giovedì 13 giugno 2019

Il Cairo, dove ringhiano le ruspe


Arrivano così con manipoli armati e mascherati, ormai puntano i fucili su una resistenza popolare che fino a qualche settimana fa impediva le demolizioni, ma non è detto che potrà continuare a farlo. L’isola di Warraq nell’area tutto sommato centrale del Cairo sul fiume Nilo, è un posto dove tuttora si coltiva la terra. L’altra isola, Gezira, un sito ‘in’ dove sorgono club esclusivi e ambasciate, dista non più di due chilometri a sud. A Warraq, a fine anni Settanta sotto Sadat, s’inurbarono contadini poveri finiti a coltivar la terra a due passi dalla metropoli che lanciava l’infitāh, l’apertura agli affari anche coi capitali stranieri. Questi diseredati lanciavano i propri piccoli commerci, coltivando un terreno fertilissimo e portando i prodotti fin sotto i palazzoni nasseriani della burocrazia. Su quelle terre costruirono case, abusive ovviamente, come tante altre attorno, comprese quelle che portavano capitali alla lobby dell’esercito che sequestrava latifondi, costruiva illegalmente e affittava ai nuovi inurbati che sempre più numerosi abitavano nella mega Cairo. Per gli abitanti di Warraq, attualmente calcolati sulle duecentomila unità, andò avanti così durante la lunga presidenza del raìs Mubarak e nel corso dei tumulti del 2011.
Nulla cambiò sotto la parentesi di Morsi e la salita al potere di al Sisi. Per quattro anni il presidente golpista affaccendato in operazioni repressive non si curò di Warraq. Finché i recenti rapporti internazionali, propugnatori del fronte arabo della reazione che ha nella monarchia saudita il fulcro militar-affaristico, ha condotto lungo le Corniche gli occhi famelici dei manager di Khalifa bin Zayed, l’emiro dell’EAU, considerato un autocrate addirittura peggiore di Salman bin. Seguendo le modernizzazioni populiste di capi di Stato ben più dinamici e scaltri, Sisi punta a dotare il Paese e la sua capitale di trasformazioni a effetto, non curandosi degli effetti di ritorno sulle condizioni di vita di strati marginali che hanno conseguenze disastrose. Così dall’estate 2017 aziende emiratine hanno pianificato il progetto di trasformare quegli ettari di terreno immersi nel Nilo in luogo da turismo iperstellare dotato di hotel, resort, villaggi per vip. Per realizzarlo occorre sfrattare gli abitanti locali, che intanto si sono mobilitati con proteste di strada, petizioni, ricorsi giudiziari, insomma hanno avviato una campagna di resistenza a tuttotondo. L’eco mediatica è stata relativa, il regime del Cairo da tempo ha tacitato la stampa interna con galera e tortura e punta a non far trapelare notizie. Però il tam tam della mobilitazione è uscito dall’isola, dalla capitale e dallo stesso Egitto.
Note emittenti come la BBC trattarono la vicenda in occasione di scontri che causarono la morte di alcuni dimostranti. Ora attivisti che agiscono in semiclandestinità, per evitare di tronare in galera dove periodicamente vengono reclusi, sostengono che questa significativa resistenza popolare nel cuore della città del potere potrebbe avere i giorni contati, poiché sempre più pesante e minacciosa si fa la pressione governativa. Il fine è allontanare gli abitanti di Warraq e trasferirli, abbattere gli edifici per motivi di sicurezza (sic) e dare spazio ai cantieri del nuovo lusso turistico. Altrove simili sbancamenti sono già avvenuti, pensiamo alla città di Rafah, sul confine con la Striscia di Gaza, dove per accordi con Israele il governo egiziano ha trasferito forzatamente un congruo numero di residenti. Certo sull’isola cairota i numeri sono decisamente maggiori, la deportazione di decine di migliaia di persone non è cosa semplice, ma grazie alle leggi speciali che propugnano sicurezza e interessi nazionali, qualsiasi trasgressione viene tacciata di terrorismo e commina decenni di detenzione.

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