Il clima delle presidenziali iraniane, previste per il prossimo
18 giugno, subisce una fibrillazione dopo la rivelazione del colloquio-verità
effettuato dal ministro degli Esteri Zarif con un giornalista vicino all’attuale
presidente Rohani, Saïd Leyaz. Alcuni passi di quest’intervista, effettuata
quasi due mesi fa, che rientrava in un programma cosiddetto di ‘storia orale’, sono
da due giorni sulla bocca di tutti grazie al media Fars, una delle voci delle potentissime Guardie della Rivoluzione e
hanno scatenato un putiferio. Perché il ministro segnala l’invasivo ruolo d’un
pezzo da Novanta del regime, il comandante delle Forze Al-Qods Qassem
Soleimani, diventato molto più d’un martire dopo il suo assassinio compiuto
all’inizio del 2020 da un drone statunitense. Un crimine rivendicato con
orgoglio dall’allora presidente americano Trump che avrebbe potuto aprire una
crisi armata. Ma così non è stato. L’Iran non rispose, se non simbolicamente, alla
sanguinosa provocazione e la vendetta, pronunciata dalla stessa Guida Suprema
Khamenei, è rimasta nelle intenzioni. Le frasi diffuse del colloquio di Zarif
ribadiscono senza mezzi termini l’ingerenza dell’alto comandante nella politica
estera del suo Paese, ogni passo esterno della diplomazia veniva da lui
vagliato, approvato, mutato. Zarif dice che in più occasioni il generale
autorizzò personalmente sorvoli sul territorio iraniano di aerei russi che
portavano sostegno al regime di Asad. L'affermazione può mette in difficoltà i
buoni rapporti d’alleanza, e di riservatezza, fra Mosca e Teheran.
Come s’apprende dall’intervento del portavoce di Zarif, parecchie sue
considerazioni sarebbero dovute rimanere segrete, la diffusione può solo
servire a screditarne l’immagine davanti alla popolazione e all’elettorato,
visto che il ministro sarebbe stato un possibile candidato di peso alle
presidenziali. La mossa degli avversari conservatori, soprattutto del
cosiddetto partito dei Pasdaran, servirebbe a eliminare un avversario scomodo,
scompigliando la componente riformista di cui un altro nome ventilato è Mostafa
Tajzadeh. Un politico non certo giovane, è
sessantacinquenne, che ha servito nel dicastero dell’Interno due
amministrazioni di Mohammad Khatami nel 1998 e poi dal 2003 al 2005. Tajzadeh
cadde in disgrazia durante le presidenziali del 2009, dove Ahmadinejad ribadì
il suo incarico nonostante le accuse di brogli e l’amplissima protesta di
piazza denominata ‘onda verde’. L’ex ministro venne accusato, come migliaia di
attivisti riformisti e oppositori all’ala tradizionalista, e incarcerato a
Evin, prigione periferica della capitale. Ne uscì nel 2016. Difficilmente la
sua candidatura passerà la selezione prevista dal Consiglio dei Guardiani della
Costituzione. Così due concorrenti di peso del riformismo iraniano verrebbero
entrambi bloccati. Speranze maggiori le ha Ali Larijani, non foss’altro che per
il suo passato di Presidente del Parlamento. Le posizioni moderate, simili a
Rohani, gli consentirebbe di raccogliere il sostegno dei progressisti rimasti
orfani di candidati.
Sul versante ultraconservatore si fanno i nomi dell’ex
comandante delle Guardie della Rivoluzione Mohsen Rezaï, 67 anni, già candidato
nel 2009 a cui elettori e supervisori gli preferirono l’ex basij Ahmadinejad,
poi scaricato da Khamenei per il suo percorso d’adesione al misticismo dell’Hojatiye, il movimento che attende
l’arrivo dell’Imam nascosto. Ma anche per contestazioni su operazioni poco
limpide della sua seconda gestione, probabilmente entrate in conflitto con le Bonyad clericali e dei Pasdaran. Quindi
Hossein Dehghan, 64 anni, anch’egli appartenente alla famiglia dei Pasdaran,
presente sia nell’amministrazione riformista Khatami, seppure come vice
ministro della Difesa, che ministro sempre di quel dicastero nel 2013 con l’avvento
di Rohani. Più giovane, 57 anni, è Rostam Ghasemi, diventato ministro del
Petrolio nel 2011, quando il crescente ostracismo rivolto all’entourage di
Ahmadinejad, isolava inesorabilmente il presidente in carica. Garantisce
Ghasemi l’ex appartenenza al corpo dei Pasdaran e il sostegno dell’allora capo
del Majles Larijani. Un punto di
forza di Ghasemi è la presidenza del gruppo economico Khatan al-Anbia, uno dei pilastri del potere tecnico-economico dei
Pasdaran. La holding controlla più di ottocento
società e gestisce un’infinità di contratti governativi. Con oltre 40.000
dipendenti (25.000 solo ingegneri) interviene nell’edilizia (autostrade, ponti,
tunnel, dighe), acquedotti, gasdotti, oleodotti.
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