Pinar Gultekin,
ventissette anni, studentessa universitaria della provincia di Muğla, era
scomparsa la scorsa settimana. E’ stata trovata cadavere in una boscaglia. Un
cadavere deturpato dalle bruciature, poiché dalle indagini risulta esser stata
strangolata, ficcata in una botte e data alle fiamme. E’ l’ennesimo
femminicidio, l’ennesima storia ignobile che macchia la Turchia. A compierlo,
come spesso accade ovunque, un vecchio partner: Cemal Metin Avci, gestore di un
bar in un resort turistico della città di Akyka sul Mar Egeo. Lì l’ha prelevato
la polizia e dopo un interrogatorio l’assassino ha confessato. Nella località
molte donne si sono date appuntamento in segno di protesta per fare udire alle
autorità l’adirata voce. E gruppi femministi e di difesa della donna hanno
avviato una diffusa protesta anche in altre città, a cominciare dalla capitale.
Sono le attiviste della piattaforma “Noi fermeremo i femminicidi”, chiedono
un’attuazione e un rilancio di quella convenzione detta di Istanbul, istituita
nel 2011 dalla Turchia, in accordo col Consiglio d’Europa, per prevenire e
combattere la violenza di genere. L’anno seguente Ankara adottò una legge in
materia, ma gradualmente la normativa sta cadendo nel dimenticatoio. Anzi nel
Paese s’è sviluppata una componente che, tramite certa stampa e social media, perora
un attacco alla ‘Convenzione di Istanbul’ accusata di mettere in cattiva luce i
“valori” della famiglia turca. E’ il solito sporco gioco del maschilismo patriarcale,
che ha gangli dappertutto (in Italia il pensiero corre alle tendenze oscurante
avanzate con proposte di legge e altro dal senatore leghista Pillon). Le donne
nelle piazze turche rivendicano pene più severe per lo stillicidio di assassini
di “ragazze, figlie, sorelle, madri”, il loro grido vola sul web con messaggi e
tweet. Dal 2012 il Paese anatolico ha raddoppiato i femminicidi, l’anno scorso
ne ha dovuti registrare ben 474. Cifre pazzesche di una vergogna che accomuna il
peggior maschilismo, ovunque nel mondo.
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