Più della pandemia da Covid, come in tanti angoli
del mondo comparsa nel tardo inverno 2019, è stato l’autunno di quell’anno a
obnubilare le informazioni sulla reale utopia che dal 2012 aveva assunto la denominazione
di Rojava. I notiziari hanno perso le tracce di quell’Amministrazione Autonoma
dei territori a cavallo d’un confine segnato sulle mappe e nella giurisdizione
degli Stati nazionali di Turchia e Siria, una demarcazione che in natura manca
poiché gli spazi sono aperti, colorati da una campagna feconda, compresa fra i
millenari Eufrate e Tigri, non a caso definita Mezzaluna fertile. I media hanno
smarrito le coordinate sul Rojava quando i carri armati turchi iniziavano a
occupare e pattugliare 480 km di quel territorio, per una profondità anche di più
di trenta. Un passo scaturito dagli accordi fra i governi di Ankara, Mosca e
Teheran. Con Damasco alla finestra, poiché beneficiando da anni della
protezione militare degli alleati russo-iraniani, il fantasma del regime Baath non
ha fiatato sull’iniziativa. Anzi, l’ha gradita. Il clan Asad non ha mai amato
la comunità kurda che lì vive. L’ha repressa, tutt’al più in certe fasi l’ha tollerata.
Ma nella rivolta che dieci anni or sono incendiava un gran pezzo del Medio
Oriente - trasformata in Siria in sanguinosissima guerra civile - l’iniziativa
dei kurdi di salvaguardare se stessi autodeterminandosi con l’arma della
politica e la politica delle armi, è stata subìta dal potere siriano che
considerava il Rojava un’usurpazione. Per tacere del sovversivo intento di
unire le genti di quella regione: kurdi, arabi, aramaici, armeni, turkmeni,
siriaci. Perciò le tre entità statali di Turchia, Siria, Iran accondiscendevano
alla sferzante occupazione definita (sic) “Primavera di pace”. Con Putin nel
ruolo di frigido arbitro. Le Unità di difesa del popolo e delle donne - che
nella carneficina del conflitto siriano tutelavano i propri spazi, soprattutto contro
le milizie jihadiste dell’Isis, di Al-Nousra, di Ahrar al-Sham e Faylaq al-Sham
(con undicimila le vittime fra militanti e civili) - dopo i successi ottenuti
sul campo, erano costrette a una ritirata strategica verso est, nel Kurdistan
propriamente detto, seguite da più di mezzo milione di abitanti. Eppure gli altri
quattro milioni continuavano e continuano a vivere e convivere con le citate
etnìe nelle città e villaggi, dove il presente è diventato difficile per il sopraggiungere
della pandemia e lo scorrazzare dell’esercito turco.
Invece l’attuale “pacificazione” porta con sé una
velenosa coda per ostacolare la vita a chi è restato, prendendolo, ad esempio,
per sete. Una storia che solo gli attivisti conoscono riguarda la stazione
idrica di Alouk, presso Serê Kanyê, una cinquantina di chilometri a sud-est di
Mardin. Dove per iniziativa di delegati turchi, comparsi in loco all’inizio
delle operazioni militari, il pompaggio dell’acqua viene periodicamente
interrotto e circa mezzo milione di persone sono private dell’indispensabile
elemento. Il diritto internazionale considera simili atti coercizioni
criminose, ma da mesi nessuno controlla e interviene. Altra iniziativa
impositoria è il reclutamento forzato e la ‘turchizzazione’ di certa
quotidianità. Lo denunciano rapporti della comunità kurda di al-Bab, 40 km da
Aleppo, e Jarablus, sulle sponde dell’Eufrate, dove specie i giovani vengono
forzatamente spinti da agenti della Mıt
a corsi di “rieducazione”. Gli s’impone di dimenticare quel che sono, gli si
dice che la propria vera identità è turcomanna. Li si prende per fame: se
seguiranno i consigli offerti troveranno un lavoro, vestendo la divisa
dell’esercito, male che vada finendo in qualche gruppo islamista che stipendia
gli adepti. All’inizio della scorsa estate la Fondazione delle donne libere del Rojava e l’Accademia Medica Mesopotamia, attive nei campi profughi che
raccolgono sfollati da alcune zone attualmente pattugliate dai carri turchi e
russi, hanno riscontrato la presenza di malattie infettive (Leishmaniosis)
scaturite sia dalle scarse condizioni igienico-sanitarie in cui i rifugiati vivono,
sia dalle carenze alimentari, frutto di blocchi dei rifornimenti predisposti dai
controlli militari. La struttura dell’Amministrazione Autonoma tuttora esistente
deve provvedere a oltre quattro milioni d’individui, fra cui 1.5 milioni di
sfollati provenienti da città riconquistate all’Isis, come Raqqa, e dall’area
di Idlib. Alcuni campi pongono seri problemi. Quello di Al-Hol, che raccoglie
oltre 60.000 persone a una quindicina di chilometri dal confine iracheno, di
recente è passato alla cronaca per i reiterati omicidi perpetrati da cellule
fondamentaliste interne che puniscono i “traditori” disposti a collaborare coi
“carcerieri”. Quest’ultimi sono le Forze democratiche siriane, la milizia
kurdo-araba che ha avuto la meglio su quei nemici, e che gli Usa hanno lasciato
col problemino di gestire quella massa umana. Alcuni nuclei dovrebbero essere
collocati in aree o nazioni di provenienza dei miliziani, ma tutto è fermo. L’Amministrazione
continua a gestire l’economia creata in otto anni e proseguita anche in piena
guerra. Del resto, tanto per dirne una, i cereali per la panificazione di quel
che resta del popolo siriano provengono dai terreni del Rojava.
E se si parla di riserve idriche, e perfino
petrolifere, vale il medesimo discorso. Certo, i soldati fedeli ad Asad, possono venir
anch’essi nutriti dal granaio del nord-est, ma durante il conflitto hanno ricevuto
da Mosca non solo armi, anche cibo. L’Amministrazione, fra i tanti colpi bassi
subìti da chi s’avvantaggiava della lotta delle sue milizie contro l’Isis, si
ritrova privata del controllo di alcune vie di comunicazione che tagliano i
contatti fra i suoi tre cantoni: Afrin, Kobanê, Cizre. Continua a patire un
embargo e, priva com’è di uno scalo aereo attivo, vede convogliati gli aiuti sanitari
per l’attuale pandemia sull’aeroporto di Damasco. Da lì, solo se le autorità siriane
vogliono, le carovane di camion possono partire. Spesso non accade. In merito
alla questione del Covid-19 dall’Ufficio
d’informazione del Kurdistan in Italia ci confermano che per ora di vaccini
non se ne parla. Sars CoV2 ha colpito 10.000 abitanti, il tasso di mortalità è basso:
300 vittime. I controlli sono inesistenti, ma il contagio fra la popolazione appare
limitato, sebbene la comunità kurda sia più propensa ad attuare la prevenzione consigliata
dagli organismi sanitari, mentre la cittadinanza araba è meno attenta. Il
materiale per tutelare la salute, soprattutto mascherine e guanti, è giunto grazie
a strutture come la Mezzaluna Rossa di Italia e Germania, mentre associazioni
pro kurde hanno recuperato qualche centinaio di respiratori e bombole di
ossigeno. E’ indubbio che se la situazione dovesse peggiorare le carenze sono
palesi, a tutto gennaio erano disponibili solo 120 posti letto per l’aggravamento
della patologia. Ma chi è abituato a vivere nell’emergenza – e gli otto anni di
guerra sulla propria terra sono stati più di un’emergenza, peraltro tuttora in
corso – non si perde d’animo. L’enorme forza del ‘Confederalismo democratico’
trova nella crisi di Stati nazionali, com’erano Siria e Iraq, un puntello per
rilanciare questo progetto. Pur se l’attuale geopolitica stia cercando di
rimettere assieme i cocci di quei regimi che dal socialismo per il popolo
s’erano trasformati in dittature - personali con Saddam Hussein, familiari con
gli Asad - l’autonomia gestionale richiesta e praticata tramite le assemblee e
i consigli pianificati dalla Carta del Rojava, e l’economia cooperativa per
oltrepassare il capitalismo, rappresentano il sogno che anima quella gente. Più
difficile è il rapporto coi regimi, di Turchia e Iran, il cui nazionalismo è alimentato
anche dalle chiusure del mondo verso questi Paesi. Eppure, dicono dall’Uiki: se si pensa alla lista sul ‘terrorismo
mondiale’, creata dagli Usa e sposata in pieno dalla Ue dopo l’11 settembre,
molte nazioni hanno usato quel sistema per i propri fini, incastrando avversari
e oppositori politici. Erdoğan, da gran pragmatico, l’applica senza scrupoli:
chiunque gli si opponga è accusato di terrorismo. Tale incastro rivolto ai
kurdi non mira a colpire solo le migliaia di attivisti coi leader Öcalan,
Demirtaș e le sigle dei partiti che rappresentano. Lo scopo primario è censurare
una corposa comunità (venti milioni di cittadini sugli ottanta della Turchia),
cancellarne origini, cultura, una lingua e cinque dialetti, ingabbiarne le varie
religioni, soffocandone la voglia di convivenza e la gioia di vivere.
Questo articolo è presente sul numero di aprile del mensile Confronti
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