Solo
la Superlega del calcio Paperone,
agognata da Perez e dalla quarta generazione Agnelli, ha ottenuto un flop più
vistoso di quanto registra il piano preparato da oltre un mese dal Segretario di
Stato americano Blinken. Domani a Istanbul non si sarà alcuna continuazione
dell’interrotta trattativa di Doha. Il politico statunitense è stato snobbato
dai talebani, che già da dieci giorni annunciavano la loro assenza,
sottolineando un’assoluta disapprovazione ai proclami del presidente Biden. Per
i turbanti le truppe d’occupazione Nato devono sloggiare il primo maggio, come
pattuito e firmato dalla delegazione americana quattordici mesi addietro, non
l’11 settembre. Due giorni fa anche la Turchia s’è smarcata, e tramite il
ministro degli Esteri Çavusoğlu ha comunicato che ogni incontro sul tema
afghano è rimandato alla chiusura del Ramadan, metà maggio. America sola e
isolata, dunque, perché le altre potenze invitate ovviamente prendono atto
della cancellazione. La grana per la Casa Bianca s’allarga, visto che l’uomo
dei comunicati talebani, Neem, rincara la dose: una presenza armata occidentale
successiva al primo maggio non vincola più gli studenti coranici al rispetto
delle clausole firmate in Qatar. Questo significa che il ‘cessate il fuoco’
applicato verso i militari Nato, non varrà oltre. Essi saranno considerati
nemici alla stregua dell’Afghan National Army che ha continuato a essere un
bersaglio. Maggio è tradizionalmente il mese clou della ‘campagna di primavera’
con cui l’insorgenza talebana negli anni passati ha attaccato truppe e basi. Perciò
i generali Nato, impegnati a programmare la smobilitazione, si trovano davanti
a un’incognita non da poco.
Claudicante
appare il percorso diplomatico
della nuova amministrazione Usa, che volendo riprendere uno spazio adeguato
nell’area mediorientale dove i pasticci di Obama e il disimpegno di Trump hanno
creato un decennio di vuoto, vede ora la presuntuosa apparizione della coppia
Biden-Blinken davanti a personaggi che non pendono certo dalle loro sottili
labbra. Russia, Cina, la stessa India - pur zavorrati da problemi di tenuta
interna, oltre a quelli prodotti dalla pandemia - hanno programmi propri, li
confrontano e li incrociano da tempo. Gli altri attori regionali che gli stessi
americani vogliono al tavolo: Turchia, Pakistan, e anche Iran, vantano
relazioni con le predette potenze che possono far a meno delle offuscate stelle
statunitensi. Washington tutto questo lo vede e sta cercando varchi nelle
nazioni di confine, soprattutto settentrionale, con l’Afghanistan. Gli Stati
Uniti vorrebbero, a suon di dollari, costruire in Uzbekistan e Tajikistan nuove
basi aeree. Le dieci tuttora presenti nel Paese che hanno gestito per un
ventennio, non dovrebbero sparire; ma la ‘pace’ che la Casa Bianca sostiene di
volere non si basa affatto su un disarmo. Del resto ieri il generale McKenzie,
responsabile militare per il Medio Oriente, ha evidenziato tutte le perplessità
dello Stato Maggiore Usa: dopo il ritiro delle truppe Nato l’esercito locale
collasserà, se non continuerà a ricevere armi, fondi (oltre 4 miliardi di
dollari all’anno) e consulenze. Ma soprattutto se verrà meno il supporto aereo
che, anno dopo anno, ha sbrogliato i conflitti di terra più ostici per i
soldati di Kabul. Che la vicenda del ritiro diventi una sorta d’araba fenice
del Pentagono?
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