Nella vita Laila Soueif ha insegnato matematica, tuttora è
docente presso l’Università del Cairo. Ma nel corso dei suoi sessantacinque
anni è diventata, suo malgrado, esperta in strutture carcerarie. Lì sono finiti
il marito, Ahmed Seif al-Islam, avvocato dei diritti, scomparso ormai da sette
anni, e il primogenito Alaa Abdel Fattah, oggi quasi quarantenne, internato
come il genitore già ai tempi di Mubarak per l’attivismo politico che ne
distingueva il carattere sin dalla giovane età. Dopo un arresto e un rilascio
in epoca Sisi, Alaa è da due anni nuovamente detenuto, con l’accusa di
attentare alla sicurezza dello Stato. Le altre figlie di Laila, Mona e Sanaa,
hanno avuto problemi con la giustizia l’estate scorsa, quando assieme alla
madre attuavano un sit-in davanti al supercarcere di Tora dove il fratello è rinchiuso.
Impossibilitate a visitarlo, a consegnargli una lettera hanno inscenato la
protesta, subendo un’aggressione pilotata dalle Forze dell’Ordine (se Intelligence,
polizia, guardie carcerarie non s’è mai saputo, ma il manipolo di donne che le
ha aggredite agiva su mandato). Le tre Soueif denunciavano anche il pericolo
d’infezione che il congiunto e altri carcerati vivevano quotidianamente per il
sovraffollamento delle celle, l’impossibilità di mantenere distanze di
sicurezza senza i presidi sanitari previsti. Le stesse cose dichiarate dai parenti
di Patrick Zaki e di tanti prigionieri meno noti. Anche Sanaa lo scorso marzo è
finita in galera, subendo una condanna di diciotto mesi per le informazioni sui
rischi di salute causati dal Covid 19, giudicate dalla Corte “false”.
Nonostante il riserbo del regime, nelle carceri egiziane si sono verificati
decessi per la pandemia.
Però l’impunità regna sovrana, anzi punisce chi
lancia l’allarme tramite i social, come ha fatto Sanaa. Suo malgrado la
professoressa Laila s’è trovata di continuo a fare i conti con la materia
giudiziaria che colpiva la famiglia. Durante la repressione di Al-Sisi ha visto
imperversare centinaia di motivazioni che producono condanne. Questioni pretestuose,
in gran parte sostenute da un clima a metà strada fra la falsità e la paranoia
che attribuisce a qualsiasi pensiero diverso dalle posizioni governative, spesso
neppure dissidente, un “pericolo per la sicurezza nazionale”. In base al quale
s’imprigiona l’opposizione, s’imbavaglia la stampa, si perseguitano
intellettuali e chiunque reclami libertà di pensiero e parola. Verso tutti c’è
l’accusa di terrorismo. Nella migliore delle ipotesi la detenzione viene
procrastinata di mese in mese in attesa d’una sentenza che s’allontanata
all’infinito. Si fa di tutto per indurre in depressione chi subisce simili
trattamenti, si punta al suo deperimento fisico che può portare alla morte. E’
accaduto a detenuti famosi, i Morsi padre e figlio, e se per l’ex presidente
c’era un sospetto di malattia cardiaca, per il venticinquenne Abdullah lo
stress carcerario sembra unito a un’iniezione letale. Laila denuncia da tempo
questo stato di cose, non solo per la progenie reclusa, per le stesse condizioni
d’una nazione prigioniera nelle galere e fuori, dove chi gira per via è
angosciato dalla paura di finire nell’inferno di chi sta dentro. La
professoressa Soueif continua a ripeterlo, negli incontri pubblici che tuttora
tiene. Dice che non ha nulla da perdere e continuerà. Continuerà a denunciare anche contro quel
mondo che non vuol sapere.
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