L’amore fra Uma e Sharjeel
è cosa molto più complessa di quello vissuto da Rizvan Khan e Mandira Rathore, protagonisti
d’uno dei film più noti della produzione di Bollywood: Il mio nome è Khan. Anche perché le sequenze in celluloide si
svolgono fra emigrati indiani negli Stati Uniti e l’unico, non semplice,
problema di Khan è quello di dimostrare, dopo l’attentato alle Torri Gemelle,
che lui indiano di religione islamica non è un terrorista. Nonostante i
pregiudizi etnico-religiosi potrà unirsi alla bella donna di cui s’è invaghito sebbene
lei sia di fede hindu. Si tratta d’una pellicola di dodici anni fa e le stesse
Major di Mumbai che, pur fra retorica e sentimenti, hanno orientato abbastanza mentalità
e costumi d’una parte del Paese-continente, ora risentono delle ventate
fondamentaliste enormemente rafforzate dalla conquista del potere del Baharatiya Janata Party. Nell’ultimo
biennio, complice la pandemia che creava enormi problemi all’inefficienza del
governo Modi, il suo staff ha cercato ovunque capri espiatori su cui
convogliare attacchi d’ogni genere. Diventavano una distrazione di massa dalle pire
crematorie per le vittime del Covid-19, dall’inadeguatezza delle cure, dalla
disorganizzazione amministrativa e sociale, dalle spaventose carenze del sistema
ospedaliero e sanitario. Questo era il quadro disastrato di tutti i distretti
indiani. Nell’ottobre scorso emblematico è stato l’episodio d’un controllo
antinarcotici durante una crociera che ha portato all’arresto, fra gli altri,
di Aryan Khan, figlio dell’attore Shah Rukh Khan, uno dei divi dell’India
cinematografica. Il giovane poi è stato scagionato perché estraneo alle
contestazioni, ma egualmente la vicenda ha alimentato attacchi politici del Bjp e del fanatismo nazionalista hindu
contro la ‘perversione’ della cinematografia bollywoodiana e dei suoi attori
islamici. Nella quotidianità se Sharjeel volesse non tanto impalmare, bensì
manifestare intenzioni amorose a Uma, verrebbe additato come un seguace del
“love jihad” con cui gli arancioni bollano la presunta tattica islamica di
sedurre le donne hindu per spingerle a una conversione religiosa.
Ricordiamo che le
colpevolizzazioni usate dall’attuale esecutivo per ideologizzare comportamenti
naturali, mirano a esasperare rapporti e relazioni per dividere la
cittadinanza. E’ un secondo atto che segue l’altra accusa lanciata nel 2020 sui
musulmani, quella del “Coronajihad”. I seguaci di Allah venivano additati come
‘untori’ della Sars-CoV2 in giro per il Paese. Pratiche subdole e infamanti
che, comunque, riescono a toccare le corde degli strati meno acculturati della
popolazione, facilmente manipolabili e aggregarli in cacce alle streghe contro
la diversità dai modelli proposti dal governo. In cima a tutti c’è l’India per i
soli hindu nella peggiore versione razzista dell’hindutva, che nell’ultimo decennio sta emarginando sia una visione
laica e democratica della nazione, sia la tolleranza interreligiosa voluta dai
padri fondatori del Paese decolonizzato. Giansenisti, buddisti, sikh,
zoroastriani, le minoranze presenti seppure disorganicamente sul vasto
territorio, sono tutte nel mirino del fanatismo delle costellazioni politico-militari
alleate del Bjp, ma i duecento
milioni di islamici e i sessantasette milioni di cristiani risultano ormai
sotto un fuoco incrociato non sempre metaforico. Nella seconda metà del 2021 le
fiamme hanno azzerato numerose rivendite islamiche, con ricadute su una micro
economia già messa a dura prova appunto dal Coronavirus. Incenerito il banchetto,
nella migliore ipotesi il piccolo negozio, distrutte le merci contenute, il
proprietario islamico o cattolico ha dovuto cercar sostentamento fuori dai suoi
commerci. Dove non ha agito il fuoco
purificatore del radicalismo hindu ha potuto il boicottaggio operato dai
clienti di altra etnìa e fede. La spaccatura fra la popolazione è un effetto
sul quale puntano i diffusori dell’odio: creare barriere mentali e, dove non
arrivano quelle fisiche, operare sradicamento sociale, umano e nei casi in cui
le minoranze si stringono a propria difesa, attuarne la ghettizzazione.
E’ grave che tutto ciò sia
frutto non solo di brutali violenze scaturite dall’arretratezza civile, con una
sopraffazione alimentata anche dalle prebende dei mandanti, ma che tale consuetudine
venga tollerata da polizia e magistratura. Nell’Uttar Pradesh (il più popoloso
Stato coinvolto nelle elezioni di febbraio-marzo svolte anche nel Punjab,
Uttarakhand, Manipur e Goa) davanti agli sberleffi o alle bastonature rivolte a
fedeli musulmani riuniti in preghiera fuori dalle moschee, le istituzioni sono
rimaste silenti. Quindi latitanti al cospetto delle distruzioni d’immagini
sacre avvenute durante le festività natalizie. Ad Agra fanatici hindu si sono
scagliati sulle icone d’una scuola cristiana, bruciandole. A Varanasi hanno
attaccato una celebrazione, gridando: ”Morte ai missionari”. Altri assalti s’erano
verificati negli Stati di Assam e dell’Haryana con l’abbattimento di statue nei
luoghi di culto e intimidazioni a chi pregava. L’accusa al proselitismo che
induce a “conversioni forzate” è da tempo al centro del fanatismo hindu che cerca vittime sacrificali.
Bersaglio anche congregazioni storiche, come quella di Madre Teresa di
Calcutta, incolpate di attirare subdolamente le giovani, ferendo il sentimento
hindu. Una prima normativa sulle conversioni religiose (Conversion Bill) fu adottata a metà anni Cinquanta, poi nel 1967
viene introdotta una legge anti conversioni (Orissa Freedom of Religion Act). Si trattava di regolamenti
applicati in singoli Stati che praticavano un distinguo da quanto non era stato
volutamente legiferato alla nascita dell’India moderna. Il premier Nehru s’era
sempre opposto a rigide leggi, temeva che ne scaturissero cattivi metodi,
inganni e molestie per i cittadini. Col senno del poi il suo pensiero si rivela
profetico. La Prohibition of Unlawful
Religious Conversion Bill, varata nel 2021 nell’Uttar Pradesh, rende la
conversione religiosa un reato che può prevedere fino a 10 anni di reclusione. Alle cosiddette ‘conversioni forzate’ alcuni
Stati contrappongono la Ghar Wapasi
con cui gli hindu cristianizzati tornano alla fede primaria. I cattolici locali
considerano questa una reale forzatura. Il vescovo Mathias l’ha affermato con
decisione, ma il suo pulpito è circoscritto, e la vita nella città di sua
competenza – Lucknow – diventa sempre più difficile.
Nell’esasperazione dei
rapporti il ceto politico hindu vuol introdurre anche lì la prassi di
rinominare località che hanno riferimenti islamici. Così Allahabad è diventata
Prayagraj, e per Lucknow è in ballo la denominazione Lakshman, il fratello
minore del dio Rama. Visto che la tendenza ha preso piede con metropoli
storiche (Bombay diventata Mumbai sotto la spinta di Bal Thackeray discusso
leader della formazione filo nazista Shiv
Sena, Calcutta trasformata in Kolkata che si rifà a Kolikata, uno dei tre
villaggi locali precedenti l’arrivo britannico) l’intento di scrollarsi di
dosso i retaggi del colonialismo toponomastico fornisce all’integralismo arancione
un alibi per l’altrui esclusione, specie sul fronte confessionale. La
simbologia sta caratterizzando alcune proteste scolastiche nella ricca regione
Karnataka, dove l’ipertecnologica capitale Bangalore ha anch’essa mutato in
nome in Bengaluru. Nei college di Kundapura e Udupi dai primi giorni di
febbraio gruppi di studentesse musulmane hanno iniziato una protesta. Da oltre
un mese alcune di loro che indossavano l’hijab
non erano ammesse in aula. Così tutte fuori col velo sul capo. Per contro
studenti hindu hanno iniziato a ostentare vistose sciarpe e copricapo arancioni,
assumendo toni aggressivi verso le colleghe. Mentre le autorità scolastiche
meditano d’introdurre una divisa d’istituto, la polizia è intervenuta perché la
contrapposizione non degenerasse. “Eppure
per chi mostra simboli religiosi (bindi,
il punto colorato sulla fronte di hindu, buddisti, giainisti oppure tripundra le linee orizzontali con un
punto di cenere sacra, sempre da parte hindu) non ci sono divieti” hanno osservato le giovani islamiche,
chiedendo rispetto e parità di trattamento. Ma come abbiamo visto i toni sono
già caldissimi e, in alcune aree, scorre il sangue e si contano le vittime.
Eppure i più colpiti
continuano a essere i dalits - gli
oppressi - (50.000 le azioni violente e gli omicidi nei loro confronti nel
2020) molto più che ultimi della catena sociale. Rappresentano, assieme ai
propri maggiori oppressori delle caste dominanti (rajputs, thakurs), il
medioevo indiano sopravvissuto al colonialismo e inserito nella nazione
moderna. Del resto il sistema delle caste, che conserva la gerarchia
dell’ineguaglianza e dello sfruttamento, veniva difeso anche da Gandhi quando
affermava che l’induismo non poteva farne a meno. Il rilancio di tale pratica tradotta
nell’estremismo dell’hindutva ha rilanciato
la teoria della ‘maggioranza hindu’ che raccoglie un numero elevatissimo di
adepti, ovviamente fra gli stessi dalits
in gran parte fedeli hindu. Tenendo quest’ultimi al fondo d’una piramide
bloccata, atta a impedire ogni travaso, scalata sociale, uscita dai ghetti, a
vantaggio d’una ristretta cerchia di potentissimi hindu. Di fatto la vera
maggioranza indiana sono le caste inferiori e i cittadini di altre confessioni,
ma tutti risultano subalterni alle caste superiori. Queste pur non raggiungendo
neppure il 10% della cittadinanza però occupano e gestiscono il 90% dei ruoli
istituzionali e professionali. L’aspetto manipolatorio di questo progetto ha
trovato nel Bjp un interprete
determinato e irruente, seppure la scelta dell’uomo che lo incarna, Narendra
Modi, figlio d’un modesto venditore di tè, appaia una contraddizione in
termini. Ma si tratta d’un artificio calcolato che fa credere agli ultimi di
non essere esclusi. Più che una favola una falsità, condita dal razzismo di
ritorno. E mentre l’indigenza aumenta: secondo studi interni dell’Università di
Bangalore (ormai Bengaluru) il Paese conta almeno 200 milioni di nuovi poveri post
pandemia (il 38% degli abitanti dell’Uttar Pradesh lo sono), la ruralizzazione
di milioni di persone, in fuga dalla perdita di lavoro nelle città, si è ormai
consolidata. Tematiche come lotta alla povertà e disoccupazione, diritto alla
salute (ufficialmente le vittime della pandemia superano il mezzo milione su 42
milioni di casi accertati), programmazione industriale e tecnologica sono stati
ben poco presenti nel dibattito pre-elettorale. Modi s’è rifugiato nella fede,
brandita come una spada su diversi e oppressi lasciati nei loro ghetti o
destinati a sparire.
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