Sarà la data del “Cinque maggio” rimasta nella memoria
letteraria, oltre che in quella storica, con l’Ei fu manzoniano, ma oggi il Corriere
della Sera dedica due pagine alle vittime italiane in Afghanistan, che
sono, anzi erano, militari. Vittime delle “missioni di pace” Enduring Freedom (2001-2006) e Isaf (2006-2014) come le hanno chiamate
i governi nazionali, appoggiando i piani del Pentagono e della Cia, poiché
anche quando tutto passò sotto il marchio Nato, erano sempre quelle strutture a
dirigere le azioni belliche. Per la cronaca i governi di Roma che hanno inviato
truppe in missione (analisti e politologi afghani, dunque non solo i taliban, l’hanno
sempre definita occupazione) furono Berlusconi II e III, Prodi II, Berlusconi IV,
Monti, e per la successiva missione Resolute
Support tuttora in corso, gli esecutivi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e
II, Draghi. Insomma tutte le formule politiche e tecniche, di centro-destra e
di centro-sinistra, sono responsabili della partecipazione al fallimentare ventennio
di guerra afghana nel quale anche il nostro esercito s’è infilato. Scorrendo i
volti, in gran parte di giovani uomini sotto i trent’anni, e qualcuno maturo
sulla cinquantina (i carabinieri Congiu e De Marco, l’agente dell’Aise Colazzo)
troviamo alpini, parà, qualche lagunare, geniere, artigliere anche con
precedenti esperienze, prevalentemente in Bosnia.
Immaginiamo che a tutti lo Stato Maggiore Italiano qualche lezioncina di
geopolitica l’abbia dispensata, oltre a un meticoloso addestramento su quanto
andavano a svolgere. Che per l’appartenenza ai corpi descritti e in virtù dello
scenario in atto, non aveva nulla di pacifico. ‘Missione di pace’ era l’edulcorata
enunciazione con cui i nostri Governi e Parlamento, e l’informazione mainstream che li supporta e li decanta,
motivavano il finanziamento annuale: otto, novecento milioni di euro per un
totale di 8,5 miliardi di euro (i conteggi si fermano al 2018). Questo ha
pagato la comunità nazionale, accanto alle cinquantatré bare di chi vi ha preso
parte. Tributo frutto più di un’omologante subordinazione politica che d’imprescindibili
obblighi di adesione alla Nato, l’Italia dei partiti è stata totalmente acquiescente
verso i contraddittori piani predisposti dai presidenti Usa: George W. Bush,
Barack Obama, Donald Trump. E non è assolutamente vero che fosse obbligata a
farlo. Nel tempo altri Paesi membri della Nato hanno ritirato le proprie
adesioni da operazioni di polizia militare in giro per il mondo. L’Italia no. Senza
neppure inseguire sogni di gloria o tatticismi d’altre epoche con cui si
spedivano i bersaglieri in Crimea per ricevere sostegno armato ai progetti risorgimentali. Ricordare i militari caduti è cosa dovuta, chiedersi dell’inutilità del loro sacrificio
in una politica estera afona e succube d’un imperialismo mai morto, è doveroso.
Chi come l’artigliere Marco Callegaro prima di suicidarsi - seppure
il tragico gesto è stato tacitato nonostante gli espliciti segnali: il cadavere riverso nel suo ufficio di
Kabul, la testa violata da un colpo partito dalla pistola d’ordinanza -
scriveva alla moglie Beatrice: “Sono
dentro una cosa più grande di me”, è sicuramente vittima della politica
decisa a Palazzo Chigi, alla Farnesina e ratificata a Montecitorio. Possiamo
nutrire pietà per i morti, fra cui c’è il romano di fatto e di nome Alessandro
Romani, un assaltatore della Task Force
45, reparto d’eccellenza agli ordini della Cia, quegli organismi che per
anni hanno praticato nelle province afghane extraordinary
rendition. Purtroppo conosciamo cos’erano
queste azioni: s’irrompeva nelle case sospettate di ospitare combattenti, si
prelevano civili, li si portavano nelle basi Nato, eseguendo interrogatori. Human Rights Watch ha in più occasioni denunciato
le torture praticate su gente comune in simili interrogatori. Osservatori
internazionali hanno ribadito che queste pratiche hanno ampliato
considerevolmente il consenso talebano in un popolo vessato. Nel ricordare i
militari italiani caduti in Afghanistan la politica nazionale dovrebbe promettere:
mai più. Mai più vittime avvolte nel tricolore, mai più vittime del tricolore. Morti
nostri e morti d’una scellerata politica nazionale, voluta o inconsapevole al
servizio di Stati sedicenti amici.
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