Tornano le bombe e i corpi sventrati in medioriente. Mentre
l’attenzione mediatica è concentrata sullo scenario ucraino, dove i venti di
guerra non tendono a fiaccarsi e investono anche un impianto nucleare, la
moschea sciita di Peshawar si riempie di sangue innocente. Nel corso della
preghiera del venerdì un commando non identificato ha attaccato a colpi di
kalashnikov la vigilanza esterna, mentre due miliziani penetravano nel luogo di
culto. Un sopravvissuto ha dichiarato alla polizia, che sostiene d’aver avviato
indagini: “E’ stato un attimo, non ho
fatto in tempo a girare gli occhi che mi si sono riempiti di polvere. Una
deflazione tremenda, corpi mutilati e lamenti”. Oltre a trenta cadaveri si
contano per ora sessanta feriti e si teme che molti non ce la faranno. L’area
centrale nel quartiere Namak Mandi, dove sorge la moschea Kosha Risaldar e lo
storico bazar Qissa Khwani, è stata isolata dalle forze dell’ordine, sebbene il
nucleo che ha perso il kamikaze pare scomparso nel nulla. Sebbene finora nessuna
sigla armata ha rivendicato l’azione, il pensiero vola agli agglomerati dell’Isis
Khorasan che agiscono sul confino afghano-pakistano e che negli ultimi giorni
hanno riproposto agguati, dopo un periodo di stanca. Il premier Khan e il
ministro dell’Interno Rashid hanno emanato comunicati di condanna per l’attentato
e un ritorno a barbare esecuzioni di gente comune che seminano odio e morte. Note
del ministero fanno riferimento alla “larga
cospirazione” che riprende fiato. Quella del maggiore gruppo
fondamentalista Tehreek-e Taliban,
con cui l’esercito s’era duramente scontrato negli ultimi anni, subendo attentati
strazianti: alla scuola dei familiari di
militari proprio a Peshawar (145 vittime totali, di cui 132 bambini e ragazzi),
che resta nella memoria dei due fronti contendenti.
Potentissimo quello della lobby militare, condizionante sulla
politica che cerca di barcamenarsi con l’altra ingombrante presenza interna: il
fondamentalismo organizzato, non solo dei gruppi marchiati come terroristi. Negli
ultimi mesi del 2021 Khan aveva aperto le porte a un confronto coi Tehreek Labbaik Pakistan che,
manifestazione dopo manifestazione, avevano bloccato il traffico commerciale
fra il nord e il sud del Paese. In maniera tutto sommato pacifica ma
determinatissima, organizzando giganteschi sit-in sulle maggiori vie di
transito. Volevano si applicasse rigorosamente la Blasfemy law contro le minoranze cattoliche e ahmadi presenti sul
territorio. Cedendo alla loro pressione, liberando l’incendiario leader Rizvi
accusato di arringhe fondamentaliste e per questo arrestato, fra governo e Labbaik s’era aperto un confronto
conclusosi poi con un nulla di fatto. Ma come nelle madrase deobandi si
continua a predicare contro gli infedeli, così l’estremismo politico si
ripresenta con l’arma del ricatto di caos e sangue. Khan, che l’anno prossimo
dovrà affrontare elezioni tutt’altro che tranquille, è fra due fuochi.
Cerca di mostrarsi lungimirante per l’economia nazionale prendendo a cuore, fra
l’altro in un contesto mondiale intricatissimo, la questione energetica. Da qui
il suo viaggio a Mosca per discutere del Pakistan
Stream nel giorno in cui Putin scatenava l’intervento oltre il confine
ucraino. E non celando mire egemoniche regionali verso il malandato e abbandonato Emirato afghano. Se dietro l’attentato di stamane ci siano i talebani
pakistani, i loro alleati dell’Isis Khorasan o il più potente gruppo taliban di
Kabul quello degli Haqqani, sarà tutto da scoprire. E non lo farà certo
l’Intelligence interna, che coi turbanti tuba non da oggi. Di fatto il quadro
dell’instabilità nel popoloso e nucleare Paese Islamico prosegue.
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