In queste ore si fa un gran parlare della sconfitta
elettorale del premier indiano Modi. In realtà le elezioni statali (paragonabili
alle amministrative dell’Occidente, solo con numeri oggettivamente ciclopici) non
rivestono un’importanza simile alle politiche. Eppure le aspettative che
proprio il Primo Ministro aveva creato nel più popoloso dei cinque luoghi
chiamati alle urne, il West Bengala, avevano da due mesi accentrato l’attenzione
dei media interni e internazionali. Sia per le criticità della pandemia in
forte risalita dal mese di febbraio, tanto che diversi scienziati e ricercatori
chiedevano alla politica nazionale di rinviare l’appuntamento, sia per la
difficile gestione dell’organizzazione che ruotava attorno a una campagna
elettorale basata su raduni numerosi e pericolosi per la promiscuità creata. Narendra
Modi – superficiale e borioso, carente e incapace, un Bolsonaro asiatico – ha
tirato dritto mentre il Paese, settimana dopo settimana, accendeva ogni giorno
migliaia di pire per la cremazione delle vittime del Covid. Inseguiva Modi un
riscatto in un luogo evocativo, appunto dove Calcutta è capitale, la patria di
Syama Prasad Mukherjee, un politico d’inizi Novecento e fondatore del Bharatiya Jan Sangh. Questo è stato il partito
della destra hindu, considerato il braccio parlamentare del Rashtriya Swayamsevak Sangh a sua volta
braccio armato, nel senso letterale del termine, e tuttora responsabile d’inaudite
violenze contro avversari e gente comune.
Insomma si trattava d’intervenire in grande stile nella regione dove le
radici dell’attuale partito di governo, Bharatiya
Janata Party, si sono sviluppate. Da qui l’iperattivismo del Capo
dell’Esecutivo che sognava un rilancio nel popoloso Stato dell’est, nominalmente
è definito occidentale per distinguerlo dal Bengala orientale, diventato dal
1971 Bangladesh. L’uno e l’altro sono la complessa metamorfosi d’una
spartizione legata all’annosa vicenda post indipendenza che nel 1947 ha creato India
e Pakistan, nazioni condizionate dal rispettivo orientamento religioso. Il West
Bengala nel trentennio 1977-2007 ha conosciuto la guida d’una coriacea coalizione
marxista; poi ha visto spuntare la figura d’una donna fortemente amata e
premiata elettoralmente dalla sua gente: Mamata Benerjee. Poco più che ventenne
portava nel Partito del Congresso, afflitto da intrecci e intrighi della
dinastia familiare Nehru: da Indira, figlia dello statista Jawaharlal, a Rajiv
Ghandi, quindi a sua moglie Sonia, una ventata di cambiamenti soprattutto su
questioni morali e di lotta alla corruzione. Sebbene fra Mamata e Sonia i
rapporti siano rimasti cordiali, l’attivista diventata leader vanta un rigore
virtuoso da venire indicata come uno dei politici innovatori nel Paese. Smarcatasi
dal Partito del Congresso Benerjee s’è posta alla testa d’un movimento
diventato gruppo politico, Trinamool
Congress, ha speso la sua popolarità in polemica con gli esponenti
marxisti, facendosi forza dell’appoggio dei contadini verso i quali ha
intrapreso politiche di sostegno.
Per quanto si evidenzi la sconfitta del Bjp nella regione
bengalese, i vincitori del Trinamool
Congress che appartengono a un’area oggettivamente di destra, non possono
sperare di pesare sulla scena nazionale. Localmente, cioè in uno Stato che coi
suoi 96 milioni di abitanti è fra i più popolati della Federazione indiana,
questo partito è considerato soprattutto la bestia nera del marxismo che nel
territorio ha espresso intellettuali e personaggi di cultura. Gli attivisti del
Trinamool si godono un successo che
umilia l’ottica tradizionalista e machista di Modi costretto a subìre uno
smacco personale da una donna, pur navigata come Benerjee. E’ duro da digerire
anche il vitalismo con cui l’indomita avversaria, oggi sessantaseienne, ha proseguito
la campagna elettorale su una sedia a rotelle per un infortunio occorsole
durante un comizio. Sarebbe stato meglio che il Bjp, intenzionato a risalire la china in quella zona del Paese, non
avesse esposto il Primo Ministro, poiché perdere il 30% di preferenze rispetto
alle politiche di due anni fa con Modi impegnato nei raduni piazza, oggi
criticatissimi, costituisce un palese boomerang. Da Delhi, velata dai roghi
delle pire, i think tank di governo sostengono che la massa hindu dimenticherà questa
sconfitta. I tre anni dalle prossime elezioni possono essere riempiti di
grandezze da rilanciare sui tavoli del G20, nei consessi della geopolitica mondiale
dove Modi è invitato come attore di peso. Però il racconto di un’India
‘fabbrica e farmacia del mondo’, che dunque lo sostiene e soccorre, è soffocata
dalla carenza d’ossigeno quintessenza del disastro sanitario. Bisognerà vedere
quanto durerà la crisi. Se dovesse prolungarsi, le stragi pandemiche potranno
condizionare il collante del nazionalismo religioso e squilibrare quella che è
stata definita l’ipnosi del consenso indiano.
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