Da una spregiudicatezza
all’altra
Imran Khan sembra non perdere un colpo, come nei giorni migliori del suo
cricket mondiale. Che non dimentica, anzi in questa fase infuocata diventa un
rifugio. “Giocherò fino all’ultima palla”
dice davanti a mosse politiche diventate sempre più estreme per le tattiche
utilizzate. Il 24 febbraio il premier stringeva la mano a Putin proprio all’avvìo
dell’operazione bellica in Ucraina, più d’un notista ne sottolineava la
stonatura o la scelta di campo, Khan tirava dritto cercando di tamponare con
accordi energetici vantaggiosi gli svantaggi d’una economia interna strapazzata
dalla pandemia più che in altri luoghi del Medio Oriente. Almeno questa è la critica
lanciata dall’opposizione che nel mese seguente ha rincarato la dose trovandosi
unita, dal Partito del popolo pakistano
al Pakistan Democratic Movement al Jamiat Ulema-e Islam Fazal. Formazioni
non corpose o che molto consenso avevano perso alle elezioni del 2018, quelle
con cui Khan era balzato al vertice con un partito, Pakistan Tehreek-e Insaf, creato poco tempo prima. Ma in quest’ultime
settimane l’Esecutivo che guida la nazione con la stringatissima maggioranza di
176 voti ne ha persi una ventina per la defezione d’un alleato che a una
verifica può far mancare quei voti. Musica nelle orecchie dell’opposizione che
s’apprestava a presentare una mozione di sfiducia con cui Khan avrebbe dovuto
dimettersi e indire entro tre mesi le consultazioni politiche con alcuni mesi d’anticipo
sulla data naturale dell’agosto 2023.
Ed ecco il colpo da
superbattitore,
una battuta da quattro punti con la palla che rotola fuori campo, o addirittura
da sei quando la sfera rintuzzata vola via senza toccare il terreno. Insomma
Khan decide di sciogliere l’Assemblea Nazionale sostenendo che la mozione di
sfiducia rappresenta un atto anticostituzionale, un’interferenza ordita
all’estero, magari alla Casa Bianca. I partiti della sfiducia si appellano alla
Corte Suprema, questa tentenna, si prende un giorno, ieri. Poi un altro, oggi,
dicendo col giudice Umar Ata Bandial di non voler “interferire” con faccende di
Stato né di politica estera. Il caos - istituzionale, giuridico, politico,
securitario - è quasi la normalità nel popoloso Paese islamico dove diversi primi
ministri non hanno concluso il mandato per vari incidenti di percorso: golpe,
colpi di mano, attentati, dimissioni per corruzione e arresti. Magari anche in
quest’occasione la crisi verrà ricomposta e superata, sebbene le mosse
dell’attuale premier siano apparse azzardate. Dal voler rivestire un ruolo di
primo piano col nuovo governo afghano a trazione talebana, galassia che in
Pakistan ha la propria quinta colonna divisa fra la Shura di Peshawar e quella
di Quetta, assolutamente autonome da influssi del governo di Islamabad, tutt’al
più aperte a relazioni con la sua Intelligence. Al duetto e chiusura con la
fazione fondamentalista dei Tehreek-e
Labbaik, alle aperture per relazioni mercantili con Pechino ed energetiche
con Mosca, tutto alla faccia di Washington. Domani il futuro di Khan potrà
proseguire o venir tranciato da un verdetto d’un Tribunale che appare restìo a
decisioni lineari, ma è il Pakistan e la sua gente a ritrovarsi nello
scompiglio d’una politica che continua a mostrarsi egoistica e autoreferenziale.
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