Commentatori indiani
dipingono il Paese,
e verosimilmente il leader Modi, come “un
coniglio smarrito dalla luce abbagliante di due fari” - l’uno americano,
l’altro russo - davanti alla richiesta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite di pronunciarsi sui risvolti della crisi ucraina e dell’invasione di quei
territori da parte dell’esercito moscovita. L’astensione di Delhi riflette
quell’abbaglio che continua a tenerla legata ai due giganti mondiali, tornati
pur indirettamente contendenti nel vecchio continente. Un motivo cogente può
essere la perdurante tensione a due passi da casa con l’altro gigante globale suo
nemico: la Cina. La geomorfologia del Ladakh, dove reparti dei due eserciti si
fronteggiano da due anni, non facilita manovre militari come le pianure
ucraine, né via terra né via aria. Tant’è che negli screzi di confine a cinquemila
metri d’altitudine, i reparti sino-indiani si sono confrontati a colpi di
bastone senza metter mano alle armi. Presi dalle proprie beghe, Delhi e Pechino
hanno una visione asio-centrica del mondo, osservano distaccati le smanie
neo-imperiali di Putin, tranne che per le ripercussioni sui mercati
internazionali. Ovviamente quello energetico di cui entrambi hanno dannato
bisogno, ma in modo meno assillato di un’Unione Europea gas-dipendente da
Mosca. Ed è proprio il mercato globale e il prodotto che in esso sopravanza lo
stesso smercio d’idrocarburi, quello delle armi, a creare lo sbandamento del
premier indiano. Condannando l’azione offensiva russa e appoggiando le dure
sanzioni americane contro Mosca, l’India rischia d’infastidire un fornitore
affidabile seppure in buoni rapporti con la Cina. Non facendolo irriterebbe l’alleato
di Washington attivo su un quadrante geostrategico che s’allarga a Giappone e
Australia. Eppure questo bilanciarsi di Modi con un parziale autonomia strategica,
militare, politica potrebbe non durare a lungo. La sua recente telefonata a
Putin con un richiamo a un ‘onesto e
sincero dialogo con l’amministrazione
ucraina’ avveniva mentre carri, aerei e truppe russe già svolgevano
operazioni militari con una determinazione e un’intensità che non lasciavano
dubbi sulle intenzioni non solo aggressive, ma d’annessione di territori.
Mentre un servizio della
CNN evidenziava la delusione di Washington
perché una delle potenze atomiche alleate nello scacchiere asiatico non
denunciava la campagna militare russa, né si pronunciava sulle misure
d’embargo. Il problema è che avallare le sanzioni americane comporterebbe
ritardi, se non il blocco, delle attese forniture belliche di missili
Almas-Antey S-400, da piazzare appunto nella regione del Ladakh. O delle
forniture di armi leggere, kalashnikov e simili, per le operazioni repressive
dell’esercito in Kashmir. In più le sanzioni limiterebbero il rifornimento di
alcune componenti necessarie all’industria bellica russa. Così i vertici delle
Forze Armate hanno avvertito il governo di Delhi che i mancati rifornimenti
potranno rivelarsi controproducenti nei mesi estivi, quando con lo scioglimento delle nevi il faccia
a faccia coi cinesi nella zona himalayana riprende vigore. Discorso simile per
forniture militari marine: quattro fregate Krivak IV, costruite a Kaliningrad,
per un costo di 500 milioni di dollari cadauna potrebbero registrare ritardi. Le
fregate della classe Admiral Grigorovich hanno avuto a che fare proprio con la
crisi ucraina già dal 2015, in quanto era la locale azienda statale Zorya-Mashproekt a fornire le turbine a
gas per le navi. Da quel momento le turbine non furono più spedite ai cantieri
sul Baltico, gli approvvigionamenti giunsero dalla russa Saturn, specializzata in motori aeronautici. Nell’ultimo ventennio,
e dunque anche sotto l’attuale governo Modi, le forniture belliche indiane sono
state divise fra Stati Uniti e Russia. Con un atteggiamento accomodante
Washington ha desistito dal censurare, tramite il cosiddetto Countering America’s Adversaries Through
Sanctions Act, i dispositivi missilistici (sempre S-400 russi) dislocati da
Modi nel Punjab. Alla ‘tolleranza’ americana il governo indiano aveva risposto
acquistando per un miliardo di dollari il sistema missilistico NASAMS-2 teso a
fortificare lo ‘scudo difensivo’ nazionale. Una commessa da un miliardo di
dollari incassati dall’industria bellica americana. Uno dei venti miliardi convogliati
da Delhi per il riarmo nazionale, altri tre hanno riguardato l’arsenale atomico
aeronautico.
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