Via dall’Afghanistan promette Biden e sceglie la data simbolo
dell’11 settembre. Quella della ferita inguaribile per la potenza americana, del
sangue e del panico diffusi fra gente innocente. Il seguito è noto, una vendetta
contro una terra e la sua gente ree - sosteneva la Cia - di offrire rifugio a
Osama Bin Laden, il regista della strage nel cuore di New York. Così tre
missioni lunghe vent’anni, milioni di profughi interni e in fuga senza meta pur
di scappare dalla morte che ha invece inchiodato mezzo milione di fratelli e
sorelle. Via da un disastro politico
che ha definito democrazia l’investitura di gaglioffi: Hamid Karzai, due volte
presidente, Ashraf Ghani, suo emulo in tono minore, con le loro corti di
faccendieri immorali, criminali di guerra promossi vicepresidenti (Fahim,
Khamili, Dostum). Quattro governi fomentatori di corruzione, ruberie, scandali
che hanno bloccato e bloccano ogni speranza legislativa. Via dalla disfatta militare che ha visto il progressista Obama,
emulare lo JFK del Vietnam, giù bombe e marines, giunti fino a centomila,
praticando dieci anni dieci d’un’intensissima guerra che la Nato pensava di
dominare, invece ha perduto offrendo ai talebani la patente di resistenti
contro l’invasione straniera. Un’occupazione fatta di bombardamenti sulla gente
normale, magari non alla moda come il ceto impiegatizio stroncato dentro le
Twin Towers obiettivo di Qaeda, ma contadini e pastori che tornando la sera nei
villaggi dell’Helmad, di Balkh finivano
sotto missili degli F-16. Pensavano Colin Powell, Petraeus, pensavano gli
strateghi della guerra tecnologica d’azzerare l’azione talebana? Non è andata
così. Gli Ied fanno del male quanto i droni e soprattutto in virtù delle Extraordinary rendition delle Task Force
45 e simili, con la partecipazione orgogliosa quanto succube di specialisti
d’ogni Paese, i taliban continuano a considerarsi patrioti e reclutare i figli
di chi ne ha visti altri crepare sotto le bombe.
Via dallo sfacelo economico con lo sperpero di
duemila miliardi di dollari, usati solo per sostenere un autoreferenziale
apparato amministrativo-burocratico. Che non ha costruito nessuna strada,
nessuna scuola, nessun ospedale. Anzi uno di questi, finanziato da Médecins sans frontières a Konduz, nel
2015, durante un raid antitalebano, è stato bersagliato dai bombardieri dell’Us
Air Force, facendo morti e feriti fra il personale sanitario in servizio. Le uniche strutture create sono nove basi aeree che, c'è da giurare, non verranno smobilitate, servono per continuare a vigilare i cieli del cuore dell'Asia dove i nemici e la competizione non mancano. Un
fiume di aiuti internazionali sono stati gestiti dalle Istituzioni pilotate da
Washington e dispersi in ruberie degli apparati statali dove i boss sono di
casa. Nulla giunge ad associazioni locali di cui abbiamo conosciuto e narrato
l’impegno rivolto a orfani, a donne salvate dalla violenza domestica e
societaria, ai parenti delle vittime di quelli che l’Occidente definisce “danni
collaterali”. Novemila ne ha contati l’Unama lo scorso anno, tremila i morti,
seimila i feriti. E questa era la stagione delle trattative di pace, della
firma in calce che doveva cambiare tutto, mentre tutto è rimasto uguale. I
vent’anni di buio che statunitensi, alleati Nato, l’apparato servile afghano da
essi predisposto fanno pesare sul Paese, si materializza nel soffocamento
d’ogni capacità d’impresa. Come accade ad altre comunità tenute prigioniere e
succubi, si svendono i beni interni e s’impedisce ogni iniziativa volta a creare
un’economia autoctona. Così si perpetuata una dipendenza cronica da cui non si
vede all’orizzonte alcuna emancipazione. L’unico
futuro è rappresentato dalle fughe: quella dei giovani afghani che gonfiano
le file d’una migrazione forzata dalla guerra e dall’assenza di prospettive. E la
fuga-riparo dei militari Nato che evitano di combattere ancora per qualcosa che
non ha ragione d’esistere. Eppure resta il vuoto. L’incompiuta finora sui
tavoli di Doha e Mosca, con la variante di quello di Ankara chiesto dal
Segretario di Stato Blinken, concesso da Erdoğan sempre disponibile su ogni
scacchiere internazionale e glissato dai turbanti, deve conciliare un apparato
fallito con talebani e fondamentalisti sparsi sul territorio, una maledizione che
pesa sulla pelle d’un popolo martoriato. Da questa mediazione dovrebbe nascere
un governo di transizione che forse neppure partirà, mentre l’ipotesi di guerra
civile è un fantasma che riappare. Chissà, dunque, se gli americani faranno un
biglietto d’andata e ritorno o ci sarà
qualche nuovo gestore del moderno “Grande Gioco”.
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