle Istituzioni pilotate da Washington e dispersi in ruberie degli apparati statali dove i boss sono di casa. Nulla giunge ad associazioni locali di cui abbiamo conosciuto e narrato l’impegno rivolto a orfani, a donne salvate dalla violenza domestica e societaria, ai parenti delle vittime di quelli che l’Occidente definisce “danni collaterali”. Novemila ne ha contati l’Unama lo scorso anno, tremila i morti, seimila i feriti. E questa era la stagione delle trattative di pace, della firma in calce che doveva cambiare tutto, mentre tutto è rimasto uguale. I vent’anni di buio che statunitensi, alleati Nato, l’apparato servile afghano da essi predisposto fanno pesare sul Paese, si materializza nel soffocamento d’ogni capacità d’impresa. Come accade ad altre comunità tenute prigioniere e succubi, si svendono i beni interni e s’impedisce ogni iniziativa volta a creare un’economia autoctona. Così si perpetuata una dipendenza cronica da cui non si vede all’orizzonte alcuna emancipazione. L’unico futuro è rappresentato dalle fughe: quella dei giovani afghani che gonfiano le file d’una migrazione forzata dalla guerra e dall’assenza di prospettive. E la fuga-riparo dei militari Nato che evitano di combattere ancora per qualcosa che non ha ragione d’esistere. Eppure resta il vuoto. L’incompiuta finora sui tavoli di Doha e Mosca, con la variante di quello di Ankara chiesto dal Segretario di Stato Blinken, concesso da Erdoğan sempre disponibile su ogni scacchiere internazionale e glissato dai turbanti, deve conciliare un apparato fallito con talebani e fondamentalisti sparsi sul territorio, una maledizione che pesa sulla pelle d’un popolo martoriato. Da questa mediazione dovrebbe nascere un governo di transizione che forse neppure partirà, mentre l’ipotesi di guerra civile è un fantasma che riappare. Chissà, dunque, se gli americani faranno un biglietto d’andata e  ritorno o ci sarà qualche nuovo gestore del moderno “Grande Gioco”.

lunedì 12 aprile 2021

India pandemica, allarmi interni e pericolo globale

L’impossibilità di tracciare i contatti, la compiacenza e i passi falsi governativi hanno ridotto l’India a uno dei luoghi al mondo più colpiti dall’attuale pandemia di Covid-19. Difficoltà possono essere pagate da tutti: gli epidemiologi avvertono che gli errori compiuti nel secondo Paese più abitato al mondo avranno ripercussioni globali. L’annuncio non turba i politici indiani. Intervenendo sulla situazione che da due mesi appare fuori controllo il premier Modi, anziché insistere con le chiusure locali nei luoghi a più elevata contaminazione, ha ipotizzato un ritorno a un grande lockdown. Ma gli osservatori sostengono che non lo farà. E’ più preoccupato delle ripercussioni economiche che coinvolgono masse enormi; decine di milioni di cittadini non sono intenzionati a rivivere restrizioni. Così il premier lancia un personale vademecum comportamentale: “Test, tracciamenti e trattamenti”, buono per la propaganda populista che lo contraddistingue. L’amministrazione centrale se la prende con quelle locali, incolpate d’incapacità e incompetenza (sic), ma per l’ondata che da settimane produce picchi superiori ai 150.000 contagiati al giorno si resta fermi alle raccomandazioni di mascherine e distanziamento, sistemi dopo un anno non utilizzati da tutta la popolazione. Anzi il rilassamento è all’ordine del giorno. Del resto proprio Modi e il suo partito l’hanno incentivato, organizzando una ventina di oceanici raduni politici frequentati da migliaia di supporter senza protezione sul volto.

 

Per la fine di questo mese, l’esecutivo ha dato il benestare al rituale pellegrinaggio hindu Purna Kumbh Mela, con milioni di persone che vanno a immergersi nei fiumi sacri. Ad Haridwar, sulle rive  del Gange, è atteso un milione di fedeli… Ringalluzzito da Modi il capo dell’Uttarakhand, ossequioso al Bharatiya Janata Party, già dichiara che “La fede in Dio supera la paura del Covid-19”. La sua dev’essere in ribasso, visto che di recente è risultato positivo al virus. Eppure proprio un anno fa un improvvido raduno religioso, in quel caso islamico, attuato in una zona di Delhi dal movimento missionario Tablighi Jamaat, provocò centinaia di contagi fra i partecipanti e venne fortemente criticato dal governo. Seguì una caccia all’untore musulmano praticata dai militanti del Bjp al grido di ‘Coronajihad’. La campagna di vaccinazione è in palese ritardo, per il copioso caos e la mancanza di vaccini, nonostante la nazione-continente sia la maggiore produttrice di farmaci del pianeta. La tanto dibattuta immunizzazione con AstraZeneca, ora Vaxzevria, vede il 40% della produzione mondiale nel ciclopico Serum Institute, di Pune, metropoli dello Stato Maharashtra, il secondo più popolato dell’India coi suoi 112 milioni di abitanti. Bloccando le commesse estere e fregandosene dei contratti, ora i vertici industriali fanno sapere che almeno per due mesi tutti quei vaccini saranno utilizzati in loco. Eppure diverse regioni non si sentono rassicurate né dall’establishment politico né da quello aziendale.

 

Se l’inoculazione non progredisce l’India, che finora non ha vaccinato neppure l’1% dei cittadini, necessiterà di almeno due anni per raggiungere il 60-70% d’immunizzazione. Gli osservatori sono preoccupati perché i Paesi dai grandi numeri coi loro andamenti possono influenzare la situazione internazionale, specie per un virus assai mutageno come Sars CoV2. Lo squilibrio nel monitorare i casi indiani durante la prima ondata pandemica è legato all’alto numero di popolazione giovanile, meno suscettibile all’infezione originaria; attualmente con le varianti inglese, brasiliana, sudafricana la situazione cambia. Le statistiche indiane ingannano perché coinvolgono l’intera popolazione, un terzo della quale - 450 milioni di persone - non supera i 35 anni. Calcolando solo settantenni e ottantenni, magari si scoprirebbe una mortalità simile a quella statunitense o italiana. Comunque il monitoraggio deficitario ha offerto una falsa percezione del pericolo proprio in casa e l’amministrazione statale stenta tuttora ad attrezzarsi. Gli stanziamenti per la salute sono quelli della scorsa estate, scienziati interni e i colleghi che parlano da fuori dicono che un Pase tanto popolato necessita d’un rapido piano vaccinale. Ma, come annunciato, il pericolo è generale: per com’è interconnesso il mondo un’India in ginocchio rallenterà lo sforzo globale.

venerdì 9 aprile 2021

La luce di Akbar, romanzo di Navid Carucci

 

Quant’è lontano, misterioso, complesso l’Hindostan in cui si muove Abu’l Fath Jalal al-din Muhammad Akbar, terzo imperatore della dinastia Moghul. Indubbiamente lo è. Ma può essere avvicinato, rivelato, diventare addirittura accessibile se ci si lascia condurre per mano dalle storie pubbliche e private che Navid Carucci, con prosa maestra, offre in questo romanzo. Le vicende narrate sono liberamente vissute nella mente dell’autore, eppure i personaggi, da quelli centrali - il sovrano Akbar, l’erede Salim, il mullah Badauni, il gesuita Acquaviva, la bella Man Bai, l’inconsolabile Samir - sono tutti vissuti cinque secoli or sono. L’anno 988 dell’Egira, il 5340 per gli Ebrei, il 4681 per gli Hindu, il 1580 per i Nazareni. Certo, l’apice dinastico raggiunto proprio sotto Akbar, il più Grande non solo di nome, fu una fase di luce che andò ad affievolirsi e soprattutto nessun Capo di Stato ne eguagliò saggezza, giustizia, curiosità, tolleranza, timore di Dio. Vissuto poco più di sessant’anni, la salute non lo sostenne e già a quaranta delle coliche facevano temere una sua prematura scomparsa. Ma Allah protesse ancora per due decenni la capacità di Akbar di far misurare fra loro teologi chiusi nei rispettivi dogmi: sunniti, sciiti, hindu, zoroastriani, gesuiti in missione, e immancabili cultori della Torah. Un incontro di confessioni e culture, di menti e desiderio di primato. Eppure l’equilibrio di Akbar poneva nella luce migliore le qualità d’ognuno, creando in tempi dove, in ogni latitudine, per fede ci si sgozzava, il modo per misurare l’intelletto, rilanciare il confronto e l’apertura dell’anima. Vicende tuttora attualissime, perché la storia legata alla politica per secoli ha continuato a usare la religione per sopraffare anziché meditare e consolare. Nello spedito srotolarsi della trama che, con un uso mirabile dei dialoghi fra i personaggi, procede come la sceneggiatura d’una pièce teatrale, hanno un ruolo vitale gli intrecci personali, le storie amorose, le passioni, le fobìe, i desideri, le frustrazioni. In ogni pagina c’è una vita antica, non diversa, però, da quanto di simile continua a esistere nel nostro presente. Che per essere meglio compreso deve guardare indietro, poiché nella Storia come nella vita quel che ci ha preceduto non dista poi tanto da quanto sta accadendo. 

mercoledì 7 aprile 2021

Erdoğan, machismo vendicativo

 
Lasciare senza una poltrona
ufficiale l’ospite Ursula von der Layen, Presidente della Commissione Europea, come ha fatto il presidente turco Erdoğan, costituisce un atto articolato di sgarbo e vendetta. Gesto innanzitutto machista, con lo strascico della politica incarnata dagli uomini per gli uomini e dai potenti che si misurano fra loro. Von der Layan - ahilei - rappresenta l’Europa che ha verso la Turchia e il suo padrone un rapporto d’immenso odio e ripetuto compiacimento. Appartiene alla nazione e al partito che maggiormente esprimono il desiderio di tenere ai margini il Paese anatolico, tranne poi chiedergli favori sullo scivoloso terreno della migrazione, parcheggiata nella terra di confine fra il vecchio continente e il mondo asiatico, come accade da anni coi profughi siriani. Una questione sulla quale l’altro ospite europeo ad Ankara, il Presidente del Consiglio d’Europa Charles Michel, nei momenti dell’incontro precedente allo sgarbo a Frau von der Layen, sottolineava l’apprezzamento Ue per il riparo offerto dalla Turchia ai quattro milioni di rifugiati e faceva presagire l’arrivo d’un assegno per compensare il favore, dopo l’interruzione nel 2016 dell’unica tranche pagata: sei miliardi di euro. Eppure nonostante il clima collaborativo fra le parti, le tensioni dei trascorsi mesi estivi smussate sullo sfruttamento dei fondali del gas che opponevano gli Stati membri greco e cipriota alle mire turche, poi gli screzi sulla Libia che potrebbero attenuarsi dopo i passi diplomatici italiani di queste ore, il gestaccio sottolinea due punti irrinunciabili per Erdoğan. Primo: la Turchia non s’imbriglia, vuole patteggiare da pari a pari anche con un presunto Superstato qual è l’Unione Europea, di cui il sultano conosce divisioni e contraddizioni, a cominciare da quella militare.  A tal punto che sotto lo scudo della Nato, Washington considera Ankara quanto, e forse più, di Londra, Parigi e Berlino. Secondo: il presidente turco, che riceveva gli ospiti sotto una gigantografia di Mustafa Kemal, sapendo che per la ricorrenza del centenario la sua immagine oscurerà anche quella del padre della patria, ha fatto   coincidere la visita politica col blocco delle risorse di 377 terroristi, veri o presunti (205 affiliati alla rete gülenista Fetö, 77 militanti del Pkk, 9 membri Dhkp-c, 86 dell’Isil). Tanto per ricordare chi comanda in Anatolia e quel che altri devono constatare senza intervenire, perché negli affari interni non sono ammesse ingerenze. Invece l’Ue continua a dare voti ad Ankara, a censurare i suoi comportamenti lesivi dei diritti civili, a dirsi con Von der Layen “preoccupata che la Turchia si sia ritirata dalla Convenzione di Istanbul”. Uno smacco per il sultano, che giunge per giunta da una donna. Inammissibile. Incurante del galateo, anche quello diplomatico, l’ha lasciata smarrita in piedi per poi farla appoggiare su un divano, ai margini del confronto fra uomini, come un’interprete o una segretaria d’appoggio. Il guaio è che Charles Michel, sia rimasto al suo posto. Timore reverenziale? Ragioni di protocollo contro chi non le rispetta? L’altro macho, quello occidentale, dell’apparato democratico Ue, avrebbe potuto, almeno lui, assumere un comportamento di bon ton, cedendo il posto alla collega. Invece niente. Maschi. Così diversi, così uguali. In politica e non solo.

lunedì 5 aprile 2021

Afghanistan, Ghani inventa un suo piano

Vanta un attacco sterminatore l’Afghan National Forces e lo evidenzia con soddisfazione con comunicati ufficiali. Con un’offensiva lanciata ad Arghandab, località prossima alla città di Kandahar, ha ucciso 37 talebani, sequestrando loro motociclette e armi. L’area era da mesi sotto il controllo dei combattenti coranici. Invece stamane un Improvised Explosive Device ha fatto saltare in aria un veicolo di pattugliamento a Qarabagh, nel distretto di Kabul. Dei cinque militari della sicurezza investiti dalla deflagrazione uno è morto, quattro sono feriti. Fra i due episodi può non esserci collegamento, quest’attacco, come spesso accade, non ha ricevuto alcuna rivendicazione e l’episodio ha le caratteristiche delle ordinarie azioni di guerriglia che con un impegno minimo, consistente nel disseminare Ied, si possono colpire i pattugliamenti militari dei governativi. Naturalmente nelle esplosioni possono finire coinvolti passanti, ma questo rappresenta la “normale” quotidianità afghana e gli stessi autori, responsabili di uccisioni di civili, sostengono che ciascuno sa ciò che rischia muovendosi per via, sa che è in corso una resistenza armata agli occupanti Nato e a un esercito collaboratore,  organizzato e sostenuto dalla missione Resolute Support. Azioni  simili rientrano nelle cronache d’ogni giorno, ieri tre membri dell’ANF erano stati uccisi da un’autobomba esplosa al loro passaggio nel distretto di Paghman. Un servizio dell’emittente televisiva Tolo Tv ricordava che nel mese appena concluso le esplosioni in varie zone del Paese hanno diffuso morte fra 307 cittadini, portandone 350 in ospedale. 

 

Intanto lo spiazzato dai due tavoli dei colloqui di pace finora tenuti a Doha e Mosca, il presidente Ghani, cerca visibilità nell’assise proposta dal Segretario di Stato statunitense Blinken: un nuovo tavolo di trattative, a supporto di quello qatarino, da avviare in Turchia. L’iniziativa verrebbe allargata alle Nazioni Unite, tanto per offrirle respiro internazionale. Per scrollarsi di dosso l’epiteto di fantoccio americano o semplicemente per la frustrazione conseguente a questo che per anni è stato il suo ruolo, Ghani fa il classico passo più lungo della gamba e cerca di opporre all’ipotesi d’un sistema politico per l’immediato futuro che includerebbe anche i talebani una propria Road map. Propone, prima fase: l’attuazione d’un cessate il fuoco incondizionato monitorato internazionalmente (da chi? truppe Nato, caschi blu Onu?). Seconda fase: elezioni presidenziali per implementare un “governo di pace”. Terza fase: reintegrazione di rifugiati e sviluppo nazionale. Secondo quanto dichiarato dalla sua cerchia tale Road map sarebbe all’attenzione di alcuni Paesi stranieri, mentre la discussione in Turchia potrebbe avviarsi fra un paio di settimane, però non si sa ancora dove. Prima dell’apertura dell’incontro il governo dovrebbe incontrare una delegazione di studenti coranici, ma costoro hanno sempre rigettato l’ipotesi, non vogliono riconoscere all’attuale presidente afghano alcuna autorità. I taliban di fatto trattano con gli statunitensi, che vorrebbero tardare il ritiro delle truppe oltre la già accettata scadenza del 1° maggio, e chiedono in cambio la liberazione di qualche migliaio di loro combattenti. Questi gli ultimi e unici patteggiamenti che potrebbero concretizzarsi in base al potere contrattuale dei due fronti a confronto.

venerdì 2 aprile 2021

Elezioni palestinesi: Barghouti, il prigioniero immarcescibile

Uno dei pochissimi leader palestinesi amati dal suo popolo, oltre le fazioni d’appartenenza, Marwan Barghouti, l’uomo che Israele ha murato vivo in prigione da diciannove anni condannato a cinque ergastoli, pone il peso del suo carisma sulle prossime politiche previste per il 22 maggio. A queste, il 31 luglio, dovrebbero seguire le presidenziali che, potrebbero segnare definitivamente l’uscita di scena dell’ombra grigia di Abu Mazen, il raìs che ha congelato la politica palestinese da un quindicennio. Succeduto nel ruolo al ben più illustre raìs Yasser Arafat - capo militare e politico di Fatah, il condottiero che faceva pulsare i cuori della sua gente, prima d’avallare il disegno d’uno Stato mai nato perché subalterno al potentissimo occupante israeliano - Abu Mazen ha condizionato in peggio la situazione degli oltre tre milioni di abitanti della Cisgiordania e dei due della Striscia di Gaza. I primi continuano a essere privati di terra, beni e autodeterminazione dall’illegale insediamento dei coloni difesi ad armi spianate e fumanti dalle truppe di Tel Aviv. I secondi, che dagli anni Novanta viravano verso Hamas, hanno subìto le punizioni dell’Autorità Palestinese che a singhiozzo li depriva dei sussidi della Comunità Internazionale, investita dagli Accordi di Oslo del matrigno compito d’un assistenzialismo peloso volto a impedire un’economia autoctona e a condizionarne ogni passo politico. 

 

Quindi gli ennesimi crimini d’Israele che ha inanellato vari attacchi militari (Piombo Fuso 2008, Colonna di Nuvole 2012, Margine di Protezione 2014) rivolti alla popolazione civile prim’ancora che sui miliziani verdi e su quelli della Jihad islamica. Ma perché l’ombra di Barghouti pesa sulle consultazioni palestinesi? Perché attraverso i suoi avvocati e la moglie Fadwa, ha ufficializzato l’appoggio a Nasser al-Qidwa che pone una candidatura da dissidente nell’area di Fatah. Lui, nipote di Arafat, era stato escluso nelle scorse settimane dai vertici del partito, non si sa se perché vive a New York o per altri motivi. Col sostegno d’un ben più importante isolato, il prigioniero della Seconda Intifada, il suo gruppo denominato “Libertà” può sperare di avere un buon successo alle parlamentari. Barghouti s’era battuto per una lista unitaria dell’intera Fatah, ma l’iniziativa è subito naufragata. Sia per la frammentazione interna allo storico gruppo, sia per diverse visioni fra le giovani generazioni e la vecchia guardia. Delle molte liste presenti tre si contendono la maggioranza dei seggi. Quella ortodossa benedetta dall’attuale presidente nell’ANP, quella del vecchio capo dell’Intelligence, Mahmoud Dahlan, il chiacchieratissimo amico di Cia e Shin Bet prim’ancora che della dinastia hashemita presso la quale ha svernato dopo il conflitto con Hamas nel 2007. 

 

Poi è riparato negli Emirati Arabi Uniti a seguito d'una condanna per l’accaparramento di fondi dell’ANP. Infine il terzo gruppo, quello di Barghouti che appoggia l’outsider al-Qidwa. Per le presidenziali ricorre ancora l’ottantacinquenne Abu Mazen, Haniyeh capo politico di Hamas, e proprio Barghouti che secondo le leggi palestinesi può candidarsi pur da detenuto. Fra l’altro i sondaggi lo danno ampiamente in testa con l’appoggio del 46% dei potenziali votanti.  Il richiamo elettorale, atteso per dodici anni, potrebbe portare alle urne un gran numero degli aventi diritto, fra loro più d’un milione di persone vota per la prima volta. Fra i palestinesi paradossalmente più accreditati, i 350.000 che ancora vivono a Gerusalemme-est, c’è l’incognita di ostacoli alle operazioni di voto per l’impossibilità di tenere gli scrutini in loco. Il Consiglio nazionale palestinese, che dovrebbe andare anch’esso alle urne ed essere rinnovato il 31 agosto, ha fatto sapere che senza il voto nella Città Santa le elezioni potrebbero essere annullate. Dunque, Israele e i suoi veti sono tirati in ballo davanti agli osservatori internazionali. Ma anche quest’ultimi rischiano di non ricevere il visto di partecipazione come supervisori della regolarità delle elezioni. E non certo per ragioni di Covid che vedono la nazione israeliana coperta dalla vaccinazione totale già ora al 53%.

giovedì 1 aprile 2021

Sete, infezioni e speranze nel Rojava occupato

Più della pandemia da Covid, come in tanti angoli del mondo comparsa nel tardo inverno 2019, è stato l’autunno di quell’anno a obnubilare le informazioni sulla reale utopia che dal 2012 aveva assunto la denominazione di Rojava. I notiziari hanno perso le tracce di quell’Amministrazione Autonoma dei territori a cavallo d’un confine segnato sulle mappe e nella giurisdizione degli Stati nazionali di Turchia e Siria, una demarcazione che in natura manca poiché gli spazi sono aperti, colorati da una campagna feconda, compresa fra i millenari Eufrate e Tigri, non a caso definita Mezzaluna fertile. I media hanno smarrito le coordinate sul Rojava quando i carri armati turchi iniziavano a occupare e pattugliare 480 km di quel territorio, per una profondità anche di più di trenta. Un passo scaturito dagli accordi fra i governi di Ankara, Mosca e Teheran. Con Damasco alla finestra, poiché beneficiando da anni della protezione militare degli alleati russo-iraniani, il fantasma del regime Baath non ha fiatato sull’iniziativa. Anzi, l’ha gradita. Il clan Asad non ha mai amato la comunità kurda che lì vive. L’ha repressa, tutt’al più in certe fasi l’ha tollerata. Ma nella rivolta che dieci anni or sono incendiava un gran pezzo del Medio Oriente - trasformata in Siria in sanguinosissima guerra civile - l’iniziativa dei kurdi di salvaguardare se stessi autodeterminandosi con l’arma della politica e la politica delle armi, è stata subìta dal potere siriano che considerava il Rojava un’usurpazione. Per tacere del sovversivo intento di unire le genti di quella regione: kurdi, arabi, aramaici, armeni, turkmeni, siriaci. Perciò le tre entità statali di Turchia, Siria, Iran accondiscendevano alla sferzante occupazione definita (sic) “Primavera di pace”. Con Putin nel ruolo di frigido arbitro. Le Unità di difesa del popolo e delle donne - che nella carneficina del conflitto siriano tutelavano i propri spazi, soprattutto contro le milizie jihadiste dell’Isis, di Al-Nousra, di Ahrar al-Sham e Faylaq al-Sham (con undicimila le vittime fra militanti e civili) - dopo i successi ottenuti sul campo, erano costrette a una ritirata strategica verso est, nel Kurdistan propriamente detto, seguite da più di mezzo milione di abitanti. Eppure gli altri quattro milioni continuavano e continuano a vivere e convivere con le citate etnìe nelle città e villaggi, dove il presente è diventato difficile per il sopraggiungere della pandemia e lo scorrazzare dell’esercito turco.

 

Invece l’attuale “pacificazione” porta con sé una velenosa coda per ostacolare la vita a chi è restato, prendendolo, ad esempio, per sete. Una storia che solo gli attivisti conoscono riguarda la stazione idrica di Alouk, presso Serê Kanyê, una cinquantina di chilometri a sud-est di Mardin. Dove per iniziativa di delegati turchi, comparsi in loco all’inizio delle operazioni militari, il pompaggio dell’acqua viene periodicamente interrotto e circa mezzo milione di persone sono private dell’indispensabile elemento. Il diritto internazionale considera simili atti coercizioni criminose, ma da mesi nessuno controlla e interviene. Altra iniziativa impositoria è il reclutamento forzato e la ‘turchizzazione’ di certa quotidianità. Lo denunciano rapporti della comunità kurda di al-Bab, 40 km da Aleppo, e Jarablus, sulle sponde dell’Eufrate, dove specie i giovani vengono forzatamente spinti da agenti della Mıt a corsi di “rieducazione”. Gli s’impone di dimenticare quel che sono, gli si dice che la propria vera identità è turcomanna. Li si prende per fame: se seguiranno i consigli offerti troveranno un lavoro, vestendo la divisa dell’esercito, male che vada finendo in qualche gruppo islamista che stipendia gli adepti. All’inizio della scorsa estate la Fondazione delle donne libere del Rojava e l’Accademia Medica Mesopotamia, attive nei campi profughi che raccolgono sfollati da alcune zone attualmente pattugliate dai carri turchi e russi, hanno riscontrato la presenza di malattie infettive (Leishmaniosis) scaturite sia dalle scarse condizioni igienico-sanitarie in cui i rifugiati vivono, sia dalle carenze alimentari, frutto di blocchi dei rifornimenti predisposti dai controlli militari. La struttura dell’Amministrazione Autonoma tuttora esistente deve provvedere a oltre quattro milioni d’individui, fra cui 1.5 milioni di sfollati provenienti da città riconquistate all’Isis, come Raqqa, e dall’area di Idlib. Alcuni campi pongono seri problemi. Quello di Al-Hol, che raccoglie oltre 60.000 persone a una quindicina di chilometri dal confine iracheno, di recente è passato alla cronaca per i reiterati omicidi perpetrati da cellule fondamentaliste interne che puniscono i “traditori” disposti a collaborare coi “carcerieri”. Quest’ultimi sono le Forze democratiche siriane, la milizia kurdo-araba che ha avuto la meglio su quei nemici, e che gli Usa hanno lasciato col problemino di gestire quella massa umana. Alcuni nuclei dovrebbero essere collocati in aree o nazioni di provenienza dei miliziani, ma tutto è fermo. L’Amministrazione continua a gestire l’economia creata in otto anni e proseguita anche in piena guerra. Del resto, tanto per dirne una, i cereali per la panificazione di quel che resta del popolo siriano provengono dai terreni del Rojava. 

 

E se si parla di riserve idriche, e perfino petrolifere, vale il medesimo discorso. Certo, i soldati fedeli ad Asad, possono venir anch’essi nutriti dal granaio del nord-est, ma durante il conflitto hanno ricevuto da Mosca non solo armi, anche cibo. L’Amministrazione, fra i tanti colpi bassi subìti da chi s’avvantaggiava della lotta delle sue milizie contro l’Isis, si ritrova privata del controllo di alcune vie di comunicazione che tagliano i contatti fra i suoi tre cantoni: Afrin, Kobanê, Cizre. Continua a patire un embargo e, priva com’è di uno scalo aereo attivo, vede convogliati gli aiuti sanitari per l’attuale pandemia sull’aeroporto di Damasco. Da lì, solo se le autorità siriane vogliono, le carovane di camion possono partire. Spesso non accade. In merito alla questione del Covid-19 dall’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia ci confermano che per ora di vaccini non se ne parla. Sars CoV2 ha colpito 10.000 abitanti, il tasso di mortalità è basso: 300 vittime. I controlli sono inesistenti, ma il contagio fra la popolazione appare limitato, sebbene la comunità kurda sia più propensa ad attuare la prevenzione consigliata dagli organismi sanitari, mentre la cittadinanza araba è meno attenta. Il materiale per tutelare la salute, soprattutto mascherine e guanti, è giunto grazie a strutture come la Mezzaluna Rossa di Italia e Germania, mentre associazioni pro kurde hanno recuperato qualche centinaio di respiratori e bombole di ossigeno. E’ indubbio che se la situazione dovesse peggiorare le carenze sono palesi, a tutto gennaio erano disponibili solo 120 posti letto per l’aggravamento della patologia. Ma chi è abituato a vivere nell’emergenza – e gli otto anni di guerra sulla propria terra sono stati più di un’emergenza, peraltro tuttora in corso – non si perde d’animo. L’enorme forza del ‘Confederalismo democratico’ trova nella crisi di Stati nazionali, com’erano Siria e Iraq, un puntello per rilanciare questo progetto. Pur se l’attuale geopolitica stia cercando di rimettere assieme i cocci di quei regimi che dal socialismo per il popolo s’erano trasformati in dittature - personali con Saddam Hussein, familiari con gli Asad - l’autonomia gestionale richiesta e praticata tramite le assemblee e i consigli pianificati dalla Carta del Rojava, e l’economia cooperativa per oltrepassare il capitalismo, rappresentano il sogno che anima quella gente. Più difficile è il rapporto coi regimi, di Turchia e Iran, il cui nazionalismo è alimentato anche dalle chiusure del mondo verso questi Paesi. Eppure, dicono dall’Uiki: se si pensa alla lista sul ‘terrorismo mondiale’, creata dagli Usa e sposata in pieno dalla Ue dopo l’11 settembre, molte nazioni hanno usato quel sistema per i propri fini, incastrando avversari e oppositori politici. Erdoğan, da gran pragmatico, l’applica senza scrupoli: chiunque gli si opponga è accusato di terrorismo. Tale incastro rivolto ai kurdi non mira a colpire solo le migliaia di attivisti coi leader Öcalan, Demirtaș e le sigle dei partiti che rappresentano. Lo scopo primario è censurare una corposa comunità (venti milioni di cittadini sugli ottanta della Turchia), cancellarne origini, cultura, una lingua e cinque dialetti, ingabbiarne le varie religioni, soffocandone la voglia di convivenza e la gioia di vivere. 
 

Questo articolo è presente sul numero di aprile del mensile Confronti