mercoledì 11 gennaio 2017

Afghanistan, libero il signore delle torture

Si chiama Assadullah Sarwari, è stato a suo modo un signore della guerra, fedele esecutore e sterminatore degli oppositori, alcuni testimoni sostengono anche con le proprie mani. Sopravvissuto a tutto: invasioni, guerra civile, vendette, pena capitale, ergastolo, galera. Da qualche giorno può girare liberamente nell’Afghanistan che per realismo politico, e per cavilli legali, favorisce i colpi di spugna. Sebbene la pena inflitta l’abbia scontata, grazie però ai vari sconti ricevuti. La sua storia va a ritroso fino al 1978, quando Sarwari aveva 27 anni ed era membro del Partito comunista afghano, ala Khalq in costante lotta con un’altra componente del partito chiamata Parcham. Dall’aprile 1979 l’uomo gestiva l’Intelligence nazionale e nel settembre partecipò al complotto per assassinare il premier dell’epoca Hafizullah Amin. La trama fallì e lui riparò in Unione Sovietica. A seguito dell’intervento delle truppe di Mosca che invasero l’Afghanistan nel dicembre 1979, Sarwari tornò in patria, ricoprendo incarichi di vice presidente, vice premier e ministro dei trasporti del governo filo sovietico di Babrak Karmal. Ma la carriera, sviluppata all’ombra dell’ultimo protettore, durò poco. Nel 1980 Karmal lo rimosse dall’incarico spedendolo a far l’ambasciatore in Mongolia.
Non bastarono i mesi in cui ricoprì posizioni di vertice per cancellare un curriculum di oppressore di rango, visto che Sarwari s’era macchiato di nefandezze coi reclusi della prigione di Pul-e Charkhi a Kabul. Comunque la buona sorte, il fiuto esistenziale o i patteggiamenti coi nuovi padroni dell’Afghanistan lo misero al riparo da faide nel sanguinosissimo periodo delle lotte intestine (1992-1996) e del seguente governo talebano (1996-2000). Lui se ne stette in galera, per un anno a Kabul, poi nel Panjshir fino all’invasione statunitense e nei primi anni della presidenza Karzai. Diversamente che contro i maggiori signori della guerra nei confronti di Sarwari venne formalizzato un processo, che nel 2007 in primo grado lo condannava a morte per assassini, torture, sparizioni di migliaia di concittadini. L’imputato si appellò, sostenendo che nel suo rango non doveva essere giudicato da un tribunale civile bensì da una Corte militare. La richiesta venne accolta e quest’ultima lo punì più per l’abuso del ruolo che per la gravità dei crimini comminandogli 19 anni di reclusione. Nel suo processo il “Piano governativo per la riconciliazione nazionale” del 2005 e il “Piano parlamentare per l’amnistia” varato nel 2008 sono diventati un appiglio per evitare l’imputazione più pesante che riguardava  i ‘crimini di guerra’.
Secondo alcuni analisti Sarwari ha aggirato l’imputazione anche per mancanza di chiarezza dei codici e per l’assenza di casistica, visto che per trent’anni la giustizia interna non ha voluto fare i conti coi propri orrori, sottostimati anche dai governi “amici” occidentali che a loro volta dovrebbero rispondere di crimini di guerra compiuti dal 2001 su quel territorio. Le stesse documentazione e il peso delle testimonianze vengono inficiate; le prime da attacchi informatici che interdicono la circolazione in rete della documentazione prodotta da strutture internazionali come l’Afghan Independent Human Rights Commission. Le seconde, raccolte dal Saajs (Social Association Afghan Justice Seekers),  subiscono  pressioni di gang armate, come quella che ha di recente accolto festosamente all’aeroporto di Kabul un altro imputato (tal Zardar) sotto gli occhi dei poliziotti che non sono intervenuti. Le pene vengono ridotte o azzerate, mentre testimoni e familiari delle vittime possono subire nuove violenze. Tutto è asservito all’impunità ratificata nei mesi scorsi dall’accordo sottoscritto dal presidente Ghani col sovrano dei signori della guerra, quel Gulbuddin Hekmatyar atteso a incarichi di governo o a un proprio governo parallelo da tessere coi talebani che, fra una bomba e l’altra (un attentato ieri ha fatto 30 vittime vicino al Parlamento) rialzano la posta.

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