venerdì 23 aprile 2021

Afghanistan, Blinken spiazzato e l’araba fenice del ritiro

Solo la Superlega del calcio Paperone, agognata da Perez e dalla quarta generazione Agnelli, ha ottenuto un flop più vistoso di quanto registra il piano preparato da oltre un mese dal Segretario di Stato americano Blinken. Domani a Istanbul non si sarà alcuna continuazione dell’interrotta trattativa di Doha. Il politico statunitense è stato snobbato dai talebani, che già da dieci giorni annunciavano la loro assenza, sottolineando un’assoluta disapprovazione ai proclami del presidente Biden. Per i turbanti le truppe d’occupazione Nato devono sloggiare il primo maggio, come pattuito e firmato dalla delegazione americana quattordici mesi addietro, non l’11 settembre. Due giorni fa anche la Turchia s’è smarcata, e tramite il ministro degli Esteri Çavusoğlu ha comunicato che ogni incontro sul tema afghano è rimandato alla chiusura del Ramadan, metà maggio. America sola e isolata, dunque, perché le altre potenze invitate ovviamente prendono atto della cancellazione. La grana per la Casa Bianca s’allarga, visto che l’uomo dei comunicati talebani, Neem, rincara la dose: una presenza armata occidentale successiva al primo maggio non vincola più gli studenti coranici al rispetto delle clausole firmate in Qatar. Questo significa che il ‘cessate il fuoco’ applicato verso i militari Nato, non varrà oltre. Essi saranno considerati nemici alla stregua dell’Afghan National Army che ha continuato a essere un bersaglio. Maggio è tradizionalmente il mese clou della ‘campagna di primavera’ con cui l’insorgenza talebana negli anni passati ha attaccato truppe e basi. Perciò i generali Nato, impegnati a programmare la smobilitazione, si trovano davanti a un’incognita non da poco. 


Claudicante appare il percorso diplomatico della nuova amministrazione Usa, che volendo riprendere uno spazio adeguato nell’area mediorientale dove i pasticci di Obama e il disimpegno di Trump hanno creato un decennio di vuoto, vede ora la presuntuosa apparizione della coppia Biden-Blinken davanti a personaggi che non pendono certo dalle loro sottili labbra. Russia, Cina, la stessa India - pur zavorrati da problemi di tenuta interna, oltre a quelli prodotti dalla pandemia - hanno programmi propri, li confrontano e li incrociano da tempo. Gli altri attori regionali che gli stessi americani vogliono al tavolo: Turchia, Pakistan, e anche Iran, vantano relazioni con le predette potenze che possono far a meno delle offuscate stelle statunitensi. Washington tutto questo lo vede e sta cercando varchi nelle nazioni di confine, soprattutto settentrionale, con l’Afghanistan. Gli Stati Uniti vorrebbero, a suon di dollari, costruire in Uzbekistan e Tajikistan nuove basi aeree. Le dieci tuttora presenti nel Paese che hanno gestito per un ventennio, non dovrebbero sparire; ma la ‘pace’ che la Casa Bianca sostiene di volere non si basa affatto su un disarmo. Del resto ieri il generale McKenzie, responsabile militare per il Medio Oriente, ha evidenziato tutte le perplessità dello Stato Maggiore Usa: dopo il ritiro delle truppe Nato l’esercito locale collasserà, se non continuerà a ricevere armi, fondi (oltre 4 miliardi di dollari all’anno) e consulenze. Ma soprattutto se verrà meno il supporto aereo che, anno dopo anno, ha sbrogliato i conflitti di terra più ostici per i soldati di Kabul. Che la vicenda del ritiro diventi una sorta d’araba fenice del Pentagono?

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