Pazientemente in fila sotto il controllo dei
militari presenti ai seggi la gente del Punjab – l’elettorato ammonta a 21
milioni – attende il proprio turno. Gli uomini vestono orgogliosi i dastar colorati (i turbanti tipici dell’etnìa),
evidenziando la virilità con barbe scure o imbiancate. E’ nel profondo nord del
Paese, fra il popoloso Uttar Pratesh e il ribelle Punjab, che Narendra Modi si
gioca la credibilità per il futuro del Bharatiya
Janata Party. Un voto dall’ampio sapore sociale nell’attuale difficile fase
economica della nazione. Punjabo è lo zoccolo duro del ceto contadino che per
tutto il 2021 ha contestato la controriforma governativa, una protesta
tendenzialmente pacifica ma implacabile per resistenza e determinazione che coi
suoi blocchi stradali ha sopportato una dura repressione e messo in ginocchio
il via-vai di merci nella nazione-continente. In un anno la polizia ha cosparso
di sangue strade e viottoli, ha freddato più di settecento manifestanti
colpevoli di organizzare sit-in e sbarramenti. Le centinaia di migliaia di piccoli
e medi agricoltori non hanno indietreggiato d’un metro e dopo quattordici mesi hanno
costretto il premier a ritirare una legge che li sfavoriva a vantaggio delle
multinazionali delle coltivazioni. Uomini duri i punjabi, attaccati alla terra,
a una tradizione agricola che tuttora contribuisce a quasi la metà del Pil
indiano, vicini alla famiglia che gli si stringe attorno in ogni fase e che ha
ne sostenuto totalmente la lotta. Così con l’unità di parenti e clan, alla
presenza per strada di vecchi, donne e bambini, associando sigle sindacali
(seppure qualche divergenza s’è verificata), superando diversità confessionali
i contadini sikh, hindu, islamici si sono stretti nel contestare una legge che
li avrebbe disgregati e ridotti alla fame. Hanno ragionato per intenti e
interessi sociali, e hanno vinto.
Ora davanti ai seggi il Bjp li accarezza, promette loro più sussidi,
elettricità gratuita, aperture commerciali, ma la rabbia dei mesi scorsi non
sembra sbollita. Anzi. Ridare un dispiacere al borioso governo è un pensiero
stupendo che corre per le loro teste. A cercare spazio e voti c’è anche l’Aam Aadmi Party, nato nel 2012 sull’onda delle proteste anticorruzione
dell’anno precedente, è diventato un caso nazionale dopo aver conquistato la
guida d’uno Stato simbolo come quello di Delhi. Il suo leader è Arvind Kejriwal
e negli ultimi tempi il gruppo ha ampliato la sua influenza in Punjab e a Goa. Kejriwal
durante gli interventi svolti in campagna elettorale è stato accusato dagli
avversari, soprattutto da Raul Gandhi del Partito del Congresso, di lavorare
per il separatismo dalla Federazione indiana. Lui ha risposto in chiave
populista: “Mi definiscono terrorista.
Sono il più dolce terrorista del mondo che costruisce scuole, ospedali, sevizi
elettrici per la gente”. Durante le settimane di propaganda s’è speso in
promesse, un successo del suo partito - diceva - avrebbe prodotto sicurezza
fisica e di lavoro a ogni cittadino. Taluni commentatori sostengono che abbia
sguinzagliato i suoi attivisti a corteggiare in maniera neppure tanto velata
gli elettori hindu, che in loco sono fortemente uniti alla comunità Sikh. Forse
per questo Kejriwal ha ignorato, pure davanti a domande dirette della stampa, il
Citizenship Amendment Act, la legge che
discrimina i migranti islamici che è stata fortemente voluta dal partito di
Modi. Se vuoi sottrargli voti, non puoi cancellare la matrice d’un elettorato sedotto
anche dal radicalismo religioso.
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